Una mega-costellazione di satelliti che porti ovunque la connettività può colmare il divario digitale che oggi penalizza vaste aree del pianeta. Il problema è che a svilupparla è Elon Musk. Altri, Europa in testa, sono in ritardo sulla space-economy.
A che servono i satelliti
Una domanda ricorre spesso in questo periodo: ci troviamo in una situazione di monopolio in alcuni settori delle attività spaziali, che rappresentano infrastrutture critiche per la gestione sia delle attività civili che di sicurezza su scala globale?
Mi riferisco in particolare alle mega-costellazioni per la connettività a banda larga. L’esempio più incisivo è oggi Starlink, sviluppata e operata da SpaceX, l’azienda fondata da Elon Musk.
Ma partiamo dal principio: cos’è una mega-costellazione di satelliti? Una costellazione è un insieme di satelliti, in questo caso in orbita bassa (tra i 300 e i 400 chilometri sopra le nostre teste), che sono tutti uguali o simili, e che operano in modo coordinato per uno stesso obiettivo. Una mega-costellazione, come suggerisce il nome, è composta da migliaia di questi satelliti. Starlink, nella sua prima generazione, ne prevede 12mila; la seconda generazione ne conterà 30mila, per un totale di 42mila satelliti. Naturalmente, quando la costellazione sarà pienamente operativa, molti dei primi satelliti lanciati saranno già rientrati in atmosfera o non saranno più funzionanti. Al momento, però, SpaceX ha già collocato in orbita oltre 6mila satelliti Starlink.
Ma qual è lo scopo? L’obiettivo è offrire connettività ovunque, con particolare attenzione a coloro che vivono in aree remote, difficilmente raggiungibili da altri mezzi di comunicazione. E se consideriamo le situazioni di emergenza, come i disastri naturali, quando le comunicazioni tradizionali si fermano, quanto può rivelarsi essenziale un sistema di connettività satellitare per coordinare le operazioni di soccorso?
Gli stessi servizi, ovviamente, possono essere impiegati anche in zone di conflitto.
Secondo i dati aggiornati al 2024, forniti dall’Unione internazionale delle telecomunicazioni (Itu), agenzia specializzata delle Nazioni Unite con sede a Ginevra, circa 2,6 miliardi di persone nel mondo – su un totale di 8,1 miliardi – non risultano connesse. È quasi un terzo della popolazione globale. In quest’ottica, una mega-costellazione capace di portare connettività ovunque può realmente colmare il divario digitale che oggi penalizza ancora vaste aree del pianeta, come l’Africa centrale o le isole del Pacifico.
La democratizzazione dello spazio
D’altro canto, se guardiamo ai principi dello Outer Space Treaty, il trattato entrato in vigore il 10 ottobre 1967 e base del diritto spaziale internazionale, scopriamo che lo spazio è definito “provincia dell’umanità”. Tutti devono poterne beneficiare per usi pacifici, indipendentemente dal livello di sviluppo economico, sociale o politico. In questa prospettiva, non possiamo forse considerare la democratizzazione dello spazio una responsabilità condivisa?
Qualunque sviluppo – anche commerciale e privato – che renda l’accesso allo spazio più equo può dunque avere un ruolo fondamentale nello sviluppo socio-economico sostenibile e affiancarsi alle politiche spaziali dei paesi impegnati a contribuire a tale progresso su scala globale.
Starlink non è l’unica iniziativa. Esistono anche la costellazione Kuiper di Jeff Bezos, anch’essa con migliaia di satelliti ma su scala più contenuta, e OneWeb in Europa. Per la connettività sicura, la Commissione europea e l’Agenzia spaziale europea stanno sviluppando il progetto Iris², che prevede però un numero significativamente inferiore di satelliti.
Si è creato un monopolio?
E allora torniamo alla domanda iniziale: siamo davvero in una situazione di monopolio?
Secondo la definizione Treccani, il monopolio è una “situazione tecnica caratterizzata da una domanda limitata e dall’efficienza tecnica di un unico produttore”. In questo caso, si tratterebbe di un monopolio di fatto, ma non puro, poiché il mercato non è del tutto chiuso all’ingresso di altri fornitori in grado di offrire prodotti o servizi identici o sostituibili.
