Le due ancore dell’inflazione

Lavoce in 3 passi è la nuova iniziativa mensile de lavoce.info. Tre articoli su uno stesso argomento – pubblicati in sequenza – che accompagnano il lettore lungo un percorso logico e approfondito. Leonardo Melosi ci guida nel rapporto tra politica monetaria e fiscale, illustrando la teoria che lo sostiene e cosa è accaduto negli Stati Uniti e in Brasile negli anni della grande inflazione.

Un’inflazione alta erode il potere d’acquisto dei consumatori, riduce il valore dei risparmi, ostacola la pianificazione di famiglie e imprese: controllarla diventa così un obiettivo cruciale. Ma come? La moderna teoria economica assegna un ruolo centrale alle aspettative degli operatori. Ne consegue che di fronte a rialzi generalizzati dei prezzi la banca centrale deve reagire intervenendo sui tassi di interesse in maniera decisa. Ma non basta: se questa reazione non è supportata da una strategia anti-inflazionistica credibile anche nel lungo periodo. Inoltre, perché sia efficace, questa strategia monetaria deve essere sostenuta da un assetto fiscale credibilmente orientato alla stabilizzazione del debito. In assenza di un tale assetto, la banca centrale perde la capacità di controllare l’inflazione, aprendo la strada a pericolosi circoli viziosi tra prezzi, tassi e finanza pubblica. Se il quadro teorico è chiaro, cosa succede nel mondo reale? Lo spiegano due esempi concreti: gli Stati Uniti del periodo 1965-1990 e il Brasile degli anni Ottanta.

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Il Punto

  1. paolo

    Presentare la lotta all’inflazione come mero tecnicismo è fuorviante. Come già Roni Hamai ha scritto qui, la lotta all’inflazione è lotta di classe, e le soluzioni possibili sono molteplici e varie dal punto di vista politico. Qui invece si presentano tassi elevati e politiche austere come l’unica cosa possibile, sorvolando sulle conseguenze. Si omette addirittura una cosa enorme, cioè il fatto che l’inflazione fa male alle rendite finanziarie, ai grossi capitali.

    E si omette completamente la possibilità di agire con altri mezzi, ad esempio il controllo dei prezzi, che in centinaia di casi si è rivelato molto ma molto più efficace delle politiche monetarie. Keynes diceva cento anni fa che frenare l’inflazione con la politica monetaria “è come cercare di uccidere una mosca su un tavolo usando il martello pneumatico: se anche alla fine ci riesci, la cena sarà molto complicata”. E allora facciamo qualche domanda sincera, nella speranza altrettanto sincera che gli autori rispondano:

    – se si adottano politiche di controllo dei prezzi e tutela salariale certamente l’inflazione sarà più persistente, ma la crescita ne beneficierà. In uno scenario di crescita moderatamente inflazionistica i risparmi si svalutano certamente, ma i salari e la propensione al consumo e al risparmio no, e il debito pubblico si riduce. Chi ci perde e chi ci guadagna? E nello scenario opposto, quello auspicato dagli autori, in cui invece si fa l’opposto, oltre ai risparmi, che comunque perdono valore, vengono compressi gli investimenti, i redditi, aumenta la disoccupazione e i bilanci pubblici vanno in crisi. Chi ci perde e chi ci guadagna? Che impatto hanno i due differenti scenari sulla produttività?

    Non vi sono pasti gratis, presentare una politica come un tecnicismo unico e inevitabile senza informare chiaramente su chi pagherà il prezzo è come minimo informazione superficiale.

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