Nel pensiero a somma zero non c’è spazio per la creazione di maggior valore, ma si può solo redistribuire una ricchezza data. È spesso diffuso nei paesi che hanno registrato anni e anni di crescita bassa, come l’Italia. E ha pesanti conseguenze.
Le conseguenze di decenni di bassa crescita
Con ogni probabilità il 2024 chiuderà con un tasso di crescita del Pil dello 0,7 per cento, mentre il 2025 dovrebbe registrare uno 0,8 per cento. Esattamente in linea con quanto mediamente osservato negli ultimi trentacinque anni. Nello stesso periodo anche la crescita in termini pro-capite è risultata più bassa, dato il leggero aumento della popolazione nei primi due decenni.
È lecito chiedersi, allora, se anni e anni di bassa crescita abbiano trasformato gli italiani in persone a zero-sum thinking. Ovvero, la gente si è convinta che la produzione e la ricchezza siano date e che i guadagni di alcuni siano invariabilmente pari alle perdite di altri. Gli sforzi e gli scambi porterebbero solo a una riallocazione del Pil e non alla creazione di maggior valore, con conseguenze socioeconomiche rilevanti, che spiegano molti comportamenti e preferenze politiche.
Peraltro, il problema non riguarda solo l’Italia, ma tutto il mondo occidentale, che negli ultimi decenni ha visto una significativa riduzione della crescita e soprattutto della fiducia che il futuro possa essere migliore del passato.
Il concetto di zero-sum thinking o meglio l’“image of limited good” è stato introdotto dall’antropologo americano George Foster negli anni Sessanta per descrivere le credenze economiche e le relazioni sociali di alcune comunità rurali del Messico. Esprime la convinzione che non solo le terre fertili, la ricchezza e il benessere siano beni limitati, ma anche il potere e persino l’amicizia esistano in quantità date. Per molti versi atavico, il concetto trova le sue radici nel pensiero mercantilistico preindustriale, ma sembra oggi emergere in molti contesti e parti del mondo.
Un concetto molto diffuso
Un recente lavoro di quattro economisti dell’università di Harvard e della London School of Economics, misurano questo orientamento cognitivo attraverso un questionario su un vasto campione di residenti statunitensi, esplorano le sue cause, anche ancestrali, e soprattutto le sue conseguenze in termini politici. Un’approfondita analisi internazionale mostra anche che una mentalità a somma zero è particolarmente diffusa nei paesi e nelle generazioni che hanno registrato negli anni una crescita bassa. I poveri, i meno istruiti e i giovani sono poi coloro che più tendono ad avere un pensiero a somma zero.
In linea generale, gli studi mostrano come gli individui più zero-sum thinking, oltre che essere più invidiosi, sensibili al concetto di fortuna, al fatalismo e meno inclini allo sforzo, tendono a preferire politiche redistributive, quali la tassazione, i sussidi e un servizio sanitario universale. Inoltre, questo modo di vedere il mondo e la sua conseguente sfiducia nella crescita si accompagnano ad azioni attive contro le disparità di genere e razza e soprattutto a politiche migratorie restrittive. In altri termini, se la torta è data, è meglio dividerla tra pochi e in parti eguali.
Negli Stati Uniti, la mentalità a somma zero è tradizionalmente più radicata nei sostenitori del partito Democratico che in quello Repubblicano, e più in generale nei partiti di sinistra. Oggi però atteggiamenti simili sembrano diffusi in maniera bipartisan in tutte le formazioni. Infatti, un numero sempre maggiore di elettori, sia di destra che di sinistra, appare favorevole a imporre politiche protezionistiche per i settori, le aree e gli individui più colpiti dalla crisi e a prevedere pesanti vincoli all’immigrazione. Donald Trump lo ha perfettamente capito, o forse solo intuito, facendone una bandiera del proprio programma politico. Questo spiega perché molti giovani, minoranze di colore e poveri hanno deciso di votarlo.
Politiche protezionistiche più che di crescita
L’Italia, come altri paesi europei, ha registrato decenni di bassa crescita e non è certamente immune a questo tipo di mentalità e alle sue conseguenze socioeconomiche. Anche il quadro politico sembra essere influenzato da uno zero-sum thinking. In particolare, la destra oggi al potere, abbandonata ogni parvenza di liberalismo, che forse non ha mai avuto, si è fatta sempre più paladina non solo di un approccio contrario all’immigrazione, ma anche di misure protezionistiche volte più alla ridistribuzione del reddito e della ricchezza che alla loro crescita. Si pensi alla difficoltà di portare avanti leggi che favoriscono la concorrenza o il merito, mentre la difesa delle varie corporazioni finisce per avere la meglio anche a discapito del benessere della maggioranza dei cittadini.
