I fondi di sviluppo e coesione sono la principale misura per la crescita dei territori, in particolare nel Mezzogiorno. Dopo la riforma della governance restano due problemi: eccessiva frammentazione degli interventi e mancanza di meccanismi di verifica.

Gli “Accordi per la coesione” con le regioni

Il Fondo per lo sviluppo e la coesione (Fsc) è il veicolo finanziario che raccoglie le risorse di bilancio di natura aggiuntiva dirette al riequilibrio economico e sociale, in attuazione del quinto comma dell’articolo 119 della Costituzione (Dlgs n. 88 del 2011).

Il Fsc è detto “aggiuntivo” in quanto integra la porzione “ordinaria” della spesa per lo sviluppo, mirando a correggere gli squilibri territoriali più acuti e persistenti. Ne è riprova la destinazione prevalente al Mezzogiorno, cui la legge riserva l’80 per cento della dotazione.

Affiancando sul versante nazionale le risorse di coesione alimentate dai fondi strutturali dell’Unione europea, Fsc finanzia soprattutto incentivi alle imprese e investimenti pubblici, anche in ambiti non particolarmente privilegiati dai fondi europei (come opere stradali e ferroviarie).

Nell’attuale ciclo di programmazione 2021-2027 la dotazione finale di Fsc ammonta a poco più di 48 miliardi, 32,4 dei quali assegnati a regioni e province autonome dalla delibera Cipess n. 25 del 2023.

La nuova governance

Negli ultimi anni la governance Fsc è stata ripetutamente modificata con la dichiarata intenzione di migliorare rapidità ed efficacia della spesa. Si è voluto ampliare il ruolo di impulso e vigilanza del governo, affinare il sistema di monitoraggio, rafforzare il coordinamento con gli altri fondi per lo sviluppo e, dal 2023, con le misure del Piano nazionale di ripresa e resilienza.

La programmazione degli interventi, che in precedenza poggiava sui cosiddetti ”Piani sviluppo e coesione” (art. 1, comma 178, della legge n. 178 del 2020), si realizza ora tramite apicali “Accordi per la coesione (Apc)”, stipulati fra il ministro delegato e il presidente della regione (art. 1 del Dl n. 124 del 2023). Il recente “decreto Coesione” (Dl n. 60 del 2024) accentua il presidio centrale nella gestione del Fondo, individuando “settori strategici” su cui indirizzare in via prioritaria le risorse e rafforzando il ruolo propulsivo della cabina di regia.

La tabella 1 riassume i principali tratti morfologici dei diciotto accordi firmati con regioni e province autonome fra settembre 2023 (Liguria) e maggio 2024 (Sicilia). Si tratta di circa 2.400 interventi (di cui un migliaio finanziati in anticipazione, per 2 dei circa 22 miliardi complessivi); emerge ovviamente un’ampia variabilità in termini sia di dotazione finanziaria, sia di numerosità delle misure (gli elenchi sono disponibili sul portale Open Coesione).

Tanto rumore per poco?

Nonostante i lodevoli propositi, nella nuova impostazione di Fsc e accordi per la coesione continuano a mancare tre ingredienti potenzialmente capaci di accrescere la qualità della spesa: un’analisi dei fabbisogni che giustifichi la selezione degli interventi finanziati nei pertinenti contesti settoriali e territoriali; indicatori di avanzamento realizzativo, non solo finanziario (a differenza di quanto accade con il Pnrr, le cui tranche sono condizionate a esiti effettivi); procedure di valutazione oggettiva dell’efficacia degli interventi.

L’analisi degli interventi (esclusi quelli finanziati in anticipazione) riaggregati su base nazionale nelle dodici “Aree tematiche” in cui si articolano gli Apc restituisce un assortimento piuttosto eterogeneo. Tre i tratti di interesse: concentrazione tematica solo apparente; frammentazione e polarizzazione dimensionale; parziale indeterminatezza dei profili finanziari.

Tre ambiti “infrastrutturali” (ambiente, trasporti e città) assorbono quasi l’80 per cento delle risorse, che tuttavia riguardano il 70 per cento degli interventi, la cui taglia media è dunque solo di poco superiore a quella totale (tabella 2).

La frammentazione è confermata dalla distribuzione degli interventi per fasce di costo che ne vede i tre quarti situarsi sotto la soglia di 10 milioni (tabella 3).

Di converso, circa il 70 per cento delle risorse è polarizzata nei (140) interventi dell’ultimo decile (figura 1): si tratta principalmente di grandi investimenti ambientali, trasportistici e di schemi di incentivazione per le imprese, una decina dei quali superano i 300 milioni. Se ne ricava l’impressione di trovarsi davanti a una collazione di iniziative più che a elenchi ragionati.

Il profilo finanziario atteso mostra la sostenuta accelerazione degli esborsi negli anni iniziali, un pattern ricorrente in questo tipo di spesa (figura 2).

Circa un terzo della copertura deriva però da cofinanziamenti di varia natura (apporti regionali, altre risorse nazionali, fondi di privati), non profilati nei piani annuali (tabella 2, colonna D). Inoltre, quasi un terzo dei “nuovi” interventi inseriti negli elenchi (il costo sfiora gli 8 miliardi) è al momento privo del cosiddetto “codice unico di progetto” (Cup). Entrambi gli elementi gettano ombre sulla robustezza dell’esercizio di pianificazione.

Analisi più mirate potranno approfondire altri aspetti, come l’asserita complementarità con le misure contenute nel Pnrr e con quelle che, con estrema lentezza, cominciano a essere attuate nei Piani regionali dei fondi Fesr per il ciclo in corso.

In conclusione, non si colgono decisi cambi di rotta nel modus operandi della leva Fsc. Emerge piuttosto la conferma dell’inclinazione più “verticale” delle politiche di sviluppo del governo in carica, già segnalata da osservatori autorevoli (si veda qui e qui).

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