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Tanti ostacoli per la difesa europea

Il problema della spesa per la difesa in Europa è oggi la frammentazione nei diversi stati. Un semplice aumento delle percentuali non servirebbe a molto. Si dovrebbe invece investire su progetti comuni. Farlo nella Ue a 27 è però praticamente impossibile.

La spesa europea per la difesa

Dopo la telefonata Trump-Putin, con la possibilità concreta che la guerra Ucraina venga risolta da un accordo bilaterale Usa-Russia passando sopra la testa degli ucraini e dell’Unione europea, il dibattito sulla necessità di una difesa europea autonoma ha subito una nuova accelerazione.


Il presidente americano vorrebbe che ciascun paese europeo della Nato si impegnasse a spendere il 5 per cento del proprio Pil per la difesa, invece del 2 per cento deciso nel 2014, benché gli stessi Stati Uniti superino di poco il 3,5 per cento e ancora diversi paesi, a cominciare dall’Italia, siano solo all’1,5 per cento. Il nuovo segretario della Nato, ed ex primo ministro olandese, Mark Rutte ha proposto una soluzione di compromesso, al 3 per cento, nella speranza che faccia contento il tycoon americano.


Le spese addizionali sarebbero di per sé incompatibili con la nuova governance europea che, al contrario, richiederebbe a tutti i paesi, a cominciare da quelli più indebitati, di controllare strettamente l’evoluzione della spesa in futuro per ridurre il rapporto debito su Pil. Data la contraddittorietà degli impegni europei, ai margini della annuale Conferenza di Monaco sulla sicurezza, la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen ha pensato bene di proporre una revisione delle nuove regole fiscali, approvate a fatica meno di un anno fa, per escludere le spese per la difesa dal computo della spesa netta, il nuovo indicatore introdotto con la riforma. Una dichiarazione che arriva dopo che per anni la stessa Commissione aveva bocciato l’idea di introdurre golden rule a favore degli investimenti, sulla base dell’argomento, corretto, che anche le spese più a favore della crescita non sempre sono in grado di autofinanziarsi e quindi producono più debito. Figuriamoci quelle per la difesa.

Il problema è la frammentazione

Visto il dibattito, vale la pena forse rimarcare qualche semplice fatto. Primo. È vero che collettivamente i paesi Ue spendono per la difesa meno della metà degli Usa (sono anche più poveri), ma 300 miliardi di dollari circa all’anno non sono poi così pochi. In particolare, gli stati Ue spendono circa il triplo della Russia, anche se i numeri qui dovrebbero essere aggiustati per tener conto del minor costo della vita e di conseguenza degli stipendi più bassi del personale militare russo. Il problema è la frammentazione della spesa europea, che la rende particolarmente inefficiente. Nonostante gli sforzi dell’Unione volti a favorire investimenti comuni nella difesa, moltiplicatisi negli ultimi anni, in questo campo, ancora in larghissima parte, ciascun paese tende a perseguire in autonomia i propri progetti e a difendere i propri produttori nazionali, con il risultato di non riuscire a sfruttare i rendimenti di scala e a spendere più di quanto necessario.

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Come ricordava un famoso rapporto dell’allora vicepresidente della Commissione Federica Mogherini, nel 2017 nella Ue c’erano 17 modelli di carri armati, 29 di fregate, 20 di aerei da combattimento. Tanto per fare un confronto, negli Usa gli stessi numeri erano uno, quattro e sei.


Se questa è la situazione, è evidente che limitarsi semplicemente a consentire che ciascun paese spenda di più servirebbe a ben poco. È anche evidente, per quanto sia difficile produrre stime quantitative precise, che anche a parità di spesa, si potrebbe ottenere molto di più in termini di risultati se ci si concentrasse su alcuni grandi progetti comuni, quali per esempio, la protezione e la sicurezza dei mezzi di comunicazione, la difesa missilistica congiunta e il rafforzamento delle truppe europee di primo intervento.


La revisione delle regole fiscali avrebbe senso solo così, per le spese nazionali che contribuiscono a questi investimenti europei, il che significa di fatto anche un implicito o esplicito accordo di garanzia comune sui finanziamenti necessari.


In secondo luogo, se l’obiettivo Ue è quello di liberarsi dalla tutela americana, è poi evidente che i nuovi investimenti dovrebbero concentrarsi su progetti autonomamente europei, anche per riuscire a sfruttare i potenziali ritorni dello sviluppo tecnologico militare sulla produzione civile, un tema caro al presidente francese. Qui il problema è il ritardo europeo su molte produzioni tecnologiche d’avanguardia e il fatto che l’industria europea degli armamenti è poco sviluppata rispetto a quella statunitense. Buying America parrebbe una necessità almeno nel medio termine per alcune componenti della spesa, ma dovrebbe essere coniugata con un buying Europe in una prospettiva di più lungo termine, una cosa tutt’altro che semplice da organizzare.

Verso una coalizione dei volenterosi?

In ogni caso, questo passaggio non si può fare nell’ambito dell’Unione europea così com’è adesso, per diverse ragioni. Primo, perché le regole decisionali attuali sono organizzate in modo da garantire a ognuno dei 27 paesi della Ue il diritto di veto su ciascuna decisione che incida su aspetti considerati fondamentali per la sovranità nazionale, a cominciare appunto della difesa.

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Secondo, perché gli interessi dei 27 paesi nel campo della difesa non coincidono. Banalmente, non si può varare un progetto di difesa europea comune per contrastare la minaccia russa quando alcuni stati, a cominciare dall’Ungheria di Viktor Orban, perseguono deliberatamente un obiettivo di alleanza con Vladimir Putin.


Terzo, perché un progetto di difesa comune europea dovrebbe per forza coinvolgere in qualche forma anche il Regno Unito, che è adesso fuori dalla Ue.


L’unica soluzione possibile sembrerebbe dunque essere quella di una “coalizione dei volenterosi”, un accordo di difesa comune che coinvolga necessariamente almeno i principali paesi europei, magari con la stipula di un nuovo Trattato, che forse, domani, se le condizioni lo consentiranno, potrà essere integrato nella Unione europea nel suo complesso. Come possa essere definito, con quali regole decisionali e meccanismi di controllo democratico, resta tutto da decidere.

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  1. Antonio Petrina

    E se ,diversamente dai volenterosi ,fosse l’ UE come Stato ad investire nella difesa comune ( come fu per il covid) e come giustamente ha suggerito Draghi?

  2. Michele

    Si parla di difesa, esercito Europeo, etc come se bastasse il numero di baionette (amari ricordi) a definire la forza di un esercito. L’esercito è sangue e appartenenza. Si deve chiedere a degli uomini di morire. Sono sicuro che tanti dei nostri bravissimi soldati lo farebbero per difendere la loro meravigliosa Italia. Si risponderà : sono professionisti ! Certo , ma, visto che il paragone è con l’esercito USA , quanti di noi riconoscerebbero un un U.S. Marines solo un banale stipendiato ? Non solo. Purtroppo bisogna ammettere che l’unico vero esercito che fa temere un avversario riottoso al compromesso è un esercito non di mera difesa ma di straordinaria e incommensurabile forza di ATTACCO e questa è l’ennesima peculiarità delle forze USA.

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