Lavoce.info

Svalutazione e inflazione: cosa dicono i dati

Nei 23 casi di svalutazione dal 2000 in poi l’inflazione ha ridotto entro due anni i guadagni di competitività indotti dal deprezzamento della valuta. La relazione tra svalutazione e inflazione non è fissa, ma dipende dalla capacità di un paese di tenere l’inflazione sotto controllo. 

Chi vede nell’euro una camicia di forza che impedisce alle economie più deboli dell’eurozona di competere sui mercati internazionali crede che una svalutazione del cambio (diciamo, di una neo-lira) si tradurrebbe in un limitato aumento dei prezzi del paese, in tal modo generando il guadagno di competitività che invece, all’interno dell’attuale unione monetaria, potrebbe arrivare solo da una – prolungata e socialmente costosa – deflazione di prezzi e salari interni. Ma c’è anche chi (lo hanno fatto ad esempio Baglioni, Lippi e Schivardi su questo sito)  argomenta che la maggiore competitività e crescita del Pil derivanti dalla svalutazione successiva ad un ipotetico euro-exit sarebbero temporanee e che quindi in definitiva il gioco (prezzi più alti per sempre, in cambio di un beneficio temporaneo di più rapida crescita) non vale la candela. Un esame attento dei dati aiuta a chiarire le ragioni della controversia. La recente esperienza dei paesi G20 e l’esperienza storica degli anni Trenta e dell’Italia suggeriscono che la relazione tra svalutazione e inflazione non è fissa ma dipende dalle istituzioni anti-inflazione di cui il paese che svaluta riesce a dotarsi.

LE MAXI SVALUTAZIONI NEI PAESI G-20

Prendendo i venti paesi più importanti del mondo (quelli che formano il G20) su un lungo orizzonte di tempo (tra il 2000 e il 2013, includendo quindi gli anni precedenti alla crisi di oggi e gli anni di crisi), si possono isolare gli episodi corrispondenti alle grandi svalutazioni del cambio di ogni paese rispetto al dollaro per poi calcolare il differenziale di inflazione tra il paese in cui è avvenuta la svalutazione del cambio e gli Stati Uniti. Tra il 2000 e il 2013 ci sono 13 variazioni annuali del cambio per ognuno dei 19 paesi considerati (gli Usa esclusi, in quanto paese di riferimento). Scegliendo una soglia minima del 10 per cento annuo, dal campione emergono 23 episodi di maxi svalutazioni riportati nella tabella sotto (le maxi svalutazioni che durano più di un anno sono considerati un solo episodio e la svalutazione riportata è quella cumulata). Per ognuna delle maxi svalutazioni individuate nell’ultima colonna della tabella viene poi riportato il differenziale d’inflazione verso gli Usa nello stesso anno e nell’anno a seguire (cumulati) in modo da rendere possibile un confronto. Le svalutazioni più recenti (come quella giapponese della Abenomics) non sono incluse perché per valutarne gli effetti sul differenziale di inflazione bisogna aspettare la fine del 2014.
Dalla tabella emergono tre elementi fondamentali.

(1)    Le maxi svalutazioni avvengono più frequentemente nei paesi emergenti. Nel periodo considerato gli episodi di maxi svalutazione hanno riguardato solo 12 dei 19 paesi potenziali (gli Usa sono ovviamente esclusi dal campione). Solo cinque di questi episodi sono avvenuti in paesi ricchi (uno nel Regno Unito nel 2009, uno nel Giappone del 2001 e tre in Australia, nel 2003-04, nel 2007 e di nuovo nel 2010-11). Gli altri 18 episodi hanno avuto luogo nei cosiddetti paesi emergenti. Nessuna maxi svalutazione è avvenuta nei tre paesi dell’area euro inclusi nel campione (Francia, Germania, Italia) per i quali i dati di cambio sono ovviamente gli stessi.

(2) Nella maxi svalutazione media il deprezzamento del cambio è stato pari al 35,9 per cento. Approssimativamente metà di questo deprezzamento si è tradotto in un più elevato differenziale d’inflazione con gli Usa entro la fine dell’anno successivo al deprezzamento. In gergo economico, sulla base degli episodi considerati il coefficiente di trasmissione del cambio all’inflazione (“pass-through”) è vicino a 0,5. Il coefficiente rimane vicino a 0,5 anche escludendo i due casi più eclatanti di maxi svalutazione (l’Argentina nel 2002) e di maxi inflazione (la Turchia nel 2001-02). In tal caso infatti il deprezzamento medio del cambio scende al 22,4 per cento e il differenziale medio al 10,4 per cento, il che dà un coefficiente di trasmissione dal cambio all’inflazione vicino a 0,5 come nel campione complessivo.

(3) Il coefficiente di trasmissione del cambio dell’inflazione è solitamente più piccolo per i paesi ricchi che nei paesi emergenti.
Tabella Daveri 1

Leggi anche:  Inflazione bassa, ma il carrello tricolore non c'entra

I CASI ESTREMI: ARGENTINA E TURCHIA

Argentina e Turchia nei primi anni Duemila sono esempi estremi che descrivono la grande variabilità di relazioni tra svalutazione e inflazione presenti nei G20. Nel caso dell’Argentina, la fiammata di svalutazione del 211 per cento osservata