L’Italia registra un notevole ritardo nell’adozione dell’Ict. Ridurre la rigidità del mercato del lavoro non è sufficiente se la gestione delle risorse umane all’interno delle imprese resta ancorata a vecchi modelli poco meritocratici. Il male italiano, la cattiva allocazione delle risorse.
I MALI D’ITALIA
L’Italia è spesso considerata come la bella addormentata d’Europa: un paese ricco di talento e di storia, ma colpito da una stagnazione di lunga durata. Il reddito pro-capite italiano, espresso come percentuale della media UE15, è diminuito costantemente dal 1994 in poi e nel 2012 si è attestato all’84 per cento di quella media. Eppure, non è sempre stato così. Negli anni Settanta e Ottanta l’Italia ha registrato risultati migliori in termini di crescita rispetto agli altri paesi europei, per poi trasformarsi nel fanalino di coda negli anni Novanta e Duemila. Cosa è successo?
La risposta a questa domanda è complessa e riguarda molte dimensioni socio-economiche. Tuttavia, nel dibattito pubblico, la causa che viene spesso sottolineata è che l’Italia ha perso la sua competitività. Il focus sulla competitività è così forte che le linee guida della Legge di Stabilità 2014 evidenziano due priorità: consolidare l’attuale ripresa e intervenire sui fattori che limitano la competitività.
ABBIAMO “DISIMPARATO” A PRODURRE
Incredibilmente però le linee guida rimangono silenti su quello che probabilmente è il principale motore delle due priorità: la crescita della produttività. La figura 1 mostra la scomposizione del tasso di crescita del valore aggiunto italiano negli ultimi quarant’anni. La crescita della produttività totale dei fattori (TFP nelle figure che seguono) si è ridotta nel corso degli anni, diventando negativa negli anni 2000.
La TFP misura l’efficienza dell’utilizzo di date quantità di capitale e lavoro, dunque la sua crescita negativa segnala una riduzione senza precedenti della capacità dell’Italia di trasformare le proprie risorse produttive in valore aggiunto.
Figura 1 – Contributi alla crescita di valore aggiunto per l’Italia
Fonte: EU-Klems
L’andamento della TFP nel settore manifatturiero è alquanto emblematico del declino italiano: la figura 2 ne mostra l’eccezionale rallentamento rispetto a Francia e Germania sin dal 1995.
Figura 2. TFP e produttività del lavoro nei paesi considerati, 1970-2010
Fonte: EU-Klems
LA CATTIVA ALLOCAZIONE DELLE RISORSE
Sempre dalla figura 1 si ricava che gli stock di capitale e lavoro hanno continuato a crescere e dunque la stagnazione italiana va attribuita a una loro allocazione errata. In effetti, la figura 3 mostra che tra il 1995 e il 2006 l’Italia ha investito di più in settori manufatturieri che hanno registrato una crescita inferiore della TFP, al contrario di quanto accaduto in Germania.
Un’ulteriore possibile prova della cattiva allocazione delle risorse può essere dedotta combinando i dati della TFP con le informazioni sui prestiti privati per tipologia di attività economica, raccolti dalla Banca d’Italia: si rivela come non ci sia praticamente alcuna correlazione tra la crescita dei prestiti e la crescita della TFP nei diversi settori tra il 1999 e il 2007 (il coefficiente di correlazione a livello settoriale a due cifre è 0,07).
Figura 3 – Investimenti e crescita della TFP, Italia vs Germania (1995-2006, settore manifatturiero)
Fonte: EU-Klems
Quanto potrebbe essere costata questa cattiva allocazione? Un tentativo di risposta può essere dato focalizzandosi ancora di più sul settore manifatturiero e applicando la procedura standard di Olley e Pakes usando i dati a livello di impresa da Bartlesman, Haltiwanger, e Scarpetta (2009). (1)
Il risultato è che in Italia, l’indice di TFP nel settore manifatturiero è del 5,77 per cento più basso di quanto sarebbe se le risorse produttive fossero state assegnate in modo casuale tra le imprese. In altre parole, se togliessimo alle imprese capitale e lavoro per poi ridistribuirli di nuovo casualmente, la produttività del settore manifatturiero in Italia aumenterebbe di quasi il 6 per cento.
