Il secondo mandato di Trump avrà conseguenze sulle politiche del clima a livello internazionale. Molto probabilmente gli Usa usciranno dall’Accordo di Parigi e forse abbandoneranno anche l’Unfccc. L’Europa deve tornare a esercitare un ruolo di leadership.

I riflessi delle presidenziali Usa sulla Cop29

Le conseguenze per l’azione climatica internazionale del ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca si potrebbero vedere già presto. Lunedì 11 novembre si aprirà infatti a Baku la 29esima Conferenza delle parti (Cop29) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc), trattato firmato a Rio de Janeiro nel 1992, in cui per la prima volta i governi hanno riconosciuto la necessità di ridurre le emissioni di gas serra.

Se la storia del coinvolgimento degli Stati Uniti nel processo delle Cop non è mai stata lineare, con la mancata ratifica del Protocollo di Kyoto – al contrario ad esempio di quella dell’Unione europea, che ha guidato la leadership climatica internazionale sin dalla firma dei primi trattati -, il punto in cui gli Usa si sono più distaccati dal processo multilaterale per l’azione climatica è stato sotto la presidenza Trump, quando, nel 2017, si sono ritirati dall’Accordo di Parigi, il trattato su cui si fondano tutt’oggi gli sforzi di mitigazione e adattamento di tutti gli stati del mondo.

L’offensiva contro Accordo di Parigi e Unfccc

Il presidente Trump uscirà quindi di nuovo dall’Accordo di Parigi? Le probabilità sono alte (nonostante i target di Parigi siano già stati sorpassati nei fatti l’anno scorso), aumentate dalla facilità di ritirarsi dal trattato, che non è stato ratificato dal Senato. È molto probabile però che si spinga addirittura oltre: tra le bozze di ordini esecutivi che potrebbe firmare nei suoi primissimi giorni nello Studio Ovale ce n’è uno che prevede la decisione degli Stati Uniti di uscire dalla Convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici (Unfccc). Dal punto di vista legale, potrebbe essere più difficile, perché gli Stati Uniti hanno aderito all’Unfccc attraverso il processo di ratifica del Senato e, secondo molti, potrebbe essere necessaria una nuova votazione per l’uscita. Questa volta però, al contrario del primo tentativo nel 2017, Trump potrebbe avere il tempo di trovare una solida maggioranza a favore.

Durante la campagna elettorale, infatti, Trump ha più volte promesso di invertire la rotta dell’amministrazione Biden che negli ultimi quattro anni ha cercato di ripristinare la credibilità e la leadership degli Stati Uniti negli sforzi globali per il clima.

Nell’ambito dell’Accordo di Parigi, quasi 200 paesi si sono impegnati a limitare l’aumento della temperatura globale a lungo termine a 2°C sopra i livelli preindustriali e, idealmente, a 1,5°C. Gli Stati Uniti però sono la più grande economia del mondo, con un Pil annuo di oltre 27mila miliardi nel 2023 (contro i circa 18mila dell’Unione europea e della Cina), ma sono anche il secondo emettitore di gas a effetto serra, responsabili del 13 per cento delle emissioni globali, preceduti solo dalla Cina (con più del 30 per cento).

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Il ritiro dall’Accordo di Parigi e forse anche dall’Unfccc non solo implicherebbe un aumento delle emissioni stimato di 4 miliardi di tonnellate di CO2 entro il 2030, ma anche un freno all’efficacia delle negoziazioni della Cop29, in cui andrà ridiscussa l’ambizione dei piani climatici nazionali (le Nationally Determined Contributions, Ndc) e un nuovo obiettivo per la finanza per il clima nei paesi in via di sviluppo.

