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Se i comuni ignorano la riforma del catasto

Positiva la riforma del catasto appena approvata, benché si prevedano cinque anni per il suo completamento. I comuni farebbero meglio ad accelerarne l’applicazione anziché spremere i contribuenti in base alle vecchie regole. Il caso di Roma e la valanga di ricorsi che renderà deludente il gettito.

PARTE LA RIFORMA DEL CATASTO

La riforma del catasto è stata approvata a livello di legge delega. Se ne parla da oltre trent’anni (facevo parte della commissione creata dal ministro Reviglio, da cui uscì nel 1981 una proposta assai vicina a quella ora prevista), sicché dovrebbe essere facile emanare i decreti attuativi. E poi? Si prevede un quinquennio per il completamento del nuovo sistema. Ma dovrebbe essere possibile accelerare i tempi, ricorrendo all’autovalutazione certificata. Lo prova il ricordo dell’equo canone, che nel 1978 fu celermente applicato sotto la responsabilità dei proprietari, controllati dagli inquilini. Conviene comunque attendere il decreto attuativo, per discutere a ragion veduta delle modalità tecniche di attuazione. Per ora, si può solo esprimere consenso sulle linee portanti della riforma: microzone, aggancio ai valori di mercato, superficie al posto dei vani, algoritmo di calcolo con vari parametri volti a cogliere le specificità di ciascun immobile.

LE INIZIATIVE DEI COMUNI

Alla luce di tutto ciò appare sorprendente che alcuni comuni si siano imbarcati in vaste operazioni di accertamento catastale, con conseguente rivalutazione della rendita secondo i criteri vigenti, basati su categorie, classi, vani. Spiegazione ovvia: serve aumentare le entrate locali, qui e subito; e pazienza se si prosegue sulla strada sbagliata. E tuttavia appare elevato il rischio di un’operazione non solo irritante per i contribuenti colpiti con un metodo sconfessato dalla riforma, ma anche deludente per i comuni sul piano del gettito. È stata infatti avviata una valanga di ricorsi che annullerà o comunque ritarderà il prelievo atteso.
Su cosa si basano i ricorsi? Considerando il caso più importante, quello di Roma che ha deliberato una forte rivalutazione di tutti valori nel centro storico, si possono individuare tre ragioni principali.
La prima è la povertà dell’analisi su cui si basa l’accertamento a livello di microzona. A detta dei ricorrenti, i nuovi valori di mercato nella microzona colpita, valutati sia in assoluto sia rispetto ai valori medi degli immobili nel territorio comunale, nonché agli interventi di riqualificazione urbana ed edilizia che hanno contribuito alla loro lievitazione, sono dichiarati nell’avviso di accertamento senza adeguata prova dei dati e delle elaborazioni sottostanti e senza allegare una sufficiente documentazione. Si viola così lo statuto del contribuente, che vuole che tutto sia esplicitato e documentato per mettere il cittadino in grado di contestare sia i criteri che i dati di fatto.
La seconda ragione sta nell’inadeguata considerazione delle caratteristiche specifiche dell’immobile che viene passato a una classe catastale superiore. Anche nel vigente sistema il classamento deve considerare tali caratteristiche, ma ovviamente la scarsità di tempo e risorse non ha consentito ai comuni di effettuare sopralluoghi o comunque fornire indicazioni dettagliate.
La terza ragione è nel meccanismo della rivalutazione. Il combinato disposto della legge 311/2004 e di una successiva direttiva dell’Agenzia del territorio concede a un comune la revisione quando il rapporto tra valore medio di mercato e corrispondente valore medio catastale in una determinata microzona superi di oltre il 35 per cento l’analogo rapporto calcolato sull’intero territorio comunale. Orbene, nel caso di Roma è successo che vari quartieri si sono trovati a superare di due o tre punti la soglia e a subire una rivalutazione del 60 per cento o più. Le iniquità del vigente catasto discendono ovviamente da valori “relativi” inaffidabili (quelli assoluti non rilevano ai fini dell’equità interna al settore immobiliare), e si sa che sono elevate. Non è il caso di esaltarle con un improvvido intervento pubblico che lascia esente l’immobile con uno scostamento del 34,9 per cento e colpisce con violenza quello con il 35,1 per cento.
È un esempio del cosiddetto sistema per classi: oltre una soglia, scatta un inasprimento fiscale sull’intero importo e non solo sulla parte che eccede la soglia (come invece succede correttamente con il sistema a scaglioni, che ben per questo è quello ovunque vigente nell’imposta progressiva).
Si crea così un salto tra contribuenti, sicché per un certo intervallo di redditi, che dipende dal cambio dell’aliquota, si inverte la graduatoria dei redditi netti rispetto a quella dei redditi lordi. Nel caso in esame, i valori in gioco fanno ritenere che l’effetto inversione sia significativo, cozzando contro il buon senso, prima ancora che contro la Costituzione. Il rimedio sta nel prevedere una margine più basso di tolleranza, ad esempio uno scostamento del 15 per cento, oltre il quale scatta l’aumento della rendita, che è però ragguagliato all’eccesso dello scostamento rispetto alla soglia.
In conclusione, pur comprendendo i bisogni di una finanza locale stremata, è consigliabile che i comuni contribuiscano ad accelerare l’applicazione della riforma catastale anziché attardarsi nello spremere i contribuenti in base alle vecchie regole. E se proprio devono farlo, lo facciano rispettando le buone regole del diritto e dell’economia.

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Fuori dal coro sul caso Poste italiane *

  1. Bumblebee

    Qui si trascura anche che l’attuale sistema del catasto italiano, che è basato sul dualismo catasto/uffici del registro, favorisce l’accumulo di omissioni e di registrazioni non aggiornate. Basti dire che ogni momento si legge sui giornali: “1 milione di stabili non censiti”. Notizie, ancora una volta, che dimostrano che l’Amministrazione pubblica, in Italia, per una esplicita scelta politica, non viene messa in grado di funzionare.
    Tutto questo non avviene negli stati – specialmente del nord Europa – in cui, da oltre 2 secoli vige il sistema del “catasto tavolare”, per cui i proprietari sono costretti a pretendere l’aggiornamento delle registrazioni catastali, che va anche a vantaggio del fisco. Questo sistema, in Italia, vige ancora nel Trentino-Alto Adige e in provincia di Trieste, residui della Kakania. Come mai questo sistema non è stato adottato anche in Italia? Eppure, lo si era tentato, a suo tempo, nelle colonie. Forse che i notai non lo vogliono, perché la loro funzione perderebbe di importanza?

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