Lo stesso sviluppo tecnologico trova pesanti ostacoli alla sua diffusione. Il continuo peggioramento relativo del livello d’istruzione, il basso numero di laureati specie in materie scientifiche, la scarsa diffusione della digitalizzazione come delle auto elettriche e delle energie rinnovabili, nonché lo scetticismo che accompagna lo sviluppo dell’intelligenza artificiale non sarebbero altro che le conseguenze di una diffusa e crescente mentalità di zero-sum thinking.
Combattere questo trend non è affatto semplice ma, a tre secoli dalla nascita dell’illuminismo riecheggiano le parole di Immanuel Kant, “Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!”.
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Dani Geri
la mentalità a somma zero viene spesso citata anche in ambito pensionistico ” se i vecchi non vanno in pensione come fanno i giovani ad entrare nel mondo del lavoro?” come se la torta del lavoro sia data e quindi ad uscita di n persone corrisponda l’entrata di altrettante persone.
Kim ALLAMANDOLA
Gentile Autore,
questo pensiero non è “del popolo”, è della classe dirigente che per dominare ha scelto il classico divide et impera “siamo tutti imprenditori” implica che non cooperiamo ma competiamo, quindi per forza “guadagno di qualcuno è perdita di qualcun altro”. Ora c’è chiaramente da pesare che i più senza un incentivo non farebbero nulla, quindi non funzionerebbe più la società, un po’ di competizione è quindi necessaria, come lo è un po’ di collaborazione. Il socialismo teorico prevedeva la collaborazione completa, quello più pratico è ben spiegato da Clinton Roosevelt nel suo The Science Of Government, Founded On Natural Law [1], il liberismo teorico prevedeva la competizione completa. Il neoliberismo li ha fusi, prendendo l’élite che comanda, il popolino che collabora per dividersi le briciole Hayekiane messe a disposizione dal padrone nella sharing economy, e il teorico di questo modello sogna di giocare ai soldatini ubbidienti, puliti ed ordinati. Poi la Fordlandia rediviva si rompe, le risorse naturali finiscono e sappiamo qual’è la cura.
Se vogliamo uscire dalla somma zero dobbiamo tornare a Merce>Denaro>Merce al posto del corrente Denaro>Merce>Denaro. Quindi l’azienda non ha più come scopo far soldi ma fare prodotti, erogare servizi ed i soldi sono l’unità di misura di questi, non l’obiettivo col servizio/prodotto mezzo per conseguire il fine. Però questo implica la necessità di una nuova civiltà, una popolazione attiva, non quella dei bot di carne dell’Agenda 2030, servono PMI con alterne fortune, non 4 giganti e tutti loro dipendenti… Ai giganti la cosa comprensibilmente non garba, è la loro fine.
Di mio concludo osservando che il Green New Deal è tecnicamente FUNZIONANTE, l’ho implementato in persona costruendo a nuovo, aggiungendo fotovoltaico ed EV con la casa oramai da 8 anni, però funziona per case, capannoni, non si va oltre, funziona nel Distributismo, dove l’IT permette l’efficienza pur essendo tutti sparsi con pochissimi distretti comunque non così giganti per quelle produzioni che a piccola scala non possiamo fare. Ergo, s’ha da scegliere tra Distributismo per molti, dubito vi siano risorse naturali per tutti, ma per molti ce ne sarebbero, vs nazismo per pochissimi con pacchetto completo neomalthussiano e bellico. Dei due il primo fa assai meno male ed è assai più predicibile, il secondo si possono fare tutti i piani più accurati, salteranno tutti al primo colpo.
[1] anche liberamente disponibile https://dn790002.ca.archive.org/0/items/sciencegovernme00roosgoog/sciencegovernme00roosgoog.pdf
Enrico
Fra Pacioli e la sua partita doppia non perdonano: le entrate di qualcuno corrispondono sempre alle uscite di qualcun altro. La crescita deriva solo dal fatto che gli scambi (sempre a somma zero) consentono un utilizzo più efficiente delle risorse. Solo questo meccanismo “crea valore.” Se le imperfezioni ed i fallimenti del mercato (che creano rendite) impediscono scambi efficienti allora la crescita si blocca. È esattamente quello che è successo a partire dagli anni 80 con le liberalizzazioni. Oggi la descrizione dell’economia come un gioco a somma zero non è poi troppo sbagliata. Si “estrae valore” sempre più dallo sfruttamento di beni comuni (dall’ambiente alla coesione sociale fino all’informazione) per i quali nessuno reclama un prezzo (violando le già improbabili condizioni per un equilibrio economico generale virtuoso).