Fine dell’atlantismo, Europa relegata ai margini, democrazia depotenziata, multilateralismo abbandonato e politiche commerciali usate come arma: sono i tratti essenziali del nuovo assetto geopolitico voluto da Trump. Dove comanda chi è più potente.

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Il 2025 della geopolitica

Il 2025 passerà alla storia come l’anno in cui si è delineato un nuovo ordine mondiale. Certo, alcune tendenze erano già in atto da tempo; tuttavia, nel corso dei mesi, i contorni della mutata geopolitica, in larga parte voluta da Donald Trump, sono diventati più chiari e hanno segnato una netta discontinuità con il passato.

Vediamo le novità più salienti, o forse sarebbe meglio dire più preoccupanti.

La fine delle alleanze storiche

L’atlantismo, inteso come politica e ideologia, nato con la firma del Patto Atlantico nel 1949 a Washington, che istituì la Nato, sembra sul viale del tramonto. Certo, la fine dell’Unione Sovietica e della guerra fredda, trentacinque anni fa, ne aveva già minato le fondamenta storiche. Tuttavia, la recente aggressività di Vladimir Putin sembrava, per un breve periodo, aver ricompattato i paesi che si affacciano sull’Atlantico. Oggi, però, appare molto chiaro come gli interessi americani si siano progressivamente allontanati da quelli degli storici alleati usciti vittoriosi dalla guerra contro il fascismo e il nazismo. Più in generale, non esistono più alleanze eterne, ma solo interessi comuni da difendere.

L’Unione europea non è più vista dagli americani come un progetto capace di garantire pace, democrazia e prosperità in Europa. È diventata, invece, un intralcio al rapporto di sudditanza che intendono costruire con alcuni paesi europei con i quali esiste un legame storico, come la Gran Bretagna e l’Irlanda, o un’affinità politica, come l’Ungheria di Viktor Orbán e forse l’Italia di Giorgia Meloni. Per di più, la crescente immigrazione, specie di origine musulmana, viene rappresentata come un fattore che starebbe distruggendo la civiltà democratica europea.

Il fascino delle autocrazie

I paesi grandi, ricchi e militarmente potenti sono quelli che contano e con i quali vale la pena intrecciare solidi rapporti politici ed economici, indipendentemente dal loro regime politico. Anzi, le autocrazie come l’Arabia Saudita, la Russia o la Cina, che offrono maggiore “stabilità” e una leadership indiscussa, sono considerate più affidabili.

La democrazia non è più un valore universale che valga la pena difendere e, soprattutto, non può più essere considerata l’ultimo stadio dell’evoluzione politica verso cui il mondo tenderebbe, come aveva previsto Francis Fukuyama alla fine dello scorso secolo. Autocrazie, regimi populisti e disinformazione digitale sembrano oggi in grande spolvero e capaci di sottrarre spazio alle democrazie liberali, ma anche al capitalismo e alle società occidentali così come le avevamo conosciute nel Novecento. Questi modelli, fra le altre cose, consentono un intervento rapido e diretto dello stato sullo scacchiere internazionale e in tutti i settori economici, cardine della nuova politica industriale.

I dazi usati come arma

Il multilateralismo si è trasformato in multipolarismo. È venuta meno, cioè, la volontà di cooperare tra più Paesi che condividono norme e valori per raggiungere obiettivi comuni. Questo ha portato anche all’irrilevanza di organizzazioni internazionali come l’Onu (Nazioni Unite), l’Omc (Organizzazione mondiale del commercio) e il Fmi (Fondo monetario internazionale), che anzi sono d’intralcio. Ogni paese deve invece perseguire il proprio interesse nazionale (“make our country great”), senza preoccuparsi troppo delle possibili collisioni con gli interessi altrui.

Le politiche commerciali non hanno più soltanto una valenza economica, ma vengono utilizzate per raggiungere specifici obiettivi politici. Il mantra della libertà degli scambi ha lasciato il posto all’uso di dazi e sanzioni come arma, più o meno efficace a seconda della forza di mercato che ogni paese – o meglio, ogni alleanza – detiene in un determinato settore. La sicurezza strategica ha preso il posto del benessere collettivo. In un mondo a somma zero, dove le grandi potenze competono tra loro, c’è poco spazio per la teoria dei vantaggi comparati.

Torna di moda Monroe. E persino Machiavelli

La dottrina Monroe viene estesa a livello planetario. Enunciata nel 1823 dal presidente statunitense James Monroe nel suo messaggio annuale al Congresso, e spesso sintetizzata nel motto “l’America agli americani”, prevedeva che gli Stati Uniti si impegnassero a non interferire negli affari interni degli stati europei; in cambio, le potenze europee non dovevano intromettersi negli affari dei paesi dell’emisfero occidentale.

Oggi questa dottrina viene applicata a tutte le grandi potenze, alle quali è consentito fare ciò che vogliono nella propria area d’influenza. Questo spiega l’intervento armato degli Stati Uniti in Venezuela, ma ben si sposa anche con la visione di Xi Jinping in Asia e di Putin in Europa, ai quali viene concesso di gestire liberamente – anche militarmente – la propria sfera di influenza.

Le guerre all’interno della stessa civiltà hanno preso il posto delle guerre tra civiltà diverse, contrariamente a quanto previsto dal politologo Samuel Huntington. Nel suo celebre libro The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order (1996), Huntington ipotizzava che, dopo la caduta del Muro di Berlino, i principali conflitti globali non sarebbero più stati tra stati-nazione o ideologie, ma lungo linee di faglia culturali e religiose tra grandi civiltà (occidentale, islamica, slavo-ortodossa, confuciana, e così via). In realtà, come ha osservato di recente il commentatore del Financial Times Janan Ganesh, assistiamo alla guerra russo-ucraina, tra due paesi a maggioranza cristiano-ortodossa; al conflitto tra Cambogia e Vietnam, entrambi buddisti; a quello tra Repubblica Democratica del Congo e Ruanda, entrambi a maggioranza cristiana; alle tensioni tra Cina e Taiwan; alla guerra in Sudan; al conflitto in Yemen e a quello tra Corea del Sud e Corea del Nord.

La pace non è più un valore assoluto e, soprattutto, non deve essere giusta, ma funzionale al governo incontrastato dei più forti. Le idee di Machiavelli sembrano, allora, tornate in auge: i) la politica deve essere separata dalla morale; ii) è meglio essere temuti che amati, se non si può essere entrambi; iii) la violenza e l’inganno possono essere strumenti legittimi se servono a mantenere lo stato e l’ordine. iv) il fine supremo diventa così la forza dello stato, che precede ogni considerazione morale.

Tutto questo non sarà la fine del mondo, ma certamente è la fine del mondo così come lo abbiamo conosciuto dal secondo dopoguerra.

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