Le tariffe danneggiano l’economia. Ma il rapporto al Parlamento europeo di un gruppo di esperti giunge a conclusioni forse troppo ottimistiche su quelle imposte dall’amministrazione Trump perché non tiene conto di possibili effetti collaterali.
Le tariffe limitano la crescita
Nel 1961 l’economista canadese Robert Mundell, premio Nobel e grande amante della Toscana, dove possedeva un magnifico palazzo rinascimentale vicino a Siena, scrisse un breve articolo destinato a entrare in tutti i manuali e a influenzare le politiche economiche per oltre mezzo secolo.
Riprendendo le ipotesi keynesiane, Mundell mostra come in un mondo a tassi di cambio flessibili sia le politiche monetarie che quelle fiscali risultino particolarmente efficaci. Sotto le stesse ipotesi, le politiche commerciali (tariffe e sussidi) perdono, invece, molta della loro efficacia in termini di stimolo alla crescita e miglioramento dei conti con l’estero. Anzi, in presenza di cambi flessibili, l’introduzione di tariffe all’importazione riduce il reddito e l’occupazione e non ha effetti rilevanti sulla bilancia dei pagamenti. Infatti, in questo caso le politiche commerciali determinano una rivalutazione del tasso di cambio, danneggiando la competitività del paese.
Il messaggio di Mundell era chiaro: se i governi vogliono stimolare l’occupazione devono agire attraverso politiche monetarie e fiscali, mentre è meglio che lascino perdere le politiche commerciali. Questo è stato il “Washington consensus” per più di sessanta anni.
Il modello di Mundell è stato poi rivisitato da molti economisti, tra cui Paul Krugman nel 1982, e stimato infinite volte: ci piace qui citare il lavoro di tre economisti italiani: Alessandro Barattieri, Matteo Cacciatore e Fabio Ghironi. Le conclusioni sono simili: le tariffe all’importazione danneggiano la crescita, generano maggiore inflazione e producono scarsi effetti positivi sui conti con l’estero del paese che le impone.
Il rapporto del gruppo di esperti
Sulla base di queste e di altre stime, un recente rapporto preparato per il Parlamento europeo da un gruppo di esperti giunge a conclusioni relativamente ottimistiche sugli effetti delle politiche protezionistiche portate avanti dall’amministrazione Trump. Se lasciamo svalutare l’euro, la politica monetaria della Bce si mostra accomodante e non si introducono ritorsioni tariffarie, le tariffe all’importazione di Trump non dovrebbero avere conseguenze troppo pesanti sulle economie europee. Certo bisognerà favorire l’apertura verso mercati terzi e prestare attenzione al fatto che le merci cinesi, che con l’imposizione di tariffe faticano a essere vendute negli Usa, si riversino a prezzi stracciati in Europa. Ma anche in questo caso il tasso di cambio può aiutare a gestire la situazione.
Il problema di questo approccio è che il tasso di cambio è una variabile difficile da controllare in un sistema finanziario aperto. D’altro canto, gli Stati Uniti sembrano anch’essi intenzionati e interessati a lasciar svalutare la propria moneta. Innanzitutto, Donald Trump ha più volte chiesto alla Fed di rilassare la sua politica monetaria, mentre Stephen Miran, responsabile del Council of Economic Advisers, ha addirittura elaborato un piano che prevede una drastica riduzione del valore del dollaro in una sorta di riedizione dell’accordo del Plaza del 1985. È il così detto “Mara-Lago Accord”.
Forse, la ragione più importante per cui la moneta americana è destinata a svalutarsi è che ben presto il rallentamento dell’economia americana indurrà la Fed a ridurre i tassi d’interesse. In un recente lavoro due economisti (uno della Fed di Minneapolis e l’altro dell’University of Wisconsin-Madison) mostrano come, contrariamente all’opinione prevalente, di fronte a uno shock tariffario imposto dal governo sia ottimale perseguire una politica monetaria espansiva.
L’idea è che quando viene imposta una tariffa, le famiglie e le imprese percepiscono un costo privato sui beni importati superiore al loro costo sociale. La discrepanza nasce dal fatto che i singoli agenti non riescono a interiorizzare che con il maggior costo delle importazioni si generano entrate fiscali aggiuntive, che, in equilibrio, aumentano il reddito delle famiglie. Di conseguenza, le importazioni diminuiscono più di quanto sia socialmente ottimale. Per contrastare l’effetto di sostituzione delle tariffe e mitigare la contrazione delle importazioni, la politica monetaria ottimale deve stimolare l’occupazione e il reddito.
Non è allora un caso che nelle ultime settimane i tassi a lunga americani siano rapidamente scesi e che il dollaro si sia svalutato di oltre il 5 per cento, nell’attesa che Jerome Powell, governatore della Fed, si decida ad abbassare i tassi d’interesse.