E SE FOSSE LA RIGIDITÀ DEL MERCATO DEL LAVORO?
Come spiegazione della cattiva allocazione delle risorse molto spesso viene indicata la rigidità del mercato del lavoro. L’ idea che sta alla base del ragionamento è che un mercato del lavoro rigido influenza la produttività ostacolando la riallocazione del lavoro verso le imprese e i settori più produttivi. Tuttavia, in questo campo l’Italia è intervenuta in modo rilevante negli ultimi venti anni: secondo l’indice sintetico Ocse, la rigidità del mercato del lavoro in Italia è in costante calo a partire dalla metà degli anni Novanta (esattamente da quando la crescita TFP ha iniziato a ristagnare), anzi negli ultimi anni ha raggiunto un livello inferiore a Germania e Francia (figura 4). Quindi, è improbabile che questa sia la causa principale del rallentamento della produttività.
Figura 4 – Rigidità della protezione complessiva dell’occupazione
Fonte: EU-Klems
PRATICHE DI GESTIONE INADEGUATE E DIVARIO DIGITALE
È opinione condivisa che l’eccezionale sviluppo dell’Information and Communication Technology (ICT) sia stato uno dei principali fattori dell’accelerazione della produttività che gli Stati Uniti hanno vissuto rispetto all’Europa a partire dalla metà degli anni Novanta. (2) Quindi lo stallo della produttività in Italia iniziato in quegli stessi anni potrebbe essere proprio nella limitata diffusione dell’ICT. La figura 5 riporta la quota degli investimenti in ICT sul totale degli investimenti per Italia, Francia e Germania. Si vede chiaramente come dalla metà degli anni Novanta l’Italia non sia riuscita a tenere il passo degli altri paesi.
Figura 5 – Quota degli investimenti in ICT sul capitale fisso
Fonte: Oecd – database sulla produttività.
Perché sia successo non è ancora chiaro. Una possibile spiegazione è legata alla capacità dei vertici aziendali di adattarsi alla new economy. Ad esempio, Nicholas Bloom, Raffaella Sadun e John Van Reenen mostrano che le pratiche di gestione hanno una notevole influenza sulla penetrazione e l’utilizzo delle ICT e ciò è vero in particolare per pratiche gestionali relative alle risorse umane. (3)
La figura 6 rappresenta la probabilità di individuare casualmente un’impresa in un dato livello di intensità della ICT, misurata dal numero di computer per dipendente. La figura mostra che la probabilità di scegliere a caso una società con una bassa intensità ICT è superiore in Italia che in Francia, e più alta in Francia che in Germania.
Figura 6 – Computer per dipendente, distribuzione di densità a livello di impresa
Fonte: Bloom, Sadun, Van Reenen (2012).
La figura 7 analizza ciò che Bloom, Sadun e Van Reenen chiamano “z-score“: cattura la qualità delle pratiche manageriali dal punto di vista della gestione del personale, come ad esempio la gestione del capitale umano, attraverso premi a chi garantisce alte prestazioni, la rimozione di chi dà scarsi risultati e la promozione dei migliori. La figura mostra che l’Italia ha risultati nettamente inferiori di z-score, dovuti al fatto che:
a) le imprese italiane promuovono i lavoratori principalmente sulla base dell’anzianità, invece di identificare e promuovere attivamente i migliori;
b) i manager tendono a premiare le persone tutte allo stesso modo e indipendentemente dai loro risultati, invece di fornire obiettivi e premi di risultato;
c) i dipendenti che producono scarsi risultati raramente sono rimossi dalle loro posizioni;
d) i dirigenti non sono valutati sulla base della forza del gruppo di talenti che hanno attivamente contribuito a costruire, ed è perciò probabile che non considerino una priorità la ricerca e lo sviluppo del talento.
