La Svezia è stata costretta a suddividere il suo mercato elettrico in più zone. Così i prezzi al Sud, prima tenuti artificialmente bassi, sono cresciuti. Le risorse in più potrebbero essere usate per calmierare i costi per i consumatori più in difficoltà.
Due modelli per il mercato dell’elettricità
La configurazione del mercato elettrico ha conseguenze sui prezzi e sulle performance emissive? In un nostro lavoro, studiamo il caso della Svezia. Nel 2011 Stoccolma ha cambiato il perimetro del suo mercato dell’energia elettrica, rendendo esplicito l’effetto dei vincoli di rete, cioè dell’insufficiente capacità di trasporto dell’energia dalle regioni caratterizzate da eccesso di offerta a quelle dove invece la domanda è particolarmente elevata.
Al contrario di altri beni, l’energia elettrica è tecnicamente difficile ed economicamente costosa da stoccare, almeno fino a quando non saranno disponibili accumuli su larga scala a basso costo. Quindi, il sistema deve essere mantenuto costantemente in equilibrio: gran parte dell’energia consumata viene prodotta in quello stesso momento. Il prezzo si forma su mercati all’ingrosso nei quali gli operatori dal lato della domanda e della produzione presentano le proprie offerte. Queste vengono aggregate e determinano la costruzione di un programma di immissioni e prelievi dalla rete che viene chiuso il giorno precedente a quello della consegna fisica (per questo la sessione si chiama “mercato del giorno prima”). Man mano che si avvicina il momento della consegna, l’operatore del sistema di trasmissione (Tso: in Italia, per esempio, Terna) deve procedere a una serie di aggiustamenti, che tengano conto sia delle variazioni in tempo reale rispetto al programma, sia dei potenziali vincoli o congestioni nella rete di trasmissione. Questa continua riprogrammazione produce costi, che è opportuno cercare di abbassare quanto più possibile.
Nel dibattito economico su come raggiungere tali risultati, sono emersi due modelli: quello del mercato “nodale” e quello del mercato “zonale”.
Nel primo caso, vengono costantemente individuati i “nodi” della rete che, date le condizioni attese di domanda e offerta, non presentano limiti nella capacità di trasporto: le contrattazioni avvengono a quel livello e quindi il prezzo all’ingrosso è differenziato per ogni nodo. Nel secondo caso, si assume che non esistano vincoli di rete e successivamente il Tso interviene per tenerne conto.
Il primo meccanismo è generalmente considerato più efficiente perché determina un processo di price discovery strettamente aderente alle condizioni locali di domanda e offerta, ma è anche più complesso e può avere ingenti costi amministrativi e gestionali. Il secondo modello è meno efficiente, ma più semplice. In Europa, dopo un lungo confronto nel corso degli anni Novanta, si optò per la seconda strada, anche se occasionalmente sono stati esaminati i pro e i contro di un passaggio alla prima.
Intraprendere questa seconda strada implica la necessità di un’azione regolatoria tramite i Tso, che utilizzano parte del costo pagato dal consumatore finale per riuscire a ottenere un prezzo unico sul territorio nazionale. Ciò avvantaggia sicuramente coloro i quali si trovano in zone dove l’energia costerebbe di più, ma senza discriminare i consumatori in base al reddito. Nel caso del mercato zonale le risorse risparmiate potrebbero essere meglio indirizzate verso politiche mirate magari a calmierare il costo dell’energia per i consumatori più fragili.
Una soluzione intermedia consiste nell’individuazione, all’interno di uno stesso mercato, di una pluralità di zone, tenendo conto dei vincoli di rete più significativi: diversamente da un mercato nodale, in questo caso le zone sono predeterminate e possono contenere vincoli interni che, con una maggiore o minore frequenza, possono costringere il Tso a intervenire sul dispacciamento. Ma, diversamente dai mercati a zona singola, tengono meglio conto delle condizioni regionali. All’interno dell’Unione europea solo due stati hanno previsto l’articolazione in più zone: l’Italia (che è divisa in sette zone) e la Svezia (che, nel 2011, è passata da una a quattro zone). Nel nostro paper, studiamo appunto le conseguenze di tale esperimento naturale.
La vicenda svedese
Per comprenderne gli effetti, bisogna anzitutto illustrarne le cause. La Svezia è caratterizzata da una forte presenza di fonti rinnovabili (in particolare l’idroelettrico) nel Nord del paese, mentre gran parte dell’urbanizzazione e dell’industria (e quindi dei consumi) si trovano nel Sud. Le linee di trasmissione interne sono insufficienti a trasportare l’eccesso di produzione del Nord verso il più energivoro Sud. Ciononostante, la configurazione a zona singola ignorava per definizione questa caratteristica e quindi non rendeva la sovrapproduzione settentrionale disponibile per l’export. Gli operatori di alcuni paesi confinanti, in particolare la Danimarca, segnalarono questa condotta sistematica alla Commissione europea, che vi ravvisò gli estremi di un abuso di mercato: la Svezia utilizzava la zona unica come un artificio per limitare le esportazioni di energia elettrica e mantenere i prezzi interni al di sotto del livello di mercato. Per questo, obbligò il Tso svedese (Svk) a suddividere il paese in quattro zone, tenendo conto dei vincoli di trasporto. La suddivisione divenne efficace a partire dal novembre 2011.