Ciò che ha permesso a SpaceX di raggiungere una posizione dominante è stata l’intuizione del suo fondatore e la capacità dell’azienda di imporsi a livello globale, grazie a precise scelte tecniche, organizzative e manageriali. Da un lato, l’utilizzo intelligente delle tecnologie già disponibili e l’ottimizzazione dei processi. Dall’altro, l’innovazione vera e propria, come l’introduzione di vettori riutilizzabili, che ha drasticamente abbassato i costi di accesso allo spazio.
È forse questo il vero punto di svolta?
L’adozione di vettori riutilizzabili ha favorito il processo di democratizzazione dello spazio, ampliando la base degli attori – pubblici e privati – in grado di accedervi. Ha accelerato lo sviluppo della space economy, permettendo l’ingresso sul mercato di nuovi operatori. Tuttavia, siamo arrivati a una situazione in cui la concorrenza effettiva è quasi assente: gli altri lanciatori presenti oggi non sono, per costi e prestazioni, davvero comparabili.
Nel frattempo, mentre si consolida la posizione dominante sia per quanto riguarda il vettore Falcon 9 che per la costellazione Starlink, SpaceX sviluppa un nuovo lanciatore ancora più potente: Starship. Il sistema nasce per portare uomini e mezzi sulla Luna e su Marte, ma già ora si dimostra versatile anche per satelliti più grandi, come quelli della seconda generazione di Starlink.
Possiamo allora dire che quello di Elon Musk è un approccio strategico integrato, in cui tecnologia, processi e gestione si muovono in sinergia su scala temporale breve, media e lunga?
Una combinazione, insomma, di sforzo strategico, tecnologico, manageriale e finanziario.
È un monopolio pericoloso? Forse sì.
Ma se le cose stanno così, non dovremmo interrogarci sul perché, in Europa, non siano state fatte scelte strategiche – anche a livello di Agenzia spaziale europea – che ci consentissero almeno di competere per una parte del mercato?
Studiare la storia, capire perché ciò non è accaduto, può essere fondamentale per non ripetere lo stesso errore. Per considerare finalmente lo spazio come un settore strategico e la space economy come la colonna portante dell’economia del presente e del futuro: per l’Europa, per il nostro paese, e per il mondo intero.
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Kim ALLAMANDOLA
Una nota tecnica: il problema dell’internet via sat è l’RTT (Round Trip Time) ovvero il tempo che serve ad un pacchetto dati dall’emittente a terra, al satellite, all’interno della costellazione sino di nuovo alla stazione di terra. Questo è altino e tanto più alto quanto più i satelliti sono su orbite alte. Il problema del satellite “in basso” è che più basso è prima precipita verso terra e più è esposto all’atmosfera terrestre che con ordinarie fluttuazioni può danneggiare/distruggere il singolo satellite come un gruppetto.
Per farla breve: più vogliamo andar veloci più servono satelliti dalla corta e incerta vita operativa e ne servono tanti. Quindi il primo problema sono i costi elevati (perché se il singolo satellite non costa poi così caro spedirlo su costa eccome) ed il secondo è che più satelliti ci sono più i rischi di collisioni sono dannatamente alti, un satellite danneggiato può perder pezzetti che sono come proiettili contro altri satelliti e via dicendo. Questo fa si che i monopolio sia “naturale” del primo arrivato perché lo spazio orbitale è quello che è. Per questo non può esser un privato per il mondo ma deve essere un servizio pubblico gestito da n paesi per tutti.
Sorvolando su questo ad oggi c’è StarLink operativo, un progetto Cinese di Geely/Geespace detto Guowang, un progetto UE (IRIS2) ed alcuni aspiranti concorrenti privati di StarLink, nessuno in condizioni di far nulla al momento. Il progetto UE è su altitudini maggiori per costar meno di StarLink, quindi sarà poco adatto a streaming/VoIP, quello Cinese sembra un concorrente diretto ma la sua roadmap non è che sia nota. Già così non c’è più spazio…
Quindi si, ci sono opportunità, ma anche dei problemi di fondo che il privato non può ne può voler risolvere. La realtà piaccia o meno è che certi servizi devono essere frutto di pubblica ricerca e pubblicamente gestiti. Piaccia o non piaccia a chi crede nella Public Choice Theory.