Figura 7 – Lo z-score
Fonte: Bloom, Sadun, Van Reenen (2012).
I tipi di pratiche di gestione che le imprese italiane sbagliano sono proprio quelli che secondo Bloom, Sadun e Van Reenen ostacolano la penetrazione e lo sfruttamento delle ICT. Assieme al ruolo fondamentale che l’ICT ha avuto sulla crescita della produttività negli ultimi venti anni, ciò può essere una spiegazione importante per la stagnazione italiana. Ridurre la rigidità del mercato del lavoro non è sufficiente se rimangono inalterate le pratiche di gestione scarsamente meritocratiche. L’Italia ha perso la capacità di produrre perché sembra non riuscire a gestire correttamente il cambiamento.
L’articolo è stato orginariamente pubblicato su Vox.eu
(1) Olley, Steven, and Ariel Pakes (1996) “The dynamics of productivity in the telecommunications equipment industry”, Econometrica 64 (6): 1263-97. Per l’applicazione a livello di impresa si veda Bartelsman, Eric, John Haltiwanger, and Stefano Scarpetta (2009) “Measuring and Analyzing Cross-country Differences in Firm Dynamics” in Producer Dynamics: New Evidence from Micro Data, National Bureau of Economic Research: 15-76.
(2) Si veda ad esempio Van Ark, Bart, Mary O’Mahony, and Marcel Timmer (2008) “The productivity gap between Europe and the US: trends and causes”, Journal of Economic Perspectives 22 (1): 25-44.
(3) Bloom, Nicholas, Raffaella Sadun, and John Van Reenen (2012) “Americans do IT better: US multinationals and the productivity miracle”, The American Economic Review, 102 (1): 167-201.
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rob
Un Paese non ha produzione e sistema industriale e di ricerca se non ha politica. La crescita fino alla metà degli anni ’70 è frutto di un moto inerziale del volano degli anni precedenti. Anni, che pur con tutte le storture, avevano dato politici di spessore e anche manager. Politica con progetti lungimiranti basta pensare al piano casa Fanfani- a Mattei, alla chimica, alle infrastrutture. In pratica l’Italia si è mossa come sistema- Paese. L’avere cancellato nel ’92 questa classe politica, il giorno dopo il vuoto assoluto. Nel vuoto e nel disordine di una savana desolata e disorientata i primi a muoversi sono gli sciacalli. Piccoli personaggi usciti da retrobottega ( dove non sarebbero mai usciti) e quindi abituati e capaci per evidente scarso valore, a muoversi in piccoli spazi. Il loro maggiore orizzonte l’orto di casa. Quindi localismi, ideologia a go-go, follia del sistema regionale. Basti pensare il proliferare di aeroporti, alle rappresentanze regionali all’estero, alle competenze date a Regioni grandi quanto un condominio di Roma. In 30 anni hanno distrutto tutto, proprio in un momento geo-economico, dove sia il sistema-Paese che il sistema-continente, sono gli unici sistemi che possono affrontare il futuro. Per ultimo una domanda: egregi professori mettereste Voi una produzione in un simile Paese?
Enrico
Articolo veramente interessante, complimenti.
Lavoro da sempre nel privato ed ho qualche anno di esperienza: i punti (a), (b), (c) e (d) sono assolutamenti veri.
rosario nicoletti
Un articolo molto interessante, e comprensibile anche a chi non è un addetto ai lavori. Ma non viene il dubbio agli autori che le quattro cause che giustificano gli scarsi risultati dell’Italia non abbiano quale causa prima l’art 18 dello Statuto dei Lavoratori che rende inamovibili i dipendenti? Con buona pace della meritocrazia e del conseguente avanzamento per anzianità.
