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Più difesa, meno sociale nel primo bilancio di Trump

La previsione di bilancio per il 2018 assegna 54 miliardi in più alla difesa e ne taglia altrettanti ai ministeri sociali. Per ora Trump sembra scegliere la prudenza, senza toccare la spesa pubblica complessiva e senza introdurre nuove tasse o deficit aggiuntivo.

Spesa federale 2018: più al militare, meno a tutti gli altri

I primi due mesi della presidenza di Donald Trump hanno portato a una lista di ordini immediatamente esecutivi in ambito non economico, il più famoso dei quali è stato il controverso divieto di ingresso negli Stati Uniti per i cittadini provenienti da una lista di paesi musulmani.
In ambito economico l’approccio è stato invece meno operativo. I primi sessanta giorni sono stati pieni di proclami volti a rassicurare il “popolo americano” che il Trump presidente avrebbe tenuto fede alle incendiarie promesse del Trump candidato. Con la presentazione del primo documento di bilancio 2018 sugli stanziamenti per le spese discrezionali del governo federale (quelle che devono essere approvate di anno in anno e rappresentano circa un quarto della spesa federale) il neo presidente ha cominciato a mettere nero su bianco le sue intenzioni.
Mantenendo fede allo stile che lo ha portato a vincere le elezioni, il tycoon semplifica. All’osso, il suo bilancio è fatto di due soli numeri di segno opposto, in miliardi di dollari. Il primo numero è un + 54: si riferisce all’aumento delle spese per la difesa. Un +10 per cento di incremento sul 2017, pianificato per rispettare la promessa numero uno del suo mandato: rendere il popolo americano più sicuro dalle minacce esterne e interne.
Il secondo numero, l’altra faccia della medaglia, è un -54 relativo a tutte le altre spese discrezionali. Il meno 54 salta fuori riducendo in modo significativo il bilancio di molti ministeri, anche quelli sociali. A subire i tagli più grandi in valore assoluto sarebbero la sanità (-12,6 miliardi), gli aiuti internazionali (-10,9 miliardi), l’istruzione (-9,2 miliardi) e le politiche urbane (-6,2 miliardi).
I tagli più pesanti in termini percentuali colpiranno l’agenzia che protegge l’ambiente (Epa) che con una diminuzione di 2,6 miliardi vedrà scendere il suo bilancio del 31,4 per cento. Ma decurtazioni del 20 per cento e più si abbattono sui bilanci del ministero del Lavoro (2,5 miliardi di dollari in meno) e dell’Agricoltura (4,7 miliardi in meno). La riduzione nei fondi per gli aiuti sfiora il 29 per cento del bilancio di Usaid, l’agenzia americana che se ne occupa. Nel 2015 gli Usa erogavano lo 0,17 per cento del loro Pil in aiuti allo sviluppo, circa la metà di quanto dessero mediamente i paesi aderenti al Dac (il comitato aiuti dell’Ocse) e meno di un quarto di quanto l’Onu suggeriva come obiettivo nel lontano 1970.
Tra l’altro, i tagli di bilancio prevedono l’eliminazione (con un tratto di penna) dei finanziamenti a una lista di diciannove enti “inutili”, almeno ai fini dell’obiettivo di garantire la sicurezza alla nazione americana. Tra questi, l’African Development Foundation; l’Appalachian Regional Commission, il Chemical Safety Board, il National Endowment for the Humanities; la Northern Border Regional Commission e lo United States Institute of Peace. Un risultato impensabile per un paese come il nostro dove non si riesce a cancellare nemmeno un avanzo post bellico come il Cnel.

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La promessa di non far salire il deficit e il precedente di Reagan

Nelle intenzioni del neo presidente, l’aumento di spese per la sicurezza non costerà neanche un dollaro ai contribuenti americani perché i soldi aggiuntivi di spesa per la difesa saranno compensati da riduzioni sulle altre voci del bilancio discrezionale del governo federale. Niente variazioni di spesa pubblica complessiva, niente nuove tasse, dunque zero deficit aggiuntivo.
Come ha osservato Paul Krugman, Trump – alla prova dei fatti – non è un populista, ma uno sfacciato conservatore che trova i soldi per la difesa e per difendere l’energia fossile tagliando le spese dei ministeri “sociali” e per le energie alternative. Ma se davvero tenesse fede alle sue promesse di non far salire il deficit, i mercati finanziari dovrebbero rivedere le loro previsioni sull’aumento dei tassi a lunga che hanno contribuito a far salire il dollaro. E anche Janet Yellen potrebbe schiacciare meno forte il freno sull’economia con l’aumento dei tassi a breve.
Per ora però se si confrontano i primi numeri di Trump con quelli di un famoso presidente repubblicano del passato come Ronald Reagan si notano grandi differenze. Per il 1981, Reagan propose un bilancio che aumentava la spesa militare e tagliava le tasse sui redditi da capitale come fa oggi Trump. Ma Reagan scommise sulla Laffer curve cioè su un aumento di base imponibile che non arrivò mai. E così con la sua politica di bilancio finì per aumentare il deficit pubblico di quasi 3 punti percentuali, dal 4 per cento del 1980 al 6,7 per cento del 1983.
Trump, nel suo bilancio discrezionale del primo anno, sembra volersi attestare su una politica di bilancio prudente sulla spesa e sul deficit, scegliendo una parte dell’America, quella che beneficia della maggior spesa militare, a discapito dell’altra America che probabilmente non ha votato per lui e che forse il presidente Usa identifica come destinataria di spesa improduttiva, costosa e foriera di troppa regolamentazione.
In ogni caso, Trump ha una fortuna dalla sua: parte dal basso deficit federale del 2,3 per cento (dato atteso per il 2017) ereditato dalla politiche “anti-americane” di Barack Obama. Solo il tempo dirà se Trump riuscirà davvero ad attuare la sua agenda conservatrice e se sul fronte delle entrate realizzerà tagli di imposta senza mettere le mani nelle tasche degli americani del futuro.

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Un reddito per gli “invisibili”

  1. Amegighi

    Caro Daveri, in queste analisi sui bilanci di uno Stato o di una Amministrazione della cosa Pubblica viene sempre a galla, a mio parere, il duplice volto dell’Economista, che da una parte analizza socialmente il risultato delle politiche economiche e dall’altra le giudica freddamente con piglio ragionieristico.
    Lungi da me, ovviamente, esprimere una critica, ma terrei a far notare che sono le persone che benficiano o meno dei risultati di queste politiche. Cosi come sono persone quelle che beneficiano della valutazione sull’economicità di un servizio come quello sanitario (fino ad arrivare a chiamare un Ospedale con l’orrendo termine di “Azienda”).
    Parliamo appunto di Sanità, dove, tra l’altro, Trump ha subito una debacle piena. La riduzione delle spese si otteneva (progetto Ryancare) semplicemente tagliando il servizio. Anzi, se vogliamo essere più chiari, la fronda dei Repubblicani contrari al piano Ryan è stata in parte di coloro che volevano un taglio maggiore che avrebbe aumentato il già elevato numero di persone private di copertura, assieme all’aumento di coloro che, ricchi, non avrebbero più pagato le tasse dovute, anche per coprire i meno ricchi.
    Stiamo parlando di un sistema dove, ai trapianti nei centri privati delle Università, associamo un 10-20% della popolazione (sono da 20 a 40 milioni di americani) priva di adeguata copertura sanitaria. Niente cure di ultima generazione, se non niente affatto. E ciò per aumentare le spese a difesa di chi ? di chi muore ?

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