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Quando i lavoratori anziani ostacolano la carriera dei giovani*

A una forza lavoro che invecchia si è finora risposto con l’aumento dell’età pensionabile. Ma è una scelta che può costare cara per le carriere dei giovani. Perché diventa più difficile per loro raggiungere le fasce più alte della distribuzione salariale.

L’invecchiamento della forza lavoro e le carriere dei lavoratori più giovani

La popolazione e la forza lavoro della maggior parte dei paesi ad alto reddito invecchiano rapidamente. Negli Stati Uniti, per esempio, la quota di lavoratori di età pari o superiore a 55 anni è aumentata dell’88 per cento, passando dal 12,9 per cento nel 1985 al 24,3 per cento nel 2020, segnando la crescita più alta tra tutti i gruppi di età. Nel 2018, il Giappone è diventato il paese con la popolazione più anziana del mondo, con la più elevata quota di popolazione di età pari o superiore a 65 anni. Allo stesso modo in Italia, uno dei principali soggetti della nostra analisi empirica, l’età media dei lavoratori è aumentata del 19 per cento, passando da 35,8 anni nel 1985 a 42,7 anni nel 2019.

La tipica risposta all’invecchiamento della popolazione è stata quella di aumentare l’età pensionabile. I paesi con grandi sistemi pensionistici statali hanno spesso aumentato l’età minima di pensionamento per garantire la sostenibilità a lungo termine del welfare state. Allo stesso modo, le leggi sulla salvaguardia dell’occupazione prevedono di solito maggiori tutele per i lavoratori più anziani e che hanno lavorato più a lungo, per limitare il rischio che possano perdere il lavoro in una fase di carriera in cui le opportunità di reimpiego sono con grande probabilità limitate. Anche i mercati del lavoro e le imprese potrebbero aver risposto ai cambiamenti demografici aumentando la quota di lavori “age-friendly”, che sono più vantaggiosi per i lavoratori più anziani.

In generale, tutte queste risposte hanno portato ad aumentare ulteriormente, nei paesi ad alto reddito, l’offerta di lavoratori anziani nel mercato del lavoro. In un nostro lavoro spieghiamo perché questi cambiamenti possano comportare un costo per le carriere dei lavoratori più giovani.

Cresce la disuguaglianza salariale tra anziani e giovani

In molte economie ad alto reddito, mentre la forza lavoro invecchiava, i salari dei lavoratori più anziani sono aumentati molto più rapidamente di quelli dei lavoratori più giovani. Ad esempio, il divario retributivo tra i lavoratori sopra i 55 anni e quelli sotto i 35 (d’ora in poi, il “divario salariale per età”) è aumentato del 61 per cento negli Stati Uniti tra il 1979 e il 2018 e del 96 per cento in Italia tra il 1985 e il 2019 (figura 1).

Figura 1 – Divario salariale per età nel logaritmo dei salari settimanali, Italia

Nota: La figura 1 mostra il divario tra il logaritmo dei salari settimanali dei lavoratori over 55 e dei lavoratori under 35 dal 1985 al 2019, sia per i salari medi che per quelli mediani. In ciascun anno, i dati contengono informazioni su tutti i lavoratori che avevano almeno 16 anni, avevano lavorato almeno sei mesi, avevano guadagnato salari strettamente positivi, avevano contratti a tempo pieno e non erano andati in pensione entro il 31 dicembre.
Fonte: Database Uniemens, Istituto nazionale della previdenza sociale (Italia).

Abbiamo studiato come un aumento del numero di lavoratori anziani possa contribuire ad ampliare il divario salariale per età. Secondo un’ipotesi standard nella teoria economica, i lavoratori giovani e anziani sono sostituti imperfetti nella funzione di produzione; di conseguenza, un aumento dell’offerta relativa di lavoratori anziani dovrebbe diminuire i salari di questi ultimi rispetto a quelli dei lavoratori giovani, riducendo il divario salariale per età. Siccome il divario salariale per età si è ampliato, è evidente che devono essere in gioco altri fattori.