Enrico
Probabilmente l’art.18 influisce, ma è anche una questione culturale (nata magari grazie alla presenza dell’art.18). Per tanto che si dimostra e si lavora, si è considerati troppo giovani o troppo vecchi per certi ruoli. C’è quasi imbarazzo a promuovere a responsabile una persona piu giovane del piu anziano del team.
Paolo
Mi sembra che uno dei risultati scientificamente raggiunti dall’articolo sia la dimostrazione che la stagnazione italiana ha cause diverse dalla rigidità del mercato del lavoro…
Il problema è un altro: cari imprenditori e manager studiate di più, tornate a scuola a imparare cosa è fare business nel ventunesimo secolo ….
alekc78
Piu’ che sull’art. 18 metterei il dito sull’operato della Magistratura del Lavoro e sulla nebulosita’ con cui e’ definito il licenziamento per giusta causa: anomalie tutte Italiane. Senza certezza del Diritto non c’e’ nessuno sviluppo, solo caos.
Massimo Matteoli
L’articolo merita un plauso non fosse altro perché non segue il “mantra” della rigidità del lavoro, segnalando invece segnala che in Italia è inferiore a quella di Francia e Germania.
Da non economista pongo però una domanda: se la produttività italiana è in così drammatica diminuzione come è possibile che le aziende italiane ormai da anni non facciano altro che sommare successi nell’export, cioè nei mercati in cui la concorrenza è più dura e difficile?
Si badi bene che questo accade, anzi direi che il trend si è perfino rafforzato, dopo l’adozione dell’euro e la fine delle svalutazioni competitive e che non è affatto limitato al “made in Italy” della moda o simili. Anzi.
Segnalo per tutti un approfondimento della Fondazione Edison su dati UNCTAD/WTO http://www.fondazioneedison.it/binaries/pdf/pubblicazioni/quaderno131.pdf secondo cui l’Italia è il secondo paese nel mondo più competitivo nel commercio mondiale dopo la Germania. Scusate se è poco.
I problemi esistono, basta guardarsi intorno, ma forse bisognerebbe imparare a vedere anche i lati positivi e l’enorme vitalità del nostro sistema produttivo.
E soprattutto ragionare laicamente su questioni come i livelli retributivi (che mi pare si vogliano aumentare solo riducendo le tasse) o la flessibilità, da noi troppo spesso diventata precarietà fine a se stessa.
Perché da non economista ma da persona che cerca di ragionare con la sua testa, penso che la crisi oggi sia essenzialmente una crisi del mercato interno e che la strada migliore per uscirne è quella di garantire un livello di sicurezza e stabilità quanto meno decente a chi lavora, di aumentare la massa di salari e stipendi e di non diminuire ancora le pensioni, visto che il lavoro dipendente ed i redditi da pensione sono la fonte della stragrande maggioranza del denaro che muove il mercato interno.
Perchè altrimenti io proprio non so dove possiamo andare a trovarli. consumatori
Paolo
Cari Autori, l’articolo ha un approccio che lo rende tanto interessante quanto impopolare, ovvero va contro corrente rispetto a quello che da decenni sentiamo affermare da tutto il mondo imprenditoriale e da Confindustria in primis.
La vera domanda a questo punto è: quanto incapaci sono la maggioranza degli imprenditori e dei manager italiani ? E da cosa dipende questa incapacità ? E, infine, quanto dell’attuale perdurare della crisi dipende da questa incapacità invece che dalla rigidezza dei contratti di lavoro o dal peso eccessivo del fisco ?
Mario Rossi
Occorre sempre tenere presente che al mondo esistono cose animate e cose inanimate! Cioè le cose inanimate non si muovono di 1 millimentro se non vi è una cosa animata che la fa muovere. Con questo presupposto in Italia si è pensato troppo a come fare e non si è fatto nulla e come risultato siamo rimasti al carissimo amico. Non esiste solidarietà a senso unico e nessuno verrà ad aiutarci se non dimostriamo la volontà di uscire dal guano. Io sto andando a lavorare all’estero perchè so fare qualcosa che ho imparato a costo di scarifici e non muoverò un muscolo per aiutrare nessuno smidollato che non ha mai fatto niente in vita sua e come io così tanti altri.Meditate!!!!
