L’autonomia del sistema di relazioni industriali è un principio nobile, ma rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro e contrattazione collettiva aziendale sono già regolate da almeno due norme. Si tratta di una disciplina insufficiente, che rende necessario un nuovo intervento legislativo.
LE NORME GIÀ IN VIGORE
Ha sempre ragione chi, come Maurizio Del Conte, raccomanda al legislatore la massima cautela nel campo dei rapporti sindacali, dove il principio aureo dovrebbe essere quello dell’autonomia del sistema delle relazioni industriali. Non si deve, però, dimenticare che la materia della rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro e quella della contrattazione collettiva aziendale sono già oggi regolate da almeno due norme legislative statuali molto intrusive: rispettivamente l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, modificato da un referendum nel 1995 e ora ulteriormente “corretto” dalla sentenza n. 231/2013 della Corte costituzionale, e l’articolo 8 del decreto legge n. 138/2011, che stabilisce condizioni e limiti entro cui un contratto aziendale può derogare alla disciplina legislativa dei rapporti di lavoro. Il sistema italiano delle relazioni industriali ha dunque già perso da molto tempo la virginea esenzione da regole di fonte legislativa lodata da Del Conte; ed è difficile ipotizzare che esso possa mai recuperarla. Anche perché, come numerosi casi analoghi a quello della Fiat mostrano con evidenza, sia sul versante dei sindacati sia su quello delle associazioni imprenditoriali questo sistema è ben lungi dal presentare i caratteri di compattezza che sarebbero indispensabili affinché esso potesse fare del tutto a meno di qualsiasi regolazione di fonte statuale.
Se tutto questo è vero, la questione non è “legge sì o legge no”, ma è se la disciplina legislativa attuale delle rappresentanze sindacali e della contrattazione aziendale richieda o no una sistemazione. La lunga e articolata querelle giudiziaria che ha visto impegnate la Fiat e la Fiom-Cgil non sembra deporre a favore della risposta negativa. Essa non può certo considerarsi risolta dalla sentenza della Corte costituzionale: l’accordo stipulato dalla stessa Fiat con Cisl, Uil e Fismic il 3 settembre scorso – mirato a confermare l’assetto delle relazioni sindacali aziendali avversato dalla Fiom – mostra come la correzione dell’articolo 19 dello Statuto disposta provvisoriamente dalla Corte non abbia portato affatto al superamento del conflitto che ha dato origine al procedimento giudiziario.
La verità è che gli accordi interconfederali del giugno 2011 e del maggio 2013 non hanno la virtù di applicarsi all’impresa non associata a Confindustria e che non ritenga di recepirne spontaneamente i contenuti. E poiché – come è ormai evidente a tutti dopo la sentenza della Corte costituzionale – l’articolo 19 dello Statuto detta una disciplina della materia insufficiente e difettosa, la necessità di un nuovo intervento legislativo è difficilmente eludibile.
LA PROPOSTA DI LEGGE
La nuova norma, oltre essere leggera nel contenuto, dovrà avere innanzitutto carattere sussidiario (cioè applicarsi soltanto là dove gli accordi interconfederali che disciplinano la materia non arrivino ad applicarsi); inoltre carattere recessivo (cioè prevedere che la disciplina legislativa ceda di fronte all’eventuale futuro accordo sindacale sulla materia che si applichi tra le parti). Sono questi i caratteri del disegno di legge n. 993, che con altri senatori ho presentato al Senato il 5 agosto scorso (tratto da una proposta di contenuto analogo presentata nel 2009). Tre brevi articoli in tutto, applicabili soltanto per default nel caso in cui manchi una disciplina collettiva cui le parti siano soggette nel caso specifico, destinati a recedere di fronte all’eventuale nuovo accordo collettivo, e di contenuto semplicissimo: anche il sindacato minoritario ha diritto a costituire la propria rappresentanza in azienda se rappresenta più del cinque per cento dei dipendenti, la coalizione sindacale maggioritaria ha il potere di negoziare in azienda con effetti vincolanti per tutti.
Vedo un solo motivo serio per rifiutare questa soluzione: il timore che nel dibattito parlamentare il contenuto del provvedimento venga stravolto. Ma il rischio potrebbe essere evitato, se le confederazioni sindacali e imprenditoriali maggiori esprimessero un “avviso comune” molto preciso circa il contenuto dell’intervento legislativo, e il Governo assumesse l’impegno ad attenervisi rigorosamente. Così “blindato”, il disegno di legge potrebbe essere varato dal Parlamento in due o tre mesi, senza possibilità di colpi di mano che ne alterino il contenuto rigorosamente rispettoso dell’autonomia del sistema delle relazioni industriali.
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Mario Rossi
Caro Pietro, io sono un piccolo imprenditore vessato dai costi e scoraggiato dal sistema italiano e ti voglio scrivere per dirti che se è vero che in Italia il 90% dell’economia è retta dalla PMI allora tutto il parlare che si fa sul diritto del lavoro è un problema più che secondario. il problema vero è che si consente a truffatori e faccendieri di ogni genere di depredare l’economia sana si consente di organizzare delle vere e proprie trappole ai danni di chi usa le proprie energie per lavorare e produrre e non per studiare scappatoie in un sistema legislativo farraginoso e contorto. Il problema vero è che stiamo perdendo la professionalità a vantaggio della mafiosità e tra poco voi potrete fare tutti jobs act che volete ma non otterrete nulla che possa mantenere in piedi un sistema-paese ricco di prenditori e povero di imprenditori. Pensate a riportare un pò di serietà nella giustizia e nel fisco e poi quando avremo di nuovo una classe di gente in grado di produrre e lavorare con tranquillità allora potremo anche parlare di jobs act.