Benché lontano dai tassi di occupazione europei, il numero di occupati in Italia ha toccato livelli record nel terzo trimestre. Il Pil è però rimasto stabile. La crescita è quindi dovuta solo al lavoro povero? L’analisi dei dati smentisce questa ipotesi.
L’andamento del Pil e quello degli occupati
Gli ultimi dati del lavoro pubblicati dall’Istat rappresentano una piccola battuta d’arresto, che andrà verificata nei prossimi mesi. In attesa dei dati trimestrali consolidati, l’occupazione nel trimestre luglio, agosto e settembre ha raggiunto livelli record (per gli standard italiani) pur di fronte a un Pil invariato – anzi, a essere puntigliosi e non arrotondando, in leggerissimo calo. Come mostra la figura 1, secondo l’Istat, dall’inizio del 2023 a oggi la crescita tendenziale (annuale) degli occupati è stata attorno al 2 per cento annuo, molto più alta di quella del Pil.
Inevitabilmente, il disallineamento tra Pil e occupazione ha portato molti politici, sindacalisti ed economisti a porsi delle domande sulla reale consistenza della crescita occupazionale. La nuova occupazione è solo lavoro povero, cioè lavoretti a scarso valore aggiunto e poco pagati? Altrimenti come spiegare un aumento degli occupati senza crescita del Pil?
Se guardiamo ai dati del mercato del lavoro che abbiamo a disposizione, però, è difficile vedere segnali di una crescita occupazionale fondata sul lavoro povero.
Innanzitutto, la percentuale di lavoratori poveri, come definita da Eurostat, è scesa lo scorso anno al 9,9 per cento dall’11,5 per cento del 2022: è dunque sotto il 10 per cento per la prima volta dopo tredici anni. Si tratta di un livello sempre alto, in assoluto e relativamente agli altri paesi europei, ma comunque in calo, nonostante la forte fiammata inflazionistica che ha eroso in particolare il potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti.
Anche se guardiamo agli andamenti settoriali, il quadro non è allarmante. È vero che, rispetto a fine 2019, prima della pandemia, la crescita occupazionale è stata trainata più dai servizi e dalle costruzioni che dalla manifattura. Tuttavia, la figura 2 mostra come ai primi posti per aumento degli occupati non si trovino i settori in cui, più di frequente si annida il lavoro povero – come la ristorazione, il commercio o i trasporti – ma le attività immobiliari, le attività professionali, scientifiche e tecniche e i servizi di informazione e comunicazione, che sono settori a medio-alto valore aggiunto.
E ancora: la quota di lavoratori dipendenti a tempo pieno aumenta, mentre scende quella dei lavoratori a tempo parziale. La percentuale di lavoratori a tempo indeterminato va su e quella a tempo determinato va giù. Anche le ore di cassa integrazione sono in riduzione.
Insomma, tutti gli indicatori che rappresentano potenziali fattori di rischio per il lavoro povero non fanno emergere particolari segnali preoccupanti.
Cosa succede al Pil?
E se invece la causa del disallineamento tra Pil e occupati, venisse dal lato del Pil? Uno sguardo ai livelli delle due serie ci dà qualche elemento in più. La figura 3 mostra l’evoluzione del livello (indice) del Pil reale e degli occupati. Nel periodo pre-Covid le due linee si sono mosse in tandem poiché la crescita della produttività del lavoro è stata pari a zero. A partire dal 2021, però, il livello del Pil reale è stato più alto di quanto implicato dal livello degli occupati (vale la pena sottolinearlo: più alto, non più basso come si sente dire). Per questo, non stupisce che le due linee stiano gradualmente convergendo, evidenza confermata dal livello delle ore lavorate (non mostrate), anch’esse in costante espansione dal 2021 in poi e anch’esse convergenti verso le altre due. Detto in altro modo, il vero enigma non è perché il Pil è cresciuto così poco dal 2023 in poi, ma, data la poca produttività strutturale dell’economia italiana, la disconnessione dei livelli nel 2021-2023
Che cosa è successo dal 2020 a oggi? Prendendo per buoni i dati degli occupati (che in genere sono stimati in tempo reale con maggior precisione dei dati del Pil), si possono fare due ipotesi. La prima è che il Pil italiano sia nuovamente sottostimato nel periodo 2022-2024, cosa che non sorprenderebbe date le ripetute revisioni al rialzo avvenute negli ultimi anni. Sotto questa ipotesi, l’economia italiana sarebbe oggi un po’ più produttiva del periodo pre-Covid (più produttiva, non meno come implicato dal dibattito pubblico).
La seconda è che il Pil reale sia sovrastimato nel 2021-2023, circostanza possibile ma improbabile poiché il reddito lordo nazionale (non mostrato) è attualmente superiore al Pil (in teoria dovrebbero essere identici, ma non lo sono per evidenti problemi di misurazione). Sotto questa seconda ipotesi, la produttività del sistema Italia non sarebbe cambiata e rimarrebbe vicina a zero. In ogni caso, comunque si guardino i dati macro, è difficile arrivare alla conclusione che l’economia italiana è oggi meno produttiva del pre-Covid, come invece si sente dire. E combinando i dati macro con quelli del mercato del lavoro, è difficile affermare che stiamo creando lavoro povero.
Non viviamo nel migliore dei mondi possibili (anzi, l’Italia è ormai l’ultima per tasso di occupazione tra i paesi europei), ma la direzione imboccata è giusta. Il vero timore è che i prossimi mesi possano risentire sia della cancellazione degli effetti dei bonus edilizi (insostenibili finanziariamente), sia di una congiuntura europea non più brillante. In ogni caso, per una volta sembra che al netto dei fattori ciclici, i fondamentali siano lievemente migliorati. La speranza è che il trend continui.
Lavoce è di tutti: sostienila!
Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!
Fabrizio
Un grafico sulle ore lavorate ci sarebbe stato bene.
bob
l’Italia ha una economia, giusto o sbagliato, sul 90% di piccole e medie aziende. Basterebbe semplificare al massimo l’iter delle assunzioni e sgravare il peso contributivo e di occupazione ce ne sarebbe molta e di qualità. Si eliminerebbero escamotage deleteri con Coop di servizio e altro.
Provate ad andare da un consulente del lavoro con una azienda di 10 persone e ditegli che volete assumere e vedete cosa vi risponde?
piero r
Vorrei solo complimentarmi con gli autori per la chiarezza del loro articolo, che analizza gli sviluppi congiunturali ( e di medio periodo ) con l’acume di un tempo andato, aiutandoci a sbarazzarci da varie “illusioni ottiche”
Enrico
Mi stupisco che gli autori, notoriamente esperti in materia, confondano gli occupati misurati dall’indagine sulle forze di lavoro con le corrispondenti misure utilizzate dalla contabilità nazionale. Per essere definito occupati basta aver lavorato un’ora alla settimana (e neanche quella se si è in CIG) indipendentemente dalle forme contrattuali. Invece una ULA di contabilità nazionale corrisponde più o meno ad un lavoratore a tempo pieno. Tra ULA e PIL c’è storicamente una correlazione quasi perfetta per definizione. Quindi una dinamica di ULA e PIL peggiore degli occupati misurati dalle forze di lavoro indica inequivocabilmente una riduzione delle ore lavorate pro capite. Sembra la realizzazione di una versione perversa dello slogan: lavorare meno, lavorare tutti. Se questo non è lavoro impoverito, mi chiedo cosa sia.