Massimo Matteoli
L’articolo merita un plauso non fosse altro perché non segue il “mantra” della rigidità del lavoro, segnalando invece segnala che in Italia è inferiore a quella di Francia e Germania.
Da non economista pongo però una domanda: se la produttività italiana è in così drammatica diminuzione come è possibile che le aziende italiane ormai da anni non facciano altro che sommare successi nell’export, cioè nei mercati in cui la concorrenza è più dura e difficile?
Si badi bene che questo accade, anzi direi che il trend si è perfino rafforzato, dopo l’adozione dell’euro e la fine delle svalutazioni competitive e che non è affatto limitato al “made in Italy” della moda o simili. Anzi.
Segnalo per tutti un approfondimento della Fondazione Edison su dati UNCTAD/WTOhttp://www.fondazioneedison.it/… secondo cui l’Italia è il secondo paese nel mondo più competitivo nel commercio mondiale dopo la Germania. Scusate se è poco.
I problemi esistono, basta guardarsi intorno, ma forse bisognerebbe imparare a vedere anche i lati positivi e l’enorme vitalità del nostro sistema produttivo.
E soprattutto ragionare laicamente su questioni come i livelli retributivi (che mi pare si vogliano aumentare solo riducendo le tasse) o la flessibilità, da noi troppo spesso diventata precarietà fine a se stessa.
Perché da non economista ma da persona che cerca di ragionare con la sua testa, penso che la crisi oggi sia essenzialmente una crisi del mercato interno e che la strada migliore per uscirne è quella di garantire un livello di sicurezza e stabilità quanto meno decente a chi lavora, di aumentare la massa di salari e stipendi e di non diminuire ancora le pensioni, visto che il lavoro dipendente ed i redditi da pensione sono la fonte della stragrande maggioranza del denaro che muove il mercato interno.
Perché altrimenti io proprio non so dove possiamo andare a trovarli. i consumatori
Piero
Articolo del tutto sbagliato, dire che il sistema e’ poco competitivo con gli schemi indicati, non è vero, dire che c’è stata una diversa allocazione delle risorse che hanno impedito la crescita e’ vero, ma cosa c’entrano le piccole imprese italiane su un discorso di questa portata, in ogni caso gli imprenditori fino a che hanno potuto hanno investito per fare crescere le loro imprese, basta vedere i successi delle varie Tremonti, e’ vero che oggi non vi è più la rigidità del lavoro, non possiamo dare la colpa alla legislazione del lavoro, dopo dire che la pubblica amministrazione e improduttiva e che la politica costa di più che altrove, ciò è noto a tutti, ma non è l’argomento dell’articolo.
Affermare che nelle imprese private italiani non vi siano manager competenti non è provato, in primis non vorrei che gli autori abbiano fatto un’indagine sulle imprese pubbliche, li non abbiamo scoperto l’acqua calda.
Il vero problema dell’impresa privata italiana e solo l’adozione del cambio fisso dal 2001 che non ha permesso le imprese di crescere, tutto il capitale e’ stato drenato dalle imprese private per finanziare il settore pubblico, in effetti dal grafico possiamo notare che dal 2001 crollano gli investimenti in Ict di più degli altri paesi.
Abbiamo un caso unico al mondo, un’unione economica senza uno stato anche leggero che possa gestire delle risorse federali, abbiamo una politica monetaria fatta da incompetenti, ciò porterà alla morte di tutti i paesi europei, naturalmente a partire dai più indebitati come l’Italia, tutti gli alti paesi a partire Giappone, America, Inghilterra hanno rialzato la testa con le politiche di stimolo monetario, mentre l’Europa no, voglia l’imprenditore ad essere bravo e quando va sul mercato si deve confrontare con imprese che hanno liquidità in abbondanza con costi notevolmente inferiori alle nostre, solo un piccolo esempio, in questo momento ad un mio cliente viene finanziato dal suo fornitore estero ad un tasso del 9% perché in Italia vi è il credit crunch, mentre in Giappone il fornitore del mio cliente ha liquidità in eccedenza.
