Salari minimi e contrattazione collettiva: cosa è successo in quarant’anni

La contrattazione collettiva è spesso chiamata a rispondere dei bassi salari italiani. Uno studio sui contratti nazionali di importanti categorie rivela però che in quarant’anni sembra aver tutelato le retribuzioni dei lavoratori, almeno quelle orarie.

Quarant’anni di salari minimi

Nel dibattito sulla questione salariale italiana si evoca spesso il tema della contrattazione collettiva. Nei decenni scorsi, infatti, i redditi da lavoro in Italia hanno avuto un andamento stagnante e addirittura decrescente per i lavoratori più poveri. E la contrattazione collettiva, che ha tra le sue funzioni principali quella della protezione dei livelli retributivi dei lavoratori, viene spesso indicata come debole o inefficace. Manca tuttavia un quadro chiaro di come siano andate le cose.

In un mio recente lavoro ho ricostruito l’andamento dei salari minimi stabiliti dai maggiori contratti collettivi italiani negli ultimi quattro decenni. L’analisi si è concentrata sui contratti collettivi dell’industria metalmeccanica, del commercio terziario e dell’industria edile. Complessivamente, i tre contratti collettivi sono applicati a circa un terzo dei lavoratori dipendenti privati in Italia. In più esercitano un’influenza sulle dinamiche salariali che si estende al di là della loro copertura, dal momento che vengono spesso presi come punto di riferimento per i negoziati di altri Ccnl minori all’interno della manifattura, dei servizi e delle costruzioni.

La figura 1 mostra l’andamento nel tempo dei salari minimi reali (a parità di potere d’acquisto), specifici per occupazione (livello d’inquadramento), in ciascuno dei contratti collettivi presi in considerazione. I livelli d’inquadramento in ciascun contratto collettivo sono definiti in modo coerente nel tempo. Quelli caratterizzati da un salario minimo più elevato sono rappresentati con tonalità relativamente più scure nel grafico. Inoltre, i punti in ciascuna serie storica rappresentano un cambiamento nei salari minimi nominali fissati dal contratto collettivo.

Ci sono vari elementi che si possono evidenziare. Innanzitutto, l’andamento dei salari minimi nel tempo è abbastanza simile tra contratti collettivi diversi, indice di un buon grado di centralizzazione e coordinamento tra settori produttivi diversi. Si possono poi individuare varie fasi storiche nella dinamica dei salari minimi.

Fasi legate al periodo storico

In una prima fase, dagli anni Ottanta fino a circa il 1992, i salari reali hanno un andamento abbastanza piatto, fatta salva una crescita più marcata nei primi anni Novanta. Inoltre, le differenze nella crescita dei minimi tra lavoratori ad alta e bassa qualifica sono abbastanza limitate.

Dal 1992 a circa il 1994 si assiste a una seconda fase di riduzione nel livello dei salari minimi reali, che coincide con un periodo transitorio di riforme nel sistema di contrattazione, con l’abolizione definitiva della scala mobile e la graduale entrata in vigore dell’accordo del 31 luglio 1992 “sulla politica dei redditi, la lotta all’inflazione e il costo del lavoro”.

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Figura 1 Andamento dei salari minimi a parità di potere d’acquisto nei Ccnl metalmeccanica, commercio e edilizia

Nota: I minimi sono adeguati all’inflazione con una frequenza mensile. Ciascun punto nel grafico rappresenta un cambiamento nel livello nominale dei salari minimi. I livelli d’inquadramento a salario minimo maggiore sono rappresentati da linee relativamente più scure. Il livello dei salari minimi nel 1983 è normalizzato a 100.
 

Dal 1995 circa fino al 2011 vi è una successiva fase di crescita nei salari minimi reali e di aumento delle diseguaglianze tra occupazioni ad alta e bassa qualifica. La crescita delle diseguaglianze è relativamente più marcata nel primo decennio della fase. Invece, quella dei salari minimi è generalmente più rapida nel primo decennio degli anni Duemila, grazie anche alla bassa inflazione.

La crescita dei salari minimi reali tende poi a rallentare visibilmente dal 2012, anche se le fasi di crescita negativa non sono mai persistenti nel tempo e la tendenza dei salari resta leggermente positiva. Gli anni tra il 2015 e il 2021 coincidono con un massimo storico dei salari minimi reali per quasi tutti i livelli d’inquadramento presi in considerazione. Su un arco di quattro decenni, l’aumento complessivo arriva al 30-45 per cento nel caso delle occupazioni più qualificate, mentre è intorno al 5-15 per cento nel caso delle posizioni lavorative a più basso salario.

