Un’immigrazione ben gestita e regolata può aiutare ad arginare il calo demografico. I lavoratori stranieri restano però confinati in lavori a bassa qualificazione. Se fossero più valorizzati, ci sarebbero vantaggi per Pil, consumi ed entrate statali.

Come è cambiata l’immigrazione in Italia 

“L’immigrazione continua a rappresentare un fattore chiave per contrastare il calo demografico e sostenere il mercato del lavoro in Italia”. Queste parole, pronunciate dal vice capo del Dipartimento economia e statistica della Banca d’Italia, Andrea Brandolini, in audizione alla Camera dei Deputati, rappresentano la fotografia di un paese che, come altri nel panorama europeo, deve fare i conti con una progressiva perdita di popolazione attiva e un incremento della componente anziana. 

Quando si parla di “immigrazione”, però, non bisogna commettere l’errore di considerare la popolazione straniera come un’entità omogenea e con caratteristiche fisse nel tempo e nello spazio. Innanzitutto, l’Italia ha un panorama molto ampio di provenienze, molto diverse tra loro e tutte senza legami culturali o linguistici con l’Italia: basti pensare che i primi sei paesi d’origine sono Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina, Bangladesh.

La storia dell’immigrazione in Italia è ormai trentennale: certamente più recente rispetto a quella di altri paesi europei, ma comunque non trascurabile. In questi anni l’immigrazione è molto cambiata. Tra gli anni Novanta e i primi Duemila arrivavano soprattutto uomini per motivi di lavoro (principalmente da Marocco e Albania). Successivamente si è registrato un forte afflusso di donne dell’Est Europa (Ucraina, Moldavia, Romania). Dopo il 2010, altri due fenomeni hanno caratterizzato la storia migratoria italiana: i ricongiungimenti familiari, che hanno determinato un forte mutamento nella struttura demografica e sociale, e le richieste d’asilo (legate al fenomeno degli “sbarchi” nel Mediterraneo). Dal 2020, infine, assistiamo a un’ulteriore fase: la forte richiesta di manodopera, accentuata dalla pandemia, e la conseguente riapertura dei canali di ingresso per lavoro. 

Né vanno sottovalutati altri due trend, trasversali e direttamente connessi a quelli già elencati. Il primo sono i nuovi nati: secondo la normativa attuale, i nati in Italia da genitori stranieri non hanno la cittadinanza italiana fino al compimento della maggiore età. L’altro sono le acquisizioni di cittadinanza italiana, principalmente dopo dieci anni di residenza. È certamente il prosieguo di un percorso di integrazione, ma dal punto di vista statistico, rappresenta anche la “fuoriuscita” dal computo degli stranieri.

Il risultato di queste dinamiche determina la popolazione straniera residente in Italia, che ammonta a 5,3 milioni di cittadini (dati 2024), pari all’8,9 per cento della popolazione totale. Se consideriamo i nati all’estero, includendo quindi anche gli stranieri naturalizzati, si arriva invece a 6,7 milioni (11,3 per cento della popolazione).

Il contributo degli stranieri all’economia italiana

Il XV Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione, curato dalla Fondazione Leone Moressa e presentato il 20 ottobre al Cnel e alla Camera dei Deputati, parte proprio dai cambiamenti intervenuti all’interno della popolazione immigrata e analizza il contributo dell’immigrazione in termini economici e fiscali.

Gli occupati stranieri in Italia sono 2,5 milioni (10,5 per cento del totale), 3,7 milioni se consideriamo i nati all’estero (15,2 Per cento). L’occupazione straniera si distingue nettamente da quella autoctona per la maggiore concentrazione in mansioni a bassa qualificazione, con una rilevante presenza in professioni meno specializzate e spesso caratterizzate da un elevato livello di precarietà. Se, infatti, il 39,6 per cento degli occupati italiani è impiegato in professioni qualificate o tecniche, in questa categoria solo il 9,1 per cento degli occupati sono stranieri. Al contrario, i lavoratori stranieri sono principalmente impiegati tra operai e artigiani (31,7 per cento) e nelle professioni meno qualificate (29,4 per cento).