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Quando le posizioni di vertice sono limitate

Per spiegare come la crescente presenza di lavoratori anziani possa danneggiare i risultati di mercato dei lavoratori giovani proponiamo un quadro concettuale di “effetti negativi sulla carriera”. In particolare, il nostro modello evidenzia il ruolo di due caratteristiche dei mercati del lavoro nelle economie ad alto reddito.

In primo luogo, il modello assume che i lavoratori spesso ricevono rendite per una maggiore anzianità presso la loro azienda – per esempio, sotto forma di salari più stabili o di allocazioni fisse di lavoro. Vari fattori possono generare rendite associate a una maggiore anzianità, come i salari differiti, il capitale umano specifico dell’azienda, le ricadute di conoscenze (in inglese, knowledge spillovers) e i costi di licenziamento.

In secondo luogo, nel modello, alcune aziende hanno difficoltà ad aggiungere nuove posizioni apicali. Nella maggior parte delle economie ad alto reddito, i mercati del lavoro affrontano cali nella produttività del lavoro, nella crescita del Pil e nelle dinamiche aziendali. Tutti fattori che contribuiscono a rendere sempre più difficile per le aziende espandere i propri ranghi, soprattutto ai vertici.

Quando aumenta l’offerta relativa di lavoratori anziani, le gerarchie aziendali non sempre sono flessibili abbastanza da creare percorsi verso le posizioni di vertice per tutti i lavoratori che meriterebbero una promozione. Dato che i salari dei lavoratori anziani sono più stabili, i lavoratori giovani spesso sopportano il peso di questo shock di mercato sotto forma di un avanzamento di carriera molto più lento.

Cosa dicono i dati

Testiamo empiricamente le principali previsioni del modello utilizzando dati amministrativi che abbinano datori di lavoro e dipendenti in Italia tra il 1985 e il 2019. Inoltre, mostriamo che i risultati principali sono validi anche utilizzando dati amministrativi più limitati per la Germania e dati sulle forze di lavoro per altri quattordici paesi ad alto reddito.

I lavoratori giovani hanno effettivamente incontrato crescenti difficoltà nel raggiungere i segmenti superiori della distribuzione salariale, al contrario di quanto riportato dai lavoratori più anziani. In Italia, la probabilità che i lavoratori sotto i 35 anni appartengano al quartile superiore dei salari settimanali è diminuita del 34 per cento dal 1985 al 2019, mentre la stessa probabilità per quelli sopra i 55 anni è aumentata del 32 per cento (figura 2).

Figura 2 – Posizioni nella distribuzione salariale, Italia

Parte A: Lavoratori under 35

Parte B: Lavoratori over 55

Nota: La parte A (B) mostra il rapporto tra la quota di lavoratori under 35 (over 55) in ciascun quartile della distribuzione dei salari nell’anno t e la quota di lavoratori under 35 (over 55) nello stesso quartile nel 1985. In ciascun anno, i dati contengono informazioni su tutti i lavoratori che avevano almeno 16 anni, avevano lavorato almeno sei mesi, avevano guadagnato salari positivi, avevano contratti a tempo pieno e non erano andati in pensione entro il 31 dicembre.
Fonte: Database Uniemens, Istituto nazionale della previdenza sociale (Italia).
 

Come previsto dal modello, il principale motore dell’ampliamento del divario salariale per età è stato il movimento in direzioni opposte dei lavoratori giovani e anziani lungo la distribuzione salariale più che i cambiamenti nel livello dei salari pagati in diverse parti della distribuzione o per diversi lavori. Mantenendo il livello dei salari reali nell’economia fisso a un valore di riferimento (ad esempio quello del 1985), calcoliamo quindi il “divario salariale per posizione”. Quest’ultimo è la parte dell’espansione del divario salariale per età attribuibile alla variazione delle posizioni dei lavoratori giovani e anziani nella distribuzione salariale. I dati indicano che il peggioramento della posizione salariale dei lavoratori giovani e il miglioramento di quello dei lavoratori anziani hanno rappresentato il 78 per cento della crescita totale del divario salariale per età.

