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Mancano i medici di base? Mettiamoli in rete

Il problema della carenza di medici di famiglia non è tanto nei numeri. Conta di più l’orario di lavoro, il fatto che lavorano da soli e che ci sono dottori con troppi pazienti e altri che ne hanno troppo pochi. Una soluzione semplice ci sarebbe.

Il paradosso dei medici che mancano

In Italia mancano i medici di base. È lo slogan più ripetuto degli ultimi anni. Ma è proprio vero che 44mila medici e pediatri di famiglia, a cui si aggiungono 11mila medici di continuità assistenziale (per la notte, le festività, ma anche per il giorno, in alcune zone carenti) non bastino per 59 milioni di italiani? In Inghilterra 37mila general practitioners assistono 56,6 milioni di cittadini, bambini compresi. C’è un paradosso da spiegare, anzi più di uno.

Esiste infatti una strozzatura, tutta italiana, che condiziona la disponibilità dei medici di famiglia: l’orario di lavoro settimanale. Nei principali paesi europei, dove l’assistenza primaria funziona bene, i medici di base – siano liberi professionisti o dipendenti – lavorano per 38-40 ore settimanali (con punte di 52 ore in Francia e di 49 in Inghilterra), mentre in Italia i medici massimalisti con 1.500 pazienti aprono l’ambulatorio, in base al contratto, per sole 15 ore alla settimana, 3 ore al giorno (“non inferiore”, dice l’art. 35 dell’accordo collettivo nazionale-Acn 2016-2018 – tavola 1). È come se fossero disponibili meno di 20mila medici a tempo pieno, anziché 44mila.

In realtà, i medici italiani sostengono un carico di lavoro pari – se non superiore – a quello dei colleghi europei, perché eseguono cinque visite per paziente all’anno (e nove contatti in totale; vedono e sentono 47 pazienti al giorno, in media), rispetto a una visita all’anno dei colleghi nordici, dove si paga il medico. Quindi, lavorano sicuramente più delle 15 ore contrattuali – l’aneddotica sui massimalisti che passano più di 40 ore nello studio è molto ricca, peccato che non vi sia una sola ricerca a documentarlo. È un beneficio riconosciuto loro, da sempre, per lo status giuridico di liberi professionisti, prestatori di “lavoro autonomo, continuativo e coordinato”. Altro beneficio concesso, agli specialisti, è la possibilità di autolimitarsi il numero di scelte – e quindi l’orario – per svolgere anche la libera professione a pagamento.

Come lavorano i medici inglesi e spagnoli

Il secondo paradosso è che lavorano per la maggior parte da soli, non in gruppo, come all’estero, e spesso senza supporto di una segretaria e di un’infermiera, secondo un modello organizzativo e culturale di stampo novecentesco. A volte può essere l’orografia del territorio e la dispersione dei piccoli centri abitati a condizionare le loro scelte associative. Una practice inglese è organizzata come una piccola impresa, con uno o più titolari (partners, self-employed) in cui lavorano in media 5,9 general practitioners (di cui 1,6 salaried), 5,4 infermieri, fisioterapisti e altri professionisti sanitari, 12 amministrativi e manager per un totale di 23,3 unità di personale (fonte Nhs Digital, 2024). Ha una dimensione media di 8.974 pazienti, ma può arrivare fino a 20mila. In Spagna i medici di base sono dipendenti del Sistema nacional de salud e lavorano nei 3.042 centros de salud urbani, di proprietà pubblica, che servono 20-30mila abitanti e in cui operano in equipo 10-15 medici generalisti, 4-5 pediatri, 10-15 infermieri, 1-2 fisioterapisti, l’ostetrica, il dentista, il ginecologo e 5-7 amministrativi. Dispongono delle attrezzature per la diagnostica di base. Nei piccoli comuni sono attivi 9.998 consultorios locales, sempre di proprietà pubblica, dove sono presenti uno o due medici di famiglia, un pediatra, un infermiere, un amministrativo (fonte ministerio de Sanidad e siti istituzionali).

I medici italiani in rete e quelli sotto-occupati

La possibilità di lavorare associati esiste, ovviamente, anche in Italia. Addirittura, ci sono tre forme: l’associazione semplice, in rete e di gruppo, regolamentate da un vecchio decreto del 2000 (art. 40 Dpr 270). Nelle prime due, i medici continuano a operare nel loro studio, cercando di coordinare l’attività e, se in rete, di condividere la scheda-paziente (se esiste): di fatto, è come se lavorassero da singoli; nella terza lavorano in un’unica sede. Possono associarsi da 3 a 8 medici, garantendo globalmente 6 ore di apertura al giorno. Percepiscono indennità variabili, secondo il tipo di associazione, che arrivano a coprire il 50 per cento dei costi di personale infermieristico e di segreteria (se in gruppo). Secondo gli scarni dati del ministero della Salute, il 69 per cento dei medici nel 2022 percepisce qualche indennità, perché associato, ma non è possibile distinguere tra le varie forme associative. Il 31 per cento lavora come singolo e si può stimare che un 10-15 per cento sia in associazione semplice e, di fatto, singolo. Il massimo di associati si registra in Veneto (87 per cento), Friuli (84 per cento), provincia autonoma di Trento (84 per cento), Emilia-Romagna (83 per cento) e il minimo in Calabria (29 per cento) e Molise (26 per cento). Nel 2012 il decreto Balduzzi (Dl 158) ha introdotto, al loro posto, le associazioni funzionali territoriali (Aft) e demandato alle regioni di istituirle e organizzarle, secondo un proprio modello-tipo. Sono passati dodici anni, l’accordo nazionale collettivo 2019-2021 le ha rese obbligatorie, ma finora nessuna regione le ha istituite.

