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Quale futuro per i Centri per l’impiego

È in arrivo la riforma dei servizi pubblici per l’impiego, anche per attuare la European Youth Guarantee. I nodi sono la pluralità di attori istituzionali coinvolti, il rapporto con i privati, l’eccesso di burocrazia e l’assenza di servizi per le imprese, specie se piccole. I rischi di fallimento.
I NODI DA SCIOGLIERE
A ottobre si dovrebbe realizzare la tanto attesa riforma dei servizi pubblici per l’impiego (Spi). La riforma è attesa perché dopo la definizione, mai realizzata e forse inutile, dei “livelli essenziali” previsti dalla legge 92/2012 e la contemporanea abolizione (cancellata dalla Consulta) delle province che hanno in carico la gestione dei Cpi, i servizi sono in attesa di sapere che cosa ne sarà di loro. Inoltre, la riforma è parte del pacchetto che è necessario per l’attuazione dello European Youth Guarantee, per il quale il Governo si è impegnato con l’Unione Europea. È bene iniziare a parlarne, magari guardando all’esperienza dei paesi dove tali servizi funzionano meglio.
I nodi da sciogliere per una modernizzazione degli Spi sono almeno quattro:
–          la pluralità di attori istituzionali coinvolti;
–          il rapporto con gli attori privati, ancora inefficace e inefficiente;
–          l’appesantimento burocratico;
–          l’assenza di servizi per le imprese.
Per effetto di una distorta lettura del principio di sussidiarietà verticale, l’Italia presenta una pluralità di attori istituzionali nella gestione degli Spi: Stato, Regioni, province e in certi casi anche comuni. Si raggiunge il paradosso che lo Stato è a capo del sistema d’istruzione, le Regioni delle politiche per l’impiego e le province dei centri per l’impiego. Questa separazione è il segreto del fallimento e il decentramento amministrativo, così come realizzato, non ha certo prodotto i risultati sperati.
In altri paesi più efficienti, una sola agenzia nazionale propone e finanzia programmi di politica attiva del lavoro gestiti a livello locale da municipalità (spesso consorziate e paragonabili alle nostre province). Occorre un nuovo modello di rapporto pubblico-privato, dove il primo svolga attività di coordinamento, pianificazione e controllo del territorio e il secondo si occupi del collocamento. È necessario identificare presto un nuovo organo, con una maggiore libertà di azione, che sostituisca le province nel gestire gli Spi.
IL PROFILO DELL’UTENTE
È urgente realizzare, come avviene da decenni in Australia, ma più di recente anche nel Regno Unito e in Germania, un’attività di profiling, vale a dire di individuazione del profilo degli utenti svantaggiati secondo alcune categorie prestabilite. Compiuto in base ad alcuni criteri oggettivi (quali la durata della disoccupazione e il titolo di studio), serve a indirizzare l’utente verso una fascia del bisogno così come è definita nel seguente riquadro.
 

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Classificazione degli utenti ai servizi pubblici per l’impiego
Fascia 1 Assistenza non necessaria, il soggetto può essere collocato dall’attore pubblico oppure è in grado “autonomamente” di trovare lavoro.
Fascia 2 Necessità di una “traiettoria” o di un minimo percorso di assistenza.
Fascia 3 Necessità di una assistenza continua e dedicata.
Fascia 4 Necessità di una assistenza continua, dedicata e, inoltre, la collocazione è possibile solo se sono presenti incentivi alle imprese.

