Se non si creano istituzioni federali, l’Europa rischia l’implosione. Lo sostiene Massimo Bordignon, intervistato da Sergio Levi, nel nuovo libro della serie de lavoce.info in collaborazione con Il Mulino: “Europa: la casa comune in fiamme”. Eccone un estratto.

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(…) Nella storia europea abbiamo vissuto fasi di grande ottimismo, e di europeismo convinto, anche se gli stati non hanno mai rinunciato alla loro sovranità. Dall’inizio della crisi si assiste però a un graduale irrigidimento dei confini nazionali, anche sul piano della vigilanza bancaria. Quanto può durare e dove può portare questa ricerca (per ora senza esito) di un nuovo equilibrio?

Se non si creano istituzioni federali, l’Europa rischia l’implosione. La storia ce lo insegna. Dal 1870 al 1914 abbiamo vissuto, in Europa e nel mondo, una forte integrazione, accompagnata da una forte crescita economica. Regnava allora il cosiddetto «gold standard», che nei fatti era una sorta di moneta unica integrata, perché i tassi di cambio di molte monete venivano definiti rispetto all’oro. Siccome il riferimento alla moneta era costante, ciò facilitava gli scambi e una forte integrazione dei mercati finanziari. Nel 1914, all’inizio della Prima guerra mondiale, si decise l’abbandono del gold standard; a cui seguirono trent’anni di chiusure, nazionalismi, guerre. Il sistema si riaprirà solo nel 1944, con la Conferenza di Bretton Woods che segna il ritorno al sistema aureo. Questo per dire che, nella storia recente, abbiamo avuto un esempio molto chiaro di come un processo di apertura commerciale e d’integrazione dei mercati possa capovolgersi nel riemergere dei nazionalismi e della guerra. (…) Bisognerà vedere se a questa consapevolezza seguiranno comportamenti concreti, perché è difficile che i leader nazionali riescano a spingere nella direzione giusta, ossessionati come sono dalla ricerca del consenso. Parallelamente, nell’Europa di oggi, molti processi di decentramento si stanno arenando e in qualche caso tornano indietro.

Ho l’impressione che adesso stia pensando in modo particolare all’Italia?

L’Italia è un caso esemplare, ma non siamo gli unici. Al di là delle chiacchiere, il massimo di decentramento, federalismo e autonomia, lo abbiamo raggiunto alla fine degli anni Novanta – un percorso che ha portato anche alla revisione della Costituzione, con la riforma del Titolo V nel 2001. Nonostante questo, negli anni Duemila abbiamo assistito a una serie di tentativi da parte dello stato nazionale di tornare indietro, imbrigliando sempre più i comportamenti degli enti locali. La cosiddetta «Legge delega» del 2009 (cioè il tentativo di attuare il nuovo Titolo V su cui abbiamo perso un’enormità di tempo) era in realtà, dal punto di vista dell’autonomia, una sciocchezza sostenuta da una vera e propria bolla mediatica, che alla fine, come ogni bolla, si è puntualmente sgonfiata. Tuttavia, il cosiddetto «ri-accentramento» non è solo un fenomeno italiano. In Spagna, il problema principale del governo Rajoy è rimettere sotto controllo le regioni, che sono centri autonomi di spesa. Siccome in questo momento lo stato nazionale è costretto a ridurre le spese, deve essere in grado di controllare i comportamenti degli enti locali. È una storia che si ripete un po’ dovunque; lo stato nazionale sta cercando di riequilibrare i propri conti e lo fa anche spremendo ed esautorando gli enti locali.

Continuando a parlare della ricerca di nuovi equilibri che impegna i leader europei, quanto è concreto il rischio di perdere la moneta unica?

A differenza di quel che si crede, le difficoltà dell’Unione monetaria europea (Ume) non dipendono primariamente dalla crisi economica. Rispetto a una serie d’indicatori (deficit, debito, tasso di crescita del Pil, occupazione) l’Unione monetaria è più solida di molte altre federazioni (Usa e Canada, per esempio), che però soffrono meno la crisi. Le nostre difficoltà rimandano a ritardi istituzionali e politici, e nascono dal fatto che non c’è stata la volontà da parte degli stati di cedere quote di sovranità all’Unione europea. Gli strumenti di governance affannosamente messi in campo negli ultimi due anni (dal «six pack» all’euro-plus, dal «fiscal compact» all’Esm) soffrono di un pesante deficit democratico, proprio perché manca una struttura sovrastatale, pienamente legittimata. Ci troviamo dunque a metà del guado. E i rischi che corriamo sono soprattutto di ordine politico, ancor più che economico. Da un lato, i tedeschi non vogliono impegnare i loro soldi perché hanno paura di dover pagare per gli sprechi dei paesi del Sud: così, anche se poi si convincono a prestare, lo fanno imponendo diktat assurdi ed eccessivamente penalizzanti. Dall’altro, le popolazioni dei paesi del Sud Europa (non solo in Grecia) cominciano a stancarsi di dover sottostare ai diktat imposti da un altro stato o da qualche organismo tecnico, come la «troika» composta da Fondo monetario internazionale (Fmi), Commissione europea e Banca centrale europea (Bce). Bisogna chiedersi quanto possa durare una situazione in cui alcuni organismi tecnici, non legittimati, dettano ai governi (magari per lettera) le misure di risanamento e le politiche economiche che devono irrevocabilmente adottare. (…)

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Quale sarebbe il primo atto da compiere per avviare l’Europa sul cammino dell’unione politica?