Infatti, prima ancora del possibile ritiro dai trattati sul clima (di cui comunque, eventualmente, si discuterà a gennaio dopo che il nuovo presidente sarà entrato in carica, con molta probabilità già durante la Cop29 assisteremo al ritorno di una diplomazia incentrata su una retorica aggressiva, al motto di “America first”, che punta il dito contro le altre potenze globali, in primo luogo la Cina. Alla Conferenza parteciperanno rappresentanti statunitensi ancora legati all’amministrazione Biden, ma sarà complicato per loro mantenere un clima cooperativo. Inoltre, la consapevolezza di un’inaffidabilità dell’amministrazione Trump in ambito climatico rischia di minare la credibilità della posizione che i negoziatori statunitensi difenderanno. Allo stesso tempo, c’è chi sostiene che il risultato potrebbe in realtà essere opposto: il ritiro degli Stati Uniti da una posizione di leadership climatica lascerebbe libero lo spazio per altri paesi, in particolare la Cina, per affermarsi come leader nell’arena climatica internazionale, con vantaggi in un periodo di forti tensioni sulle catene del valore delle tecnologie verdi.

Le negoziazioni della Cop29

Memori dello shock che l’elezione di Trump provocò durante la Cop22 di Marrakesh nel 2016, alcuni negoziatori hanno già lavorato negli ultimi mesi per creare le premesse per un’azione climatica immune al cambio della guardia alla Casa Bianca, attraverso canali di diplomazia climatica che non passino da Washington: alcuni funzionari del Maryland e della California, ad esempio, hanno incontrato degli omologhi cinesi per discutere della prosecuzione della collaborazione sul clima a livello subnazionale; il capo negoziatore statunitense per il clima, John Podesta, ha avuto colloqui con la sua controparte cinese.

Rimane comunque alta la probabilità che l’elezione di Trump crei maggiori difficoltà nell’avanzamento dei negoziati alla Cop29, specialmente se il nuovo presidente deciderà di sfruttare questa finestra di visibilità per riaffermare la propria posizione in ambito climatico ed energetico, o, peggio, se annuncerà impegni di uscita dai negoziati dopo il suo insediamento a gennaio. Se l’uscita dall’Accordo di Parigi minerebbe già sensibilmente l’ambizione dell’azione climatica internazionale, con la revoca dall’Unfccc gli Stati Uniti non parteciperebbero più ai negoziati delle Cop tout court, logorandone alla radice l’efficacia, già da molti contestata, e compromettendo il multilateralismo in ambito climatico. Secondo l’analisi di Carbon Brief la presidenza Trump potrebbe aggiungere 4 miliardi di tonnellate di gas-serra, in CO2 equivalente, entro il 2030 (figura 1) rendendo impossibile anche solo intravedere l’obiettivo di zero emissioni nette al 2050. Un target che invece l’Unione europea ha messo al centro della sua strategia climatica.

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Con la rielezione di Trump, l’Unione europea dovrà svolgere un ruolo di leadership e di mediazione con il blocco di paesi non industrializzati all’interno della Cop, a partire dalla Cina, spingendo su una maggior cooperazione sul clima e sulle catene di valore relative alle tecnologie verdi. A livello europeo, infatti, un declino della rilevanza della diplomazia climatica avrebbe implicazioni problematiche non solo per l’indebolimento della strategia economica del blocco portata avanti dalla prima Commissione von der Leyen, orientata verso le zero emissioni nette, ma anche per l’integrazione europea. Infatti, è nel dossier ambientale e climatico che l’Unione ha storicamente trovato un ambito in cui parlare con una sola voce e per una causa ritenuta giusta, forgiando un “soft power” sia a livello internazionale che domestico.

L’assenza alla COP29 della Presidente Von der Leyen, però, accanto a quella di Macron, Putin, Biden e Lula, non è un segnale positivo. Il rischio è che si perda di vista l’obiettivo più urgente e importante di questo secolo: agire velocemente per frenare la crescita delle emissioni e investire per adattarsi ai cambiamenti climatici inevitabili già in atto.

Figura 1 – Emissioni di gas a effetto serra, miliardi di tonnellate di CO2e

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