La distribuzione del lavoro evidenzia quindi una segmentazione marcata del mercato occupazionale: su 100 addetti a professioni poco qualificate, ben 30 sono stranieri, mentre nel caso delle professioni più qualificate, la presenza straniera è estremamente ridotta, con soli 2,6 lavoratori stranieri su 100. Il fenomeno suggerisce che, per il momento, l’occupazione straniera svolga una funzione complementare rispetto a quella italiana, occupando spazi nel mercato del lavoro che non vengono completamente colmati dalla forza lavoro locale.

Nonostante nel mercato del lavoro si riscontri ancora una forte “rigidità” in termini di settori e mansioni, agli occupati stranieri si può attribuire la produzione di valore aggiunto pari a 177 miliardi di euro, con un’incidenza pari al 9 per cento del totale. 

La distribuzione settoriale del valore aggiunto prodotto dai lavoratori stranieri indica una forte concentrazione nel comparto dei servizi, nel quale trova occupazione più di un milione di stranieri. Tuttavia, un’analisi dettagliata dell’incidenza relativa nei diversi settori economici mostra come la presenza degli stranieri risulta più rilevante in alcune aree specifiche dell’economia nazionale.

L’agricoltura registra la quota più elevata, con circa il 18 per cento del valore aggiunto del settore attribuibile alla forza lavoro straniera. Seguono l’edilizia, con un’incidenza pari al 16,4 per cento, e il comparto degli alberghi e della ristorazione, dove i lavoratori immigrati contribuiscono per circa il 12,5 per cento del valore aggiunto totale. Questi dati suggeriscono come l’economia italiana si avvalga in modo sostanziale del contributo dei migranti in settori caratterizzati da una domanda strutturale di manodopera, spesso in condizioni di elevata precarietà e bassa qualificazione.

Costi e benefici per le casse dello stato

Dal punto di vista fiscale, la struttura demografica degli stranieri in Italia (età media 36,1 anni, contro 47,1 degli italiani) fa sì che incidano molto poco sulla spesa pubblica. E se si confrontano le voci di entrata e uscita per l’anno d’imposta 2023, il saldo tra costi e benefici dell’immigrazione è positivo per le casse dello stato per un valore di +1,2 miliardi di euro. 

Se infatti l’incidenza è significativa sulla spesa per istruzione (gli alunni stranieri sono più dell’11 per cento del totale) e su alcune voci di welfare assistenziale (supera il 17 per cento quella per famiglia e figli, disoccupazione, malattia), l’immigrazione incide complessivamente appena il 3,5 per cento sulla spesa pubblica italiana. Nelle due voci di spesa pubblica più consistenti, sanità e pensioni, l’incidenza della popolazione immigrata è molto bassa: meno del 5 per cento sulla sanità e addirittura meno dell’1 per cento sulle pensioni.  

Le entrate “coprono” dunque le uscite, ma è evidente che il contributo potenziale sia ancora inespresso. Infatti, l’Irpef versata dagli immigrati è appena il 2,3 per cento del totale, proprio a causa della segmentazione del mercato del lavoro. La concentrazione nelle fasce di reddito più basse incide poi anche sulla propensione al consumo e quindi sulle imposte che vi sono legate. Il gettito Iva “generato” dagli immigrati è infatti appena il 3 per cento del totale, e risultano limitate anche le imposte relative a casa e automobili. 

Le disparità sono ancora molto forti, ma il progressivo aumento del cosiddetto “ceto medio” immigrato è auspicabile sia dal punto di vista dell’inclusione e del benessere delle famiglie straniere, sia in una prospettiva di sviluppo complessivo del paese.

In definitiva, le analisi del Rapporto annuale sul tema dimostrano che l’immigrazione, a patto che sia gestita e regolata, offre un contributo positivo a livello demografico, economico e fiscale. Non può certamente essere l’unica risposta alla recessione demografica, ma quantomeno contribuisce ad arginarla. Tuttavia, il potenziale dell’immigrazione in Italia è ancora largamente inespresso, limitato da una scarsa mobilità sociale e da una generalizzata difficoltà a riconoscere talenti e competenze. Una più ampia valorizzazione, invece, porterebbe un maggiore contributo al Pil, consumi più alti e più entrate per le casse dello stato.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!