Aumentano i rischi di un utilizzo non regolamentato della comunicazione politica costruita con algoritmi e veicolata nei social media. La normativa italiana non è adeguata di fronte a questi sviluppi. Eppure, basterebbe seguire il legislatore europeo.
Come la politica sfrutta i social media
Leggendo il saggio di Antonio Nicita Nell’età dell’odio, edito da il Mulino e recentemente approdato nelle librerie, mi sono ritrovata a condividere la crescente preoccupazione dell’autore quando nel raccontare, come un evento normale, che i soggetti politici (o una parte di essi) riconoscono “alle espressioni d’odio nei social media un valore intrinseco per il proprio posizionamento politico-elettorale da sfruttare attraverso le tecnologie e i servizi di marketing digitale in grado di generare messaggi pubblicitari confezionati ad hoc per uno specifico gruppo di destinatari”.
Non mi sorprende l’evidenza del fenomeno: che le nostre coscienze e l’apprendimento per l’esercizio del diritto di voto e di opinione politica siano esposte a rischi sempre più elevati per l’utilizzo improprio e il funzionamento non controllato di algoritmi di intelligenza artificiale e dei social network è ormai un dato di fatto. A partire da Cambridge Analytica, i casi di interferenza di governi stranieri o di azioni dei soggetti politici di manipolazione delle opinioni dei cittadini attraverso l’utilizzo di algoritmi e tecniche di microtargeting hanno generato allarme e spesso sono state censurate: l’uso dei social network dei sostenitori di Jair Bolsonaro nei disordini di Brasilia del 2023; le tecniche di influenza e manipolazione delle elezioni presidenziali romene del 2024, la campagna di Elon Musk su X per l’elezione di Donald Trump sono esempi eclatanti e mostrano come tali utilizzi possano avere un enorme impatto sociale, indipendentemente dal fatto che il cittadino o elettore scelga di ricorrere a un servizio di informazione o comunicazione politica on line.
Se tutto ciò non mi stupisce, provo disagio nel constatare l’assenza in Italia di un dibattito politico e parlamentare sul tema, quantomeno attraverso l’adeguamento delle norme all’attuale contesto tecnologico e sociale, a tutela di diritti quali la libertà di opinione, quella di scelta dei propri leader politici e di partecipazione attiva e consapevole alla vita politica e sociale. La salvaguardia della democrazia richiede la protezione dei processi elettorali e la garanzia di un dibattito politico aperto, libero da interferenze straniere o nazionali e rispettoso dei diritti e delle regole.
E allora come può essere consentito un linguaggio politicamente scorretto, addirittura messaggi d’odio, nell’informazione politica e nella propaganda, o meglio dovremmo dire nella pubblicità, dato che si intende persuadere più che comunicare, elettorale? Come evitare di essere targettizzati e manipolati a prescindere dal consenso, dalla consapevolezza e dalla partecipazione al dibattito anche se attraverso i nuovi media?
Principi di correttezza e campagna elettorale permanente
Il nostro ordinamento è pieno di riferimenti ai principi di correttezza, completezza, pluralità, obiettività e lealtà dell’informazione e della comunicazione politica. Principi che non si riferiscono solo ai mezzi e ai servizi di informazione o alle prestazioni di comunicazione o pubblicità politica ma anche ai soggetti politici che concorrono alla rappresentanza dei cittadini e ne garantiscono, una volta eletti, la partecipazione alla vita pubblica. I soggetti politici, in qualità di comunicatori o di sponsor della pubblicità e della propaganda politica devono attenersi a linguaggi e regole che consentano di proteggere il diritto di voto (anche dalle neurotecnologie) e garantire la partecipazione corretta e completa al dibattito per la formazione di opinioni e la libertà di scelta.
Se i principi restano immutati e sacrosanti, in Italia stenta a partire anche solo il dibattito sull’adeguatezza della normativa di rispondere allo stato delle cose, mentre sempre più invasive appaiono nelle nostre vite l’informazione, come anche la pubblicità politica, in un perenne periodo di propaganda elettorale.
È indubbio che la normativa italiana sia superata e del tutto inidonea a rispondere ai rischi derivanti dall’utilizzo non regolamentato della pubblicità o della comunicazione politica costruita con algoritmi e veicolati nei social media. Se non altro perché la disciplina risale al 2000 (legge 22 febbraio 2000 n. 28 “Disposizioni per la parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie e per la comunicazione politica”) e con riguardo alla pubblicità addirittura al 1956 (legge 4 aprile 1956, n. 212 “Norme per la disciplina della propaganda elettorale”) ed è concentrata sui media tradizionali o non affronta proprio il fenomeno in quanto allora inesistente.
Di converso, il legislatore europeo ha fatto passi avanti con l’intento di proteggere l’integrità dei processi elettorali e garantire la correttezza e legalità dell’informazione politica, consapevole dei rischi sistemici e concreti connessi all’interferenza e la manipolazione del diritto di voto. A partire dal Piano di azione per la democrazia europea del 2020 (aggiornato nel 2023), per passare alla determinazione di una disciplina ad hoc (art. 33(1c) del Digital Service Act del 2023) e a specifici strumenti di intervento (orientamenti sull’attenuazione dei rischi sistemici per i processi elettorali del 2024; kit di strumenti elettorali di supporto ai coordinatori dei servizi digitali del 2025) fino al recente regolamento sulla trasparenza e il targeting della pubblicità politica, operativo dal 10 ottobre 2025.
Al di là della cronaca degli effetti derivanti dall’utilizzo inappropriato o illegale di algoritmi e social media, mi sentirei più protetta se leggessi che anche il legislatore italiano sta lavorando per colmare questa lacuna normativa, affrontando un fenomeno concreto che minaccia un nostro diritto e la stessa democrazia. E partire con l’armonizzazione alla disciplina europea e con l’utilizzo degli strumenti messi a punto dalla Commissione per rafforzare il coordinamento nelle attività di vigilanza sarebbe già un buon inizio.
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