Bisognerebbe introdurre l’elezione diretta del presidente della Commissione. Una campagna elettorale pan-europea, con candidati alla presidenza che si confrontano su piattaforme elettorali diverse, farebbe moltissimo per migliorare la percezione di legittimità democratica dell’Unione da parte dei cittadini europei. È una soluzione caldeggiata, fra l’altro, dal partito del cancelliere tedesco e trova consensi crescenti anche in altri partiti e in altri paesi. Bisognerà vedere se avremo il tempo di arrivarci, o se l’Unione monetaria, e conseguentemente l’Unione europea, non si frantumerà prima. Naturalmente, non sarà facile: pensiamo soltanto al problema della lingua e a come questo possa incidere sulla comunicazione politica. Tuttavia, l’idea deve essere che i programmi dei candidati esprimono «agende politiche», perché molte delle decisioni da prendere in Europa non sono «tecniche». Non esiste un modo solo di risolvere i problemi, e non esiste nessuna decisione puramente tecnica; questo vale in particolare quando si decide su materie delicate, come per esempio la protezione del mercato del lavoro.

In che modo l’elezione del presidente della Commissione potrebbe ridare forza all’Unione europea? Arriveremo a eleggere anche i membri della commissione?

Sarebbe il presidente eletto a scegliere i commissari, proprio come fanno i nostri sindaci, e come fa il presidente degli Stati Uniti. In questo modo, una serie di politiche di bilancio verrebbe spostata dall’area della sovranità dei paesi a quella della sovranità europea, dove a decidere sarebbe il Parlamento. Avremmo in sostanza due «camere»: il «senato» degli stati e il Parlamento. Le proposte avanzate dal governo passerebbero al vaglio delle due camere, che deciderebbero se approvarle o rimandarle indietro. Naturalmente, ci sono materie che bisognerà lasciare a politiche di sussidiarietà, come ora si fa con gli enti locali. Non si può decidere tutto a livello europeo, però i grandi quadri devono essere comuni. L’integrazione macroeconomica servirebbe per restare all’interno della federazione. Al di là dei problemi politici che moltiplicano le incertezze, esiste infatti un problema di fondo: in un’area monetaria unica non si possono avere divari di produttività enormi tra paesi. L’unico modo per stare in un sistema lacerato da simili «squilibri» sarebbe avere grandi trasferimenti, come quelli che lo stato italiano passa al Mezzogiorno, o quelli che in Germania vanno da ovest a est. Questo in Europa non è pensabile, se non in un futuro molto lontano. Nel frattempo, non possiamo condannare alla fame i paesi meno competitivi, bisogna fare in modo che diventino più competitivi: le loro politiche salariali devono stare in linea con la crescita della produttività; e pure gli investimenti vanno pensati per portare la produttività sugli stessi livelli.

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Questo tipo di accentramento presuppone o implica una costituzione federalista?

Sinceramente, non mi aspetto (almeno a breve) gli Stati Uniti d’Europa, anche perché non abbiamo né un bilancio di dimensioni tali, né un’aggregazione di politiche tali da poter imitare quanto fa lo stato italiano rispetto ai propri enti locali. Però le grandi linee di politica macroeconomica, le dimensioni del bilancio, e a quel punto anche il debito, andrebbero decisi a livello europeo.

Forse anche le classi politiche nazionali potrebbero trovare il modo di rinnovarsi: sarebbe un peccato lasciarsi sfuggire questa occasione.

Non c’è dubbio. Come suggerisce correttamente Sergio Fabbrini, in Italia avremo sempre più bisogno di personale «competente», e non solo «appartenente», perché sarà quello il modo di far politica in futuro. Non potremo più avere una classe politica che non goda di ottima credibilità all’estero, e che non abbia competenze riconosciute. Non ci potremo più permettere il classico politico all’italiana che non sa l’inglese, che non ha competenze, che è bravo solo a portare a casa i voti a colpi di demagogia. Al momento, la politica europea si decide in gran parte nel Consiglio europeo, dove si discute senza sherpa e senza traduttori. Trenta persone si riuniscono e prendono decisioni per 500 milioni di persone. Non è pensabile che uno di loro si alzi e dica: «scusate, non ho capito, non so l’inglese». Questo riguarda la formazione del politico di domani, e la selezione della classe dirigente. (…)

Quali sono gli scenari possibili a questo punto? Si va verso un’Europa ancora «ostaggio» dei governi dei (maggiori) paesi membri, o verso un’Europa che riesce a darsi istituzioni più accentrate e quindi più democratiche?

Come va a finire, è difficile dirlo. Una cosa è certa, come si evince tutte le mattine dalla lettura dei giornali: la situazione attuale non può durare a lungo. L’Europa (o meglio: l’Ume) è di fronte a una cesura molto netta. O si fanno passi molto rapidi e molto chiari in direzione di una forte integrazione politica, oppure l’Unione monetaria è destinata a rompersi. Siccome, se si rompesse, ci sarebbero costi enormi per tutti, compresi i paesi più forti, è molto probabile che con l’Unione monetaria venga meno anche l’Unione europea, cioè il cammino fatto negli ultimi 60 anni verso l’integrazione. Ciascun leader nazionale avrebbe interesse e buon gioco ad accusare gli altri della frattura dell’euro, con la conseguenza che tutti i progressi fatti, dal mercato unico alla convenzione di Schengen, verrebbero rimessi in discussione. D’altra parte, sia i nuovi confusi strumenti di governance, sia il fatto che tutti i leader politici, compreso il cancelliere tedesco, parlino ormai apertamente di unione politica, sembrano suggerire che le élite europee hanno capito quale sia la posta in gioco. Bisognerà vedere se questa percezione le spingerà a prendere le decisioni giuste, superando le resistenze anche legittime delle loro opinioni pubbliche.

Massimo Bordignon, Europa: la casa comune in fiamme, Il Mulino 2012
Intervista a cura di Sergio Levi

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