L’ultima fase, che coincide con gli ultimi due anni della serie storica (2022-2023), è caratterizzata da una drammatica riduzione nei salari minimi reali, che possiamo attribuire alla forte crisi inflazionistica che ha caratterizzato il periodo. Per alcune occupazioni, la riduzione dei minimi comporta la perdita di tutta o quasi tutta la crescita reale che si era cumulata negli ultimi decenni.

Quanto conta l’inflazione

Lo studio che ho realizzato cerca di individuare quali variabili macroeconomiche abbiano un’influenza significativa sull’andamento dei minimi stabiliti dalla contrattazione collettiva. In particolare, mi sono concentrato sull’inflazione, la disoccupazione e la produttività settoriale. L’analisi mostra che solo l’inflazione ha un’influenza robusta e significativa sulla crescita dei minimi. Ciò non dovrebbe sorprendere, considerato che l’adeguamento dei salari al costo della vita è una delle funzioni principali della contrattazione, che è stata prima attuata con gli automatismi della scala mobile, poi con un’intesa volta ad ancorare i salari all’inflazione programmata.

La disoccupazione ha invece un ruolo molto limitato nell’influenzare i salari minimi. Anche la produttività settoriale, definita come valore aggiunto per ora lavorata, non sembra aver avuto un’influenza significativa. Basti considerare che la produttività, negli ultimi quattro decenni, è aumentata di circa il 50 per cento nella manifattura, di circa il 30 per cento nei servizi, mentre si è ridotta del 10 per cento (fatto salvo un recupero nel 2022-2023 legato agli incentivi fiscali) nelle costruzioni. Tuttavia, queste forti differenze non sembrano riflettersi in modo netto nell’andamento dei minimi salariali tra settori diversi.

Salari minimi e salari orari

A uno sguardo superficiale, l’andamento dei salari minimi sembrerebbe poco compatibile con la stagnazione dei redditi evidenziata nel dibattito sulla questione salariale italiana. Occorre però tener conto di una specificità di questo fenomeno.

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Il reddito annuale, in Italia, ha avuto un andamento negativo per i lavoratori più poveri negli ultimi decenni, con un conseguente aumento delle diseguaglianze, ma non è avvenuto lo stesso se prendiamo in considerazione i salari per giornata di lavoro a tempo pieno, che sono una buona approssimazione dei salari orari. In quest’ultimo caso, le diseguaglianze sono aumentate principalmente nel corso degli anni Novanta. Inoltre, l’andamento di questi salari è stato generalmente positivo o piatto in termini reali per tutti i lavoratori, una tendenza che si è interrotta solo con la crisi inflazionistica del 2022-2023. Addirittura, a partire dagli anni Duemila si osserva una lieve riduzione nelle diseguaglianze dei salari per giornata di lavoro.

I contratti collettivi sembrano aver avuto un’influenza abbastanza importante sull’andamento dei salari orari. Nel mio studio, ho stimato che circa un terzo della crescita delle diseguaglianze dei salari per giornata di lavoro verificatasi nel corso degli anni Novanta può essere attribuita all’effetto dell’aumento delle diseguaglianze nei salari minimi tra livelli d’inquadramento diversi. La contrattazione collettiva, in quegli anni, sembra quindi aver recepito le istanze dei lavoratori a più alta qualifica, che chiedevano una maggiore valorizzazione delle loro competenze col superamento dei meccanismi di compressione dei salari (in particolare la scala mobile) che erano in vigore negli anni Ottanta.

Possiamo quindi concludere che la contrattazione collettiva è uno strumento che, per la gran parte degli ultimi quarant’anni, pur con qualche limite, sembra essere stata efficace nel tutelare il potere d’acquisto dei salari orari. Tuttavia, la contrattazione non riesce a garantire redditi maggiori se il calo della retribuzione è legato a orari di lavoro ridotti e discontinuità nelle carriere lavorative. Questi meccanismi sembrano particolarmente rilevanti nel caso italiano, con fenomeni come la cassa integrazione, la disoccupazione e il part-time involontario.

È poi importante monitorare le dinamiche salariali, così come fissate nei contratti collettivi, e come interagiscano col ciclo economico, perché gli interventi pubblici più appropriati potrebbero essere diversi in base al periodo storico che si attraversa.