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In linea con la crescente concentrazione dei lavoratori anziani nei lavori meglio retribuiti, i nuovi ingressi nel mercato del lavoro sono avvenuti progressivamente più in basso nella distribuzione salariale, spiegando fino al 64 per cento della perdita salariale totale per posizione. La posizione dei nuovi entranti nel mercato del lavoro nella distribuzione salariale, inoltre, oggi cresce più lentamente per diversi anni dopo l’ingresso.

La nostra analisi documenta poi i tipi di aziende in cui il divario salariale per età si è ampliato di più. I dati indicano che un aumento del numero di lavoratori anziani in posizioni apicali è più dannoso per i lavoratori giovani nelle aziende che hanno maggiori difficoltà ad aggiungere posizioni di alto livello: le imprese più vecchie e più grandi con una crescita occupazionale più bassa hanno trovato particolarmente difficile tracciare percorsi di carriera soddisfacenti per i loro lavoratori più giovani, che hanno subìto perdite di posizione nella distribuzione salariale in misura superiore alla media.

Oltre a perdere terreno all’interno delle aziende, i lavoratori giovani sono stati progressivamente concentrati in quelle peggiori. Infatti, il progressivo radicamento dei lavoratori anziani nelle aziende con retribuzioni migliori ha ridotto la probabilità che i lavoratori giovani vi trovassero impiego. Tra il 1985 e il 2019, la quota di lavoratori giovani è diminuita di 2 punti percentuali (una perdita del 26 per cento rispetto al livello del 1985) tra le aziende nel decile superiore di retribuzione media, ed è aumentata di 3 punti percentuali tra le aziende nel decile inferiore (figura 3).

Figura 3 – Distribuzione dei lavoratori tra le aziende, Italia

Parte A: Quota di lavoratori over 55

Parte B: Quota di lavoratori under 35

Nota: I gruppi aziendali sono cento, ordinati in ordine crescente in base alla retribuzione media aziendale che hanno lo stesso numero di lavoratori. La parte A (Parte B) mostra la variazione nei lavoratori over 55 (under 35) per ciascun gruppo aziendale dal 1985 al 2019. Per limitare l’errore statistico (in inglese, “noise”), i valori in figura sono medie calcolate utilizzando ciascun gruppo e i suoi due gruppi aziendali adiacenti (uno nel caso del primo e dell’ultimo gruppo). In ciascun anno, i dati contengono informazioni su tutti i lavoratori che avevano almeno 16 anni, avevano lavorato almeno sei mesi, avevano guadagnato salari positivi, avevano contratti a tempo pieno e non erano andati in pensione entro il 31 dicembre.
Fonte: Database Uniemens, Istituto nazionale della previdenza sociale (Italia).
 

Perché la politica deve tenerne conto

I nostri risultati teorici ed empirici indicano che avere più lavoratori anziani nel mercato del lavoro può danneggiare i risultati di carriera dei lavoratori giovani, almeno in un contesto in cui le posizioni meglio retribuite sono poche rispetto al numero di lavoratori. La progettazione delle politiche di pensionamento dovrebbe considerare questi effetti collaterali, poiché hanno importanti conseguenze lungo l’intera vita lavorativa. Ad esempio, salari più bassi all’inizio della carriera possono scoraggiare alcuni lavoratori dall’acquisto di beni durevoli, dall’investimento in immobili o dal formare una famiglia: sono decisioni che non sempre possono essere rimandate a fasi successive della carriera.

* Una versione più estesa dell’articolo, in inglese, è disponibile su VoxEu.