Come era logico attendersi, a quel punto i prezzi nelle diverse zone si disaccoppiano, spostandosi nel Sud su livelli superiori al Nord (figura 1). Non c’è solo la differenziazione geografica, i prezzi aumentano in tutte le zone di mercato, sebbene il rincaro nelle zone meridionali (caratterizzate da alta domanda) sia del 6-8 per cento, superiore a quello registrato nelle zone settentrionali (dove è sovrabbondante l’offerta), inferiore al 5 per cento. La differenza è statisticamente significativa e robusta.
Come si spiega questo fenomeno? Contestualmente alla divisione in quattro zone, si è registrato un significativo incremento dell’export, che ha avuto un’impennata superiore al 150 per cento. È quindi probabile che questo abbia determinato, a parità di altre condizioni, una riduzione dei prezzi e delle emissioni nei mercati circostanti (in particolare la Danimarca).
I nostri risultati confermano che la Commissione aveva ragione a ravvisare nella condotta svedese gli estremi di un abuso che, per avvantaggiare i consumatori svedesi, ha per lungo tempo danneggiato altri consumatori europei e ridotto l’efficienza del mercato.
Figura 1: Discontinuità dei prezzi al cutoff: prezzi nel mercato unico e nelle quattro zone della Svezia 20 giorni prima e dopo l’intervento politico del 1° novembre 2011.
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Paolo
In realtà in Italia gli esiti di prezzo delle zone (PZO=prezzo zonale orario) sono mediate dal meccanismo del PUN (prezzo unico nazionale, dal 1/1/25 PUN index in quanto determinato a valle dell’esito del mercato del giorno prima, MGP), quindi il consumatore italiano per il momento paga ancora lo stesso prezzo medio pesato su tutto il territorio nazionale (i prezzi zonali sono invece erogati come remunerazione ai produttori che vendono l’energia).
Ciò tra l’altro è un meccanismo di solidarietà tra territori, senza il quale alcune zone (in primis la sicilia, in passato anche la sardegna) avrebbero sofferto negli anni un aggravio dei costi dell’energia di 40-50 €/MWh che le avrebbe ulteriormente desertificate dal punto di vista industriale.
Oggi questo fenomeno è in fase di inversione, visto che al sud e nelle isole sono concentrate le nuove installazioni di fonti rinnovabili (dal 2010 in poi), mentre al nord si concentra la presenza industriale e il relativo consumo: l’esito svedese anticipa quello che probabilmente succederà anche da noi, se elimineremo la perequazione del PUN, ovvero un aumento dei prezzi maggiore nella zona nord, per l’ulteriore felicità dell’indice della produzione industriale, già in calo costante mese dopo mese da due anni ormai.
giorgio
Ad ogni buon conto mi risulta che il prezzo dell’elettricità (e relativa remunerazione) è calcolato per tutti i produttori con i costi di produzione del vettore più costoso e cioè il gas (e per questo sono molto contenti i produttori da fonti rinnovabili), se si elimina la perequazione PUN occorre anche correlare il prezzo dell’elettricità anche al “modo” con cui la produci.
Rivoluzionario sarebbe, verosimilmente per generare una spinta al rinnovamento delle centrali osolete, calcolare il prezzo facendo riferimento ai costi del vettore più economico (probabilmente iin italia sarebbe l’droelettrico).
Magari faccio confusione nel caso spero di essere meglio informato/aggiornato dai redattori.
Saluti
Paolo
buonasera giorgio, il prezzo dell’energia non viene “calcolato”, ma è l’esito di una borsa, in cui ogni produttore fa la propria offerta (in ogni ora del giorno offre una quantità di energia che può produrre, al prezzo che ritiene). vengono accettati tutti i produttori in ordine di prezzo crescente, fino a raggiungere la quantità di energia richiesta in acquisto (non dai consumatori, ma dai fornitori di energia, che poi la venderanno ai consumatori).
dopodichè tutti i produttori vengono remunerati al prezzo più alto che viene accettato (prezzo marginale più alto).
sembra un metodo autolesionista (perchè non pagare a ogni produttore? si chiama “pay as bid”), ma se ci pensi non cambia molto: se l’elettricità da gas viene offerta a 100, oggi chi la produce col fotovoltaico offre a 0 (tanto sa che prenderà 100). se domani passi al pay as bid, in pochi giorni imparerà a offrire a 90, e poi a 99,5, la differenza sarebbe minimale.
Non a caso il meccanismo del prezzo marginale è lo stesso in tutta europa. Per abbassare i costi dell’energia, occorre consumare meno energia, oppure autoprodursi la propria.
L’idea che qualcun altro investe al posto nostro (che sia per il fotovoltaico, l’eolico o il nucleare poco cambia) e fa risparmiare noi è ridicola.