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Sei grafici per parlare di cultura

  1. Leo

    Mi sa ch’è arrivato il momento di promuovere leggi degne della dignità di chiunque. Specialmente di quei lavoratori dipendenti che hanno un contratto al limite della della dignità. Che il contratto è firmato da persone degne di firmarlo.

  2. Pietro Della Casa

    Mi pare un contributo interessante, ma un poco “timido” nell’analisi delle cause – o quantomeno delle possibili correlazioni. Non posso che incoraggiare gli Autori a fornire una “seconda puntata” di questa analisi.

  3. Marco Andreini

    A mio parere lo studio è fuorviante:
    – Non ha considerato la contrattazione di 2 livello che toccò negli anni ’80 e ’90 punte del 40%. E lo dico perche in quegli anni sedevo ai tavoli dove si decidevano e si scrivevano i contratti nazionali.
    – Non tiene minimamente conto che la media sulla quale può fare i calcoli è quella sul 3, per non dire 4, livello, perché anche i delegati meno scafati sanno che non si rimane che per pochi mesi al 1 e 2 livello.
    -Noi con gli accordi del ’90 tenemmo sotto controllo prezzi, tariffe e salari e consentimmo al paese di entrare in Europa…

  4. gerardo lisco

    Buon giorno studio molto interessante. Il dibattito in corso sul livello dei salari in Italia viene visto in termini comparati nel senso che quando si parla di salari bassi ci si si riferisce sempre al livello dei salari degli altri Paesi aderenti all’UE. A partire dagli anni 90, per capirci dalla sottoscrizione del c.d. ” Protocollo Ciampi”, i salari in Italia hanno iniziato ad avere un segno negativo. Sercondo l’ OCSE in Italia i salari hanno avuto un segno negativo pari al 2,9% a differenza degli altri Paesi UE che hanno visto una crescita positiva dal 6% e passa della Spagnma ad oltre il 33% della Germania. Nei Paesi dell’ex blocco sovietico la crescita è stata ancora più elevata addirittura del 100% in Litunaia, riospetto a questi Paesi gli aiuti dell’UE sono stati fondamentali ai fini della crescita dei salari . A mio modesto parere la mancata crescita è dovuta a politiche di moderazione salariale , alla necessità di rispondere agli impegni assunti per l’adesione all’UE ( Maastricht – Moneta Unica, Vincoli di bilancio , ecc ), privatizzazioni, decentramento da qui l’importanza degli accordi di secondo livello ecc., blocco del rinnovo dei CCNL , . Le politiche di austerità hanno fatto si che dal punto di vista salariale l’Italia fosse poco sotto la media UE diventando l’ultimo tra i Paesi UE più sviluppati e il primo tra queli meno sviluppati ( se mi fa passare il termine). Alla mancata crescita dei salari ha contribuito la diversa impostazione della contrattazione tra sindacati e parti sociali e le modifiche al diritto del lavoro a partire da Treu. Con l’introduzione del welfare aziendale gli aumenti salariali non si sono tradotti in aumenti reali dei salari , parte dell’aumento è stato utilizzato per finanziare il welfare aziendale, di fatto sostegno alle imprese e spinta alla privatizzazione della sanità con ulteriore taglio alla spesa pubblica per il sociale. L’avere poi delegato alla contrattazione di secondo livello , accordi aziendali , territororiali, di prossimità ecc. ha determinato una ulteriore crescita nella differenza dei salari tra Nord, Centro e Sud. Senza farla eccessivamente lunga , penso che ciò che è successo in Italia a partire dagli anni 90 sia da ricondurre all’idea di sviluppo e quiondi al modello economico ormai consolidato, il nostro sistema imprenditoriale è per larga parte ha scelto di essere competitivo con paesi come Bulgaria, Romania, ecc. . più che con Germania o Francia. Da parte della CGIL si pensa di risolvere la questione dei salari bassi rispetto a talune categorie di lavoratori introducendo il salario minimo orario a 9,0 € per quanto mi riguarda questa proposta ha molto di demagogico e non risolve affatto il problema. Serve con forza rilanciare ruolo e fuinzione del CCNL e soprattutto cambiare le politiche economiche in corso dagli anni 90. Mi scuso per la lunghezza del commento. Sto finendo di scrivere sul tema un articolo che pubblicherò in questi giorni su uno dei giornali che collaboro citerò questo suo intervento perchè è davvero molto interessante.

  5. Savino

    Sono 40 anni che i lavoratori sono sotto il ricatto dei sindacati, sempre più gialli, confederali e autonomi. Tanti sindacati hanno voluto dire in Italia meno diritti.

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