Un sistema elettorale peculiare fa sì che per conquistare la Casa Bianca un candidato debba vincere nei cosiddetti “stati in bilico”. Uno di quelli da conquistare in questa tornata è la Pennsylvania, dove le sirene trumpiane sono particolarmente forti.
Il disagio sociale dei bianchi
“Io ero uno di quei ragazzi dal destino segnato”, dice J.D. Vance all’inizio della sua autobiografia (Hillbilly Elegy, 2016). Sopravvivere col sussidio statale e morire di overdose rappresentavano tutto il disperante arco delle possibilità per i giovani come lui, poveri figli di poveri, nella regione dei Monti Appalachi, tra Pennsylvania, Ohio e Kentucky.
La narrazione di J.D. Vance, fatta tutta di vita vissuta in prima persona e quindi marchiata col fascino indiscutibile della cruda realtà, è quella di un popolo di proletari bianchi, pieni di forza, ignoranza e orgoglio, chiamati dagli altri americani “hillbilly” (buzzurri) e ricambiati con un odio radicale verso le élite, fieri della propria terra, legati visceralmente alla famiglia, al clan, al gruppo, ai propri valori, pronti a tutto per difenderli da soprusi e ingiurie, piegati sotto un destino avaro e senza scampo, ma contro cui solo loro possono permettersi di imprecare.
Siamo negli anni Novanta, nelle viscere della “Rust Belt”, l’area interna americana della deindustrializzazione e delle fabbriche mangiate dalla “ruggine”, che ha visto il passaggio epocale dalla manifattura all’economia terziaria dal lato sbagliato della storia.
Per quella gente, il sogno americano è finito male, l’ascensore sociale è precipitato, le prospettive di carriera e di riscatto, se non per sé almeno per i propri figli, sono state disintegrate assieme ai redditi della classe operaia e ai posti di lavoro.
In fondo, detta così, non sembra esserci nulla di particolare in questa storia di generale impoverimento che ha investito non solo gli Stati Uniti, ma tutte le economie occidentali negli anni impetuosi della delocalizzazione e della globalizzazione.
Lo specifico americano, però, sta in una società “fondamentalmente ancora razzista” che collega automaticamente il disagio sociale (povertà, disoccupazione, divorzi, droga) al colore della pelle dei “neri”, degli “asiatici” e dei “latinos”, ma fatica a riconoscerlo nel gruppo, pur maggioritario, dei “bianchi” (62 per cento della popolazione nel 2020).
La conseguenza, scrive J.D.Vance, è una profonda depressione economica ma anche sociale, culturale ed esistenziale, che svuota dal di dentro gli hillbilly, toglie loro ogni ambizione, ogni capacità di progettare un riscatto e in certi casi persino il più elementare istinto di conservazione. E li rende preda, aggiungo io, non solo di ogni promessa di rivincita, ma anche di ogni allettante menzogna e di ogni abile pifferaio.
Pochi mesi dopo l’uscita del libro di J.D. Vance, ci sono state le elezioni presidenziali del 2016 e il repubblicano Donald Trump, sotto l’insegna dei “forgotten people” e del Maga (Make America Great Again) ha conquistato sia la Florida della sua residenza miliardaria, sia le aree della classe operaia bianca e sfiduciata: Ohio, Michigan, Pennsylvania, Wisconsin.
Non a caso, è proprio recuperando il voto di questi ultimi tre stati – “swing states” – che Joe Biden si è assicurato il successo alle presidenziali successive, nel 2020.
L’incognita dell’affluenza
L’affluenza alle elezioni americane, pur nella difficoltà di conoscere con precisione il numero degli aventi diritto registrati al voto, mostra un significativo trend di ripresa, dopo il minimo storico del 1996, quando si attestò al 51,7 per cento (figura 1).
Figura 1
Nelle elezioni del 2020, con 258 milioni di persone sopra i 18 anni e 238 milioni di aventi diritto, si sono recati alle urne (o hanno votato a distanza) 158 milioni di cittadini, pari al 66,6 per cento: un record secolare, nonché, per inciso, un valore superiore al nostro 64 per cento del 2022.
Non è improbabile che l’accesissima campagna elettorale in corso porti l’affluenza verso il 70 per cento, con probabile beneficio netto per il Partito democratico.
Gli stati in bilico
Nelle elezioni presidenziali di novembre sono in palio i 438 seggi della Camera dei rappresentanti e i 33 seggi in scadenza (un terzo) dei 100 membri del Senato (due per ogni stato).
Sarà eletto presidente chi otterrà almeno la metà più uno dei voti (270 complessivi) tra Camera e Senato.
I 438 seggi della Camera dei rappresentanti sono ripartiti tra i 50 stati (più il Distretto di Washington-DC), in sostanziale proporzione alla loro dimensione (figura 2). Con la sola eccezione di Maine e Nebraska, che distribuiscono i seggi proporzionalmente ai voti ricevuti, i regolamenti elettorali prevedono un sistema di maggioritario puro, per cui tutti i seggi in palio nello stato vanno al partito che ha ricevuto il maggior numero di voti, qualunque sia lo scarto registrato.
Figura 2
Di conseguenza, l’attenzione dei candidati, come quella dell’opinione pubblica, è tutta concentrata sui cosiddetti swing state (stati in bilico) dove, storicamente, non c’è una lunga tradizione di voto democratico o repubblicano e le elezioni tendono a vincersi o a perdersi per pochi voti di scarto.
Per le elezioni del prossimo 5 novembre si possono identificare sette swing states (figura 3).
Figura 3
Il Texas e la North Carolina, oltre ad avere un numero consistente di seggi in palio (39 e 14 rispettivamente), nonché una lunga tradizione di voto (dal 1980 di Ronald Reagan) a favore del Great Old Party (rapporto sopra 1), vedono una tendenziale corrosione del consenso repubblicano che potrebbe arrivare a ribaltare il risultato.
Lo stesso discorso vale per l’Arizona e la Georgia, conquistate da Biden nel 2020 dopo anni di dominio repubblicano e dove Kamala Harris potrebbe riconfermarsi.
Restano in bilico gli stati della Rust Belt, Pennsylvania, Michigan e Wisconsin, che già Hillary Clinton, nella sfida del 2016 contro Trump, aveva perso di stretta misura e con essi la corsa alla presidenza.
In quest’area cruciale, con in palio 41 seggi, il verbo revanscista e identitario del “nuovo” J.D. Vance esercita certamente una forte attrazione, a cui il Partito democratico può far fronte recuperando le ragioni del voto democratico: un obiettivo difficile, ma non impossibile per Harris.
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Michele
C’e’ una lieve imprecisione che probabilmente dovrebbe essere rettificata: vincere la maggioranza della Camera e del Senato non implica vincere la presidenza in quanto questa si basa sui collegi elettorali presidenziali e non su quelli parlamentari.
Riccardo Cesari
Il presidente usa (e il suo vice) è eletto a maggioranza assoluta dai 100 senatori e 435 “deputati” (rappresentanti) più i 3 eletti del District of Columbia (area amministrativa della capitale). Se si ha la maggioranza di camera e senato si viene eletti (salvo il raro caso di membri di un partito che non votano il proprio presidente). Il viceversa è falso. Si può essere eletti senza avere la maggioranza in entrambi i “rami” ma solo in uno di essi.