Gli italiani sono riconosciuti nel mondo ore le loro capacità imprenditoriali, i nostri distretti industriali sono stati studiati perfino dai giapponesi, basta infangare la nostra classe imprenditoriale privata che si è vero e accompagnata da una classe politica che è la peggiore del mondo.
Maurizio Cocucci
Concordo pienamente con il contenuto dell’articolo che evidenzia una delle principali cause della crisi che attraversa l’economia italiana, crisi non imputabile in toto alla classe politica. Sarebbe facile citare esempi negativi di grandi aziende finite male per una gestione scellerata: Parmalat, Telecom, Alitalia, ma rimandendo in ambito piccole e medie imprese che rappresentano la colonna portante del sistema industriale italiano sono numerosi gli esempi che confermano i contenuti dell’articolo. Basta partire dalle assunzioni, dalle modalità con cui vengono effettuate ricerche e colloqui, poco orientate all’effettivo valore dei candidati e più all’aspetto economico. Possibile che tanti giovani laureati vengono snobbati da aziende italiane e assunti in breve tempo da quelle straniere con contratti che qui si sognerebbero? Possibile che un cinquantenne (o ultra tale) non risulti più utile? Con il suo bagaglio professionale accumulato negli anni? Possiamo proseguire con la capitalizzazione delle aziende, da cui risulta che quelle italiane sono sensibilmente meno capitalizzate di quelle di altre nazioni con le conseguenze che ne derivano dal punto di vista dell’esposizione finanziaria, soprattutto in momenti di crisi. Un interessante articolo a tale riguardo è stato pubblicato proprio su questo sito: http://www.lavoce.info/la-ricapitalizzazione-delle-imprese-fa-bene-alle-banche . Quanto all’uso di efficaci strumenti ICT basti pensare a quanto poco diffusa siano la posta elettronica certificata e la firma digitale che permettono un risparmio notevole in termini di costi e di tempo. E’ singolare che la sua diffusione nell’ambito privato sia dovuto più a disposizioni di legge che non alla rilevazione dei vantaggi che le imprese dovrebbero cogliere dal loro uso. Quante riunioni in sede potrebbero essere risparmiate sfruttando l’opportunità offerta dalla teleconferenza? Quanto potrebbero risparmiare le aziende che adottassero l’etichettatura con conseguente lettura con codici a barre delle merci? E si può proseguire con numerosi altri esempi. Quanto al criterio adottato per le promozioni credo che chiunque abbia lavorato nel settore privato, soprattutto nelle aziende di dimensioni medie, non possa che essere d’accordo che quello prevalente è quello indicato dagli autori. Il presidente di Deutsche Telekom, R.Obermann, ha 50 anni, ma ne aveva 43 quando fu nominato a questa carica. Il presidente della Bundesbank, J.Weidmann, ha 45 anni.
Ivan Berton
Scusate ma tutti quanti voi, avete mai visto come lavorano all’estero ?
Io lavoro all’estero, e nel mio settore ( produzione di beni di lusso ) , che mi vengano a dire che in Italia siamo meno produttivi mi fa veramente ridere, in un paese come l’Austria che si vanta a livello ufficiale e statistico, di essere un paese con produttività altissima vi confermo che dormono, ma senza esagerare, non esistono gli straordinari, il costo della vita è più basso, l’imposizione fiscale è più bassa, i negozi chiudono ad orari umani, i centri commerciali di domenica li trovi belli chiusi, eppure la produttività è altissima una delle migliori in europa.
la sanità funziona, i servizi funzionano, e le tasse sono anche leggermente più basse.