 
Ognuna di queste fasce dovrebbe ricevere un determinato budget, proporzionale alla difficoltà di collocamento dei destinatari, che verrà indirizzato ai providers delegati al loro collocamento. La somma potrà essere spesa per alcuni servizi o rappresentare un premio di collocamento.
L’inserimento al lavoro è l’obiettivo principale in una logica definita di blackbox: non deve interessare il come, ma solo il risultato ottenuto. Si dovrebbe così ridurre l’orientamento opposto, diffuso in Italia, di fare solo formazione (parking), senza il passaggio al collocamento lavorativo.
Nel Regno Unito, dove è ormai consolidato il principio no cure – no pay è praticamente scomparsa tutta una filiera di attività di accompagnamento al lavoro praticate in passato, che rischiano di essere inutili per il collocamento del soggetto svantaggiato.
LA PERFORMANCE DEL PARTNER PRIVATO
La performance del partner privato dipende molto dal suo network di aziende, più che dai servizi offerti. Certo, per disincentivare i fenomeni di gaming (accordi tra azienda ed ente privato convenzionato per spartirsi il premio), è necessario pagare il compenso almeno sei mesi dopo l’instaurazione del rapporto di lavoro, da verificare tramite fonti amministrative, con la possibilità di inserire bonus aggiuntivi legati alla durata del contratto di lavoro e alla rapidità del collocamento.
Come insegna il caso inglese, per incentivare l’attore privato, vanno realizzati sistemi di rating pubblici degli operatori, sulla base di strumenti statistici/econometrici definiti prima dell’erogazione degli incentivi. Gli utenti sceglieranno l’attore privato che ritengono più adeguato, sulla base delle performance passate, della loro qualifica e del settore di interesse (una “Guida alla scelta”). Molti dei concetti appena esposti sono alla base della nuova “Dote unica del lavoro” che verrà realizzata in Lombardia. L’intervento si ispira prevalentemente al modello olandese, ritenuto tra le esperienze più interessanti di delega al privato.
ONERI BUROCRATICI E SERVIZI PER LE IMPRESE
Un terzo problema riguarda la gestione della parte amministrativa che assorbe un numero impressionate di funzionari e, come nel caso della registrazione della disponibilità al lavoro dei cassa integrati in deroga, toglie tempo a servizi più utili.
Come abbiamo suggerito in un precedente intervento (Un call center per trovare lavoro), si potrebbero delegare i compiti di registrazione e primo contatto a un call center. Le possibilità di realizzare questo progetto a costo zero sono molte: si può sfruttare il Contact center dell’Inps con un servizio dedicato, razionalizzare l’attività dei funzionari nei Cpi con telelavoro, oppure destinare un piccolo budget a un servizio esterno, come fatto in alcune province.
I servizi alle piccole imprese sono il vero punto debole e, senza una riorganizzazione, l’attore pubblico rischia di restare un inutile contenitore di curriculum. Tre funzioni potrebbero consentire ai Cpi di essere un utile interlocutore:
–          servizi e assistenza passo-passo per aprire una partita Iva;
–          potenziamento della figura di consulenza del lavoro;
–          e infine, consulenza in tema di bandi, sgravi e così via.
L’alternativa consiste nel delegare in partnership ai privati lo svolgimento di queste funzioni.
I COSTI E LE PROSPETTIVE
La riforma è potenzialmente a costo zero, ma va affrontata con coraggio. L’eliminazione di alcuni ruoli istituzionali dovrebbe portare a un risparmio di risorse da reinvestire nei servizi alle imprese. In altri termini, occorre riqualificare un numero sufficiente di dipendenti a livello regionale, nazionale e locale e destinarli ad altra attività. I servizi di collocamento dei privati potrebbero essere pagati con i fondi attualmente erogati ai programmi di accompagnamento. Inoltre, nel caso si costituisca un nuovo organo a livello nazionale che sostituisca le varie istituzioni oggi chiamate alla gestione delle politiche attive o degli Spi, si otterrebbe un risparmio di risorse tale da finanziare tutti i servizi qui descritti.
Tra le proposte avanzate dal Governo Letta, di tutto ciò non vi è traccia e il timore è che, seppure attuata, la riforma degli Spi si risolva in una enunciazione di buoni proposti, con risvolti problematici per il successo anche della Youth Guarantee. Sarebbe un peccato, poiché si lascerebbe ancora una volta insoddisfatta l’aspettativa di una maggiore competenza dal lato dell’offerta di lavoro e si farebbe finire una buona parte delle risorse (nazionali e comunitarie) in azioni di orientamento e formazione, che in questi anni non hanno aiutato i beneficiari di ammortizzatori in deroga o i disoccupati di lungo periodo a trovare un nuovo lavoro.

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  1. Sergio Bevilacqua

    C’è un presupposto, in questo articolo, che lascia stupiti. Nelle varie proposte illustrate i grandi esclusi sono i protagonisti delle politiche attive del lavoro di questi ultimi 15 anni. Chi ha sviluppato servizi ed esperienze è escluso da ogni possibilità di contribuire alla riforma dei centri per l’impiego. Come se non avesse niente da dire o il suo approccio fosse comunque e sempre inutile in quanto burocratico. A priori. Forse una delle criticità delle politiche attive del nostro paese è anche questa perenne difficoltà ad ascoltare chi ci lavora e forse sa indicare qualche soluzione in più di quelle ipotizzate. Per esempio una drastica semplificazione degli oneri burocratici che non dipende dai CpI ma dal Ministero del lavoro.
    C’è poi un altro elemento che sembra una condanna tutta italiana. Ma quali sono gli ambiti dove si discute della riforma dei CpI? E’ mai possibile alla fine del 2013 muoversi ancora con logiche opache e per niente trasparenti? Di queste cose si dovrebbe parlare pubblicamente e organizzare luoghi di confronto pubblico quantomeno in tutte le regioni. Così magari si capirebbe cosa non ha funzionato per anni del dispositivo dote in Lombardia, quanto si è finiti per finanziare proprio quell’utenza che avrebbe potuto farcela da sola a trovarsi un nuovo lavoro. E quanto è servita l’attività di supporto all’occupabilità più che all’occupazione.
    Infine togliamo di torno il mito che una persona disorientata possa scegliere da sola a quale agenzia indirizzarsi. Non è certo sufficiente un sistema di rating per risolvere questo problema particolarmente complesso che merita qualche attenzione in più rispetto all’approccio ideologico utilizzato per anni (diamo i soldi al soggetto disoccupato che poi sceglierà lui in autonomia a quale agenzia indirizzarsi).
    Di miti e di approcci top down le politiche attive hanno già sofferto in passato. Penso sia necessario prestare una particolare attenzione a non ripetere errori ben conosciuti se vogliamo lavorare per migliorare l’efficienza del sistema.
    Sergio Bevilacqua