Se tutto questo è vero, è allora probabile che la guerra delle tariffe di Trump conduca a una guerra valutaria fra le due sponde dell’Atlantico, ma forse anche con la Cina, che governa in maniera dirigistica la sua valuta.
Il contraccolpo sulla globalizzazione
Vi è tuttavia un altro motivo di preoccupazione di cui il rapporto presentato al Parlamento europeo non tiene conto. Infatti, la storia ci insegna che le tariffe generano comportamenti aggressivi da parte di chi le subisce. Tipico è l’esempio dei consumatori europei che si rifiutano di comprare automobili Tesla o cercano addirittura di rivendere quelle che hanno. Un recente articolo di fondo dell’Economist ci ricorda che questi comportamenti possono provocare danni anche maggiori agli scambi e alla crescita internazionale. Già alcuni osservatori avevano da tempo rilevato diffusi fenomeni di “backlash of globalization” (contraccolpo della globalizzazione) nell’elettorato dei principali paesi avanzati. Con gli elettori sia di destra che di sinistra che si mostrano sempre più protezionisti e isolazionisti.
Le guerre commerciali e valutarie, viste come atti di arroganza, possono suscitare ancora maggior rancore e diffidenza nei riguardi della globalizzazione. Allora, forse avevano ragione i latini quando dicevano: Mala tempora currunt sed peiora parantur (brutti tempi, ma se ne preparano di peggiori).
Il rapporto preparato per il Parlamento europeo dal gruppo di esperti verrà presentato in Università Cattolica il 14 aprile 2025.
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Enrico
Tanto per aggiungere un po’ di ottimismo all’ ineccepibile analisi di Hamaui, direi che le catene del valore globale sono difficili da riorganizzare rapidamente tramite un significativo reshoring, come spera Trump, soprattutto se ci si attende che i dazi siano solo temporanei. Inoltre molte merci colpite dai dazi sono materie prime e semilavorati insostituibili per le imprese americane. Questo significa che la bilancia commerciale e l’occupazione USA potrebbero cambiare poco, mentre il livello dei prezzi potrebbe aumentare molto. Una svalutazione competitiva del dollaro peggiorerebbe le cose, perché potrebbe accelerare la fuga dal biglietto verde a favore dello yuan e delle cryptovalute. E una bella crisi finanziaria è proprio quello che ci mancava.
Carlo F. Accame
Esiste una diffusa opinione che l’attivazione di tariffe molto elevati generi inflazione a causa della conseguente distorsione delle catene di approvvigionamento internazionalizzate. Se questo si avverasse la FED si troverebbe nella scomoda situazione di non poter abbassare troppo i tassi d’interesse! Lei ritiene che sia corretto ed efficace contrapporre tariffe doganali alle tariffe poste in essere da Trump?
Antonio
Ottimo approfondimento!
L’Europa che è esportatrice netta non si è ancora resa conto
delle conseguenze economiche a lungo termine delle proprie scelte politiche imposte da qualche personaggio celebrato dai media…
Carmine Meoli
Contrastare squilibri strutturali richiederebbe iniziative concertate e non unilaterali .
Le Banche centrali dei Paesi che subiscono dazi hanno leve per neutralizzare l’impatto dei dazi .
Una guerra peggiore quella valutaria di quella commerciale ? Forse . Ma dazi diretti a stimolare produzioni domestiche in processi non competitivi diventano dannosi per le due parti e non correggono gli squilibri. I dazi hanno senso per contrastare dumping sociale e oligopoli ma dannosi per riportare in casa produzioni che il Paese stesso ha valutato decentrare .
zipperle
Difficile comprendere, alla luce di quanto noto in macroeconomia, la ratio sottostante l’imposizione di dazi statunitensi in settori dove non c’è un’industria domestica da proteggere (siderurgia, alimentari), dove l’industria domestica è di nicchia (auto elettriche) e dove più in generale non c’è una grossa esposizione degli USA ai cosiddetti tradable sectors. Le uniche motivazioni adducibili (o addotte dall’Amministrazione USA) sono 1) praticare ritorsioni economiche verso Paesi che creerebbero problemi di ordine sociale (immigrazione clandestina, sanità pubblica), ma non si capisce perché dovrebbero funzionare, e 2) attrarre investimenti diretti dall’estero (un’impresa straniera a causa dei dazi non riesce ad esportare, ma se stabilisce un impianto produttivo negli USA, allora può vendere senza risentire dei dazi).
L’unica cosa chiara è che nel breve-medio periodo gli USA e i loro partner commerciali cresceranno di meno mentre per i sedicenti effetti positivi bisognerà aspettare il lungo periodo, quando potremmo essere tutti morti (J.M. Keynes)…