E’ ora di smetterla di dire che le colpe sono di chi lavora, 1 italiano fa il lavoro di 3 austriaci.
Sono le tasse che ci stanno mietendo le gambe oramai da anni, lo stato vuole sempre di più. e le aziende fanno le loro scelte per guadagnare di più, cioè meno qualità dei prodotti, e sfruttano di più la gente.
le uniche cose da fare in italia sono la semplificazione delle norme, eliminare una bella fetta di politicanti malandrini, ed abbassare le tasse , fine della storia.
rob
Vorrei aggiungere il discorso dell’evasione fiscale che in Italia è imputata al parrucchiere, o al barista di turno. A Vienna, oltre che il centro storico è salvaguardato dai centri commerciali e pupula di piccole attività, se pranzi in un ristorante e no paghi con carta di credito il conto te lo fanno sul tovagliolo. I centri storici italiani sono ridotti a quartieri-fantasma. Fate un giro a Vienna, città considerata sonnacchiosa nello stereotipo dell’italiano ignorante.
Valerio DI Bernardo
Articolo che galleggia tra la superficialità e l’incompetenza. Data per scontata la buona fede degli autori, dov’è l’analisi dello scenario macroeconomico di riferimento in merito alla produttività e al tasso di produttività? Eppoi come si può trascurare il dato relativo al capitale proprio delle aziende italiane rispetto a quelle straniere, in altre parole l’indice ROE (Return on equity)? Ancora, il dato sull’andamento del costo del lavoro in Italia Germania e Francia, dov’è? Gli autori sono evidentemente sostenitori della legge di Say, ampiamente smentita 80 anni fa da Keynes, per la quale in sintesi è l’offerta che traina la domanda. Se non c’è domanda interna e se quel poco è soddisfatta da prodotti importati aventi costo relativo inferiore (come mai?), come può aumentare la produttività italiana se è, come infatti è, la domanda a trainare l’offerta? A metà anni 90 perché eravamo davanti a tutti come tasso di produttività?
Maurizio Cocucci
Non confonda però la produttività con l’impegno. Ogni azienda produttiva possiede un certo numero di centri di lavoro e spesso la quantità di produzione e produttività non è legata alla velocità del personale sulla linea, ma dal come è impostata la linea stessa. La produttività dipende da quanti turni sono svolti, chi ha la possibilità di produrre su 3 turni e quindi 24 ore al giorno sarà sicuramente più produttivo di quello che si limita a lavorare su un turno solo. Poi c’è da considerare la tipologia di macchinari utilizzati, spesso quelli più vecchi richiedono una assistenza di manodopera maggiore di quelli moderni, quindi se ad esempio ad un operaio posso assegnare la supervisione di 3 unità (o centri di lavoro) la produttività risulterà maggiore di quella azienda che sarà costretta ad assegnare a ciascun operaio uno o due centri di lavoro similari. Consideri anche l’utilizzo di strumenti informatici che, come ho accennato nel mio commento, possono velocizzare procedure come quella di immagazzinamento o in particolare relativo alla contabilità. Se se ne intende concorderà che una cosa è operare con un gestionale SAP e un’altra si si utilizza una applicazione che gira sotto Windows. Insomma in molti casi la produttività non dipende da quanto impegno ci mette il personale ma da come l’azienda si è strutturata e dal livello di sfruttamento dei fattori della produzione.
Ivan Berton
Certamente, lei ha ragione, di certo l’organizzazione ed i mezzi hanno un altissimo impatto sulla produttività delle persone, giustamente il Sap è uno strumento eccezzionale e porta enormi vantaggi alle aziende, però senza trascendere nelle dotazioni di mezzi ( comunque le aziende medio grandi italiane non sono da meno di quelle estere), io intendevo far presente una visione della realtà leggermente diversa.
A livello di politicanti ed affini, ci hanno raccontato, ed ancora ci raccontato, che in italia si dovrebbe lavorare di più, pretendere salari più bassi, vedere eliminati i diritti del lavoratore, etc etc etc, su questo penso che siamo tutti d’accordo.