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  1. Enrico

    Finalmente una visione meno ragionieristica del sistema pensionistico. Lasciare troppo al lavoro gli anziani riduce la produttività (se non altro per il maggior numero di ore perse per malattia) e rallenta l’innovazione, oltre che frenare la carriera dei giovani. Non è un caso se le imprese, che a queste cose ci pensano, non ricercano personale over 50. Sarebbe il caso che questi aspetti fossero spiegati bene a RGS, Bankitalia e Commissione Europea che continuano a supportare un innalzamento dell’età della pensione.

    • bob

      “Non è un caso se le imprese, che a queste cose ci pensano, non ricercano personale over 50.” Ma dove prendi questo dato? Io ti dico che sono ricercatissimi sia come consulenti, gestori di processi, etc.
      Il problema è che si fanno politiche a lungimiranza zero soprattutto in questo Paese da 40 anni. Finalizzate soltanto ad accaparrarsi consensi per le prossime imminenti elezioni quindi scaricando i problemi su quelli che verranno dopo

  2. Massimiliano ceci

    La questione sicuramente dovrebbe essere considerata dai governi per le politiche previdenziali ma, in considerazione e dell’aumento dell’aspettativa di vita, è ragionevole pensare che si possa passare più tempo a lavoro. Detto questo sarebbe opportuno che le le aziende facciano delle scelte sulle persone e investano di più nei giovani anche mediante politiche attive e rendendo i posti di lavoro maggiormente attraenti non soltanto aumentando i salari. Una buona idea potrebbe essere il welfare. È verosimile pensare che ad un certo punto della carriera lavorativa (per questioni di età ed esperienze) possa essere ragionevole, piuttosto che aumentare le posizioni di vertice per inserire giovani in posizioni apicali preparando gli anziani al pensionamento. Sarebbe interessante valutare gli effetti di trasferimento di know – how intergenerazionale che a mio avviso porterebbe ad un aumento di produttività proprio legato all’approccio dei lavoratori giovani nelle aziende.

  3. bob

    quando la politica è ridotta allo stato attuale si cercano alibi di “falsi problemi” perchè non si ha la capacità di proporre soluzioni concrete e di lungo temine. Il problema vero di questo Paese sono i salari irrisori rispetto al costo della vita. Come si fa a dare 1100 euro ad un lavoratore e poi liberalizzi un mercato degli affitti dove ti chiedono 800 euro per un mini appartamento? Il problema è in questo esempio.
    Anticipare le persone alla pensione oltre che atto assurdo e antidemocratico è un prendersi in giro e rimandare la risoluzione dei problemi.
    Allora la politica vera o assicura un prezzo di acquisto o di affitto conveniente per un’abitazione ( vecchio equo canone) oppure imposta politiche tali di crescita culturale, produttiva del suo sistema .
    Ma l’ Italia dei furbi e dei rattoppi ha sempre geniali soluzioni: servono soldi ai Comuni rilasciamo a go-go licenze ai Centri commerciali a fronte di quattro lire e una decina di assunzioni abbiamo letteralmente distrutto un intera economia di piccoli centri e città.
    Potrei proseguire con altri mille esempi

  4. lorenzo

    I boomers hanno sostenuto e ancora sostengono le conseguenze scellerate delle politiche pre-riforme degli anni ’90. Di cosa vogliamo parlare?

  5. Vittorio

    Interessante articolo.
    I boomers, si sono trovati ad inseririsi nel mondo del lavoro quand l’econmia era frizzante e capace di crescere velocemente. Tutto questo ha moltiplicato il numero di posizioni meglio retribuite.
    Ora di fronte ad un’economia stagnante da decenni, il numero di queste posizioni si e’ stabilizzato o addirittura si e’ ridotto.
    La minor od assente crescita economica, pesa tra le altre cose sui bilanci pubblici che non possono largheggiare sul fronte dell’anticipazione del ritiro dal lavoro.
    Non ci sono risposte a tutto questo se non una crescita piu’ robusta, ma che vede l’Italia in difficolta’ complice anche il fatto che il nostro core business e’ legato a settori tradizionali con basse prospettive di crescita, soprattutto se impattate da una decrescita demografica.

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