Il terzo paradosso italiano è la presenza di molti medici di base sotto-occupati. Nel 2022 i medici con meno di mille scelte erano 7.597 (19 per cento del totale). Le statistiche del ministero non distinguono, ma si tratta o di giovani medici che stanno acquisendo nuovi pazienti, oppure di specialisti che hanno lasciato l’attività ospedaliera troppo stressante (turni, guardie notturne e festive) per esercitare, in contemporanea, la libera professione; oppure si tratta di medici dei piccolissimi comuni di montagna. Per contratto sono tenuti a lavorare (almeno) un’ora al giorno, fino a 500 scelte, o due ore al giorno tra 500 e mille scelte. È un lusso che il nostro paese non si può permettere.

La soluzione possibile

Come risolvere allora il problema della carenza di medici di base, pur avendone un numero adeguato? L’Acn 2019-21 (art. 38) firmato lo scorso anno stabilisce che dal 2025 i (soli) nuovi convenzionati dovranno prestare attività per almeno 38 ore settimanali: dedicando 24 ore alle attività del distretto sanitario, se hanno in carico da 400 a mille assistiti, 12 ore se da mille a 1200 e 6 ore se da 1200 a 1500. Dirottare questi medici al distretto sembra uno spreco di risorse, viste le urgenti necessità dell’assistenza di base. Chi saprà coordinare ogni giorno da 30 a 80 medici che si presentano con orari diversi? E per svolgere quali attività?

Tre semplici proposte, da inserire nel prossimo Acn 1922-24, potrebbero attutire, se non risolvere, da subito, il problema della carenza dei medici di famiglia. Sul tavolo della discussione c’è anche la proposta di trasformare i medici di base in dipendenti del Sistema sanitario nazionale, ma richiederebbe tempi lunghi, per i molti nodi da sciogliere, e forse non sarebbe risolutiva. Magari torneremo su questo punto, per ora si potrebbe seguire la via più semplice dell’Accordo collettivo nazionale. Dai dati del ministero della Salute (2022) si può stimare che i medici ultra-massimalisti abbiano in totale un eccesso di 4,1 milioni di scelte e che i medici “minimalisti” (da 1 a mille scelte) avrebbero un potenziale di assistenza di 5,4 milioni di pazienti (per arrivare fino a mille scelte). Basterebbe rendere obbligatoria l’associazione  – in rete o in gruppo (in attesa delle Aft) – tra i medici ultra-massimalisti e quelli con poche scelte per ovviare al problema. Non sarebbe una norma rivoluzionaria, ma il rispolvero dell’art. 32 dell’Acn 1978, firmato pochi mesi prima della legge sul Ssn.

I giovani medici si dovrebbero associare con chi già supera la soglia, mentre gli specialisti rinunciare a qualche ora di libera professione: l’interesse generale dovrebbe prevalere su quello particolare. Ovviamente, si dovrebbe verificarne la fattibilità per singolo “ambito territoriale” dell’Asl, dove si calcolano i fabbisogni dei medici.

In secondo luogo, si dovrebbe rendere obbligatoria l’associazione “in rete” (condivisione del fascicolo sanitario elettronico) per tutti i medici singoli (31 per cento) e in associazione semplice (10 per cento stimato) – sempre che sia fattibile a livello locale – per garantire, coordinandosi, l’apertura degli ambulatori per 12 ore al giorno e per 5 giorni/settimana. Peraltro, in nessuno dei principali paesi europei gli ambulatori aprono per 12 ore, ma per 8 ore al giorno (tavola 1).

Si dovrebbe poi riconoscere il lavoro effettivo svolto e, quindi, un impegno di 38 ore settimanali per i medici con 1.000-1.500 assistiti, di 25 ore per quelli con 500-1.000 assistiti e di 12 ore fino a 500 assistiti per consentire un adeguato espletamento dei loro compiti. Il costo stimato sarebbe al massimo di 965 milioni di euro (24,25 euro/ora, secondo l’Acn), una cifra che risolverebbe per sempre l’annosa questione.

Dunque, la soluzione tecnica alla carenza dei medici di famiglia c’è o si può trovare, anche subito. Più difficile, forse, trovare la soluzione politica.

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Il Punto

  1. Savino

    Il problema, purtoppo, non è tecnico, ma politico e corporativo-sindacale.
    Senza considerare che i pazienti sono alla disperata ricerca di un medico che li visiti e li segua, cosa che non fa quasi più nessuno. Senza considerare, inoltre, che il giuramento di Ippocrate non contempla orari e burocrazia. Per chi ha passione professionale, non è un problema di stare in ambulatorio qualche minuto in più o di prendersi cura di una persona in più.
    Quindi, sono state proprio stravolte le basi della professione medica pubblica e del servizio sanitario da rendere al pubblico.

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