La mia domanda è :
Come mai all’estero, a parità di organizzazione, lavorando meno ore ( in austria l’orario base è di 38.5 ore settimana, con tassazione leggermente più bassa, con livello dei servizi nettamente più elevato), si riesce ad avere la produttività più elevata d’europa ? Io parlo dell’Austria, ma ho prove concrete anche di Francia e Germania ( anche se in Germania parlano di dumping salariale, ma il ” dark ” sanno bene anche loro come farlo , alla faccia degli evasori italioti ), a ragion veduta , sono arrivato alla conclusione che il sentiment generalizzato che in tutti questi anni, le politiche in italia erano volte solo al guadagno di pochi eletti a discapito di molti, sono non vere, ma esattamente aderenti alla realtà dei fatti .
Come vi ripeto, a livello legislativo e semplicità, l’Austria è di esempio secondo me.
Quindi penso proprio che , e solo se, i politicanti da strapazzo avessero realmente a cuore il loro paese, magari avrebbero fatto fin da inizio anni 90″ delle politiche volte all’interesse generale, invece ….. il nulla più assoluto, se qualcuno è stato imprenditore in italia magari ha avuto la fortuna di avere a che fare con le varie gabelle gabelline e polverai del bel paese, oltre ai vari inestetismi delle leggi , fatte in virtù di dare potere a certi e non ad altri, oltre al malcostume nostrano del ” non ti pago”, o “ti pago quando ho voglia”, tanto sfido chiunque ad andare dinnanzi ad un giudice magari per 1000€ di guadagno, e 3000€ di spese giudiziarie, senza certezza del diritti che chi perde paga tutto .
Insomma io mi sento Italiano al 100%, amo il mio paese, amo la cucina, amo la cultura, amo la nostra lingua, amo la bellezza delle nostre opere d’arte, amo gli Italiani, però, se potessi spedire a casa tutti i politici lo farei seduta stante, e metterei un parlamento stranieri, almeno se uno ha ricevuto una mazzetta, hanno l’integrità morale di vergognarsi, e di dimettersi.
Scusate lo sfogo.
Alberto
Attenzione alla dimensione aziendale (argomento mi pare non toccato nell’articolo) e ancora la rigidità del mercato del lavoro: è aumentata quella in entrata, ma non quella in uscita, così che gli scansafatiche non possono essere licenziati e sostituiti da persone più volenterose. Aggiungo che esiste anche una rigidità auto-imposta: i lavoratori italiani si spostano difficilmente all’interno del territorio nazionale per trovare lavoro laddove sia più remunerativo.
antonio gasperi
mi pare che i dati riportati facciano riferimento più che a quella interna alle imprese all’allocazione intersettoriale delle risorse: a questo proposito mi pare di poter dire che siano i settori cd. “pesanti” ivi compresa l’auto, che non abbiano avuto l’aumento della produttività del lavoro necessario per garantire la competitività. ciò probabilmente per le cause indicate dagli autori. auguri di buone feste
Marco Galeotti
Da ex piccolo imprenditore informatico mi permetto di evidenziare il mio limitato punto di vista sui motivi principali di un degrado evidente del nostro tessuto economico: 1) lo strapotere sindacale che ha provocato l’appiattimento di mansioni e stipendi, con la benedizione di molti imprenditori che hanno accettato minore produttività contro minori costi del personale 2) eccesso di regole e costi relativi, che hanno ammazzato gli animal spirits di molti imprenditori. Perché darsi da fare, combattere contro banche, debitori, fisco, perché combattere battaglie perse contro le burocrazie? Per ricavare margini ridicoli ed essere anche visti come sfruttatori da una opinione pubblica educata a una visione marxista ? 3) Il pessimo esempio dato da una classe dirigente politica e amministrativa che costa troppo, funziona malissimo, provoca corruzione e malaffare e tuttavia ci chiede di pagare sempre più tasse