    • Simona Lucherini

      Analisi perfetta quella di Sergio Bevilacqua: è proprio vero uno degli errori più eclatanti è continuare a seguire le ricette di chi in un centro per l’ impiego non ha mai messo piede. Oltre ai dipendenti pubblici che gestiscono i servizi amministrativi vi lavorano consulenti che si occupano dei servizi specialistici. Purtroppo questi sono assenti da ogni tipo di dibattito e confronto in quanto ad altri spetta decidere. Esistono in italia nei servizi per il lavoro tanti esempi positivi e molti negativi: cominciare da lì e migliorare il sistema no? Copiamo ricette positive di paesi che anche culturalmente sono distanti da noi e le trasformeremo in disastri sprecando risorse finanziarie e professionalità nel nome di un privato che non garantisce efficienza e efficacia nei servizi per l’occupabilità ma può essere un nodo importante e rilevante di quella rete dei servizi per il lavoro pubblici e privati che ancora non riusciamo a costruire a causa di personalismi inutili. Da ultimo non si può dimenticare la totale assenza di controllo e valutazione degli esiti degli interventi di politica attiva, il mancato controllo di comportamenti illegali sia delle aziende che delle persone in cerca di occupazione, gli inutili progetti di italia lavoro (ad esempio ora dobbiamo promuovere manager to work in un territorio dove non esistono imprese che siano in grado di assumere dirgenti) e questo è solo un esempio dei tanti. Oppure persone che si dichiarano disoccupati e invece magari sono titolari del negozietto: tanto nessuno controlla, e così via. Come consulente esperto di politiche per il lavoro e orientamento professionale avrei tanto da dire ma si ascoltano solo le voci di sempre e quindi mi limito a lavorare seriamente nel mio piccolo nella speranza che prima o poi qualcosa cambi.

  2. Enrico

    Ottimo articolo con buone proposte.
    L’unica su cui sono un po’ “scettico” è il call center, mi sembra anacronistico, non sarebbe meglio realizzare un sito efficiente, come monster per esempio?

  3. Giovanni Volpe

    E’ importante, il fatto che i centri, nella selezione del personale, siano indipendenti, senza subire pressioni, condizionamenti esterni.

  4. Vincenzo Tondolo

    Questa famosa svolta, gli opera(tor)i dei centri per l’impiego l’hanno già vissuta nel biennio 1997-1999. Grazie al decentramento della Bassanini, oltre al bambino si è cacciata via l’acqua sporca, ed anche la bacinella. Avvicinarsi al territorio, era il verbo, perché non esiste un mercato unico del lavoro. Occorreva un cambio culturale: non si parlò più di occupazione, ma di occupabilità. Bisognava costruire l’autostrada delle offerte
    del lavoro – la cd. Borsa Lavoro -, siamo ad un tale livello di ridondanza informatica che occorre un navigatore satellitare ad hoc. In compenso abbiamo trovato: una
    politica in tutt’altre faccende affaccendata, un management (???) molto provinciale ed un accanimento retorico senza precedenti. Quousque tandem abutere patientia nostra?

    • Adele Bianco

      Caro collega Tondolo, sono PIENAMENTE d’accordo con te!
      Adele Bianco

  5. lorenzo

    Dirò una cosa banale, ma ho verificato che la pensano tutti quelli che hanno avuto a con l’ufficio di collocamento e i cpi: gli unici impieghi che riescono a procurare e mantenere sono quelli dei loro dipendenti.
    Soluzione: reddito di cittadinanza e ciascuno, libero dalla schiavitù del lavoro, sarà libero di cercarsi l’occupazione che più gli si confà.
    “E all’obiezione che molti fanno che senza la costrizione della necessità di vivere non si lavora e non si produce nulla, rispondo che preferisco un fannullone libero ad un produttore schiavo”. Non è mia ma del benemerito Domenico De Simone http://domenicods.wordpress.com/2011/11/22/un-grande-crimine-e-un-codazzo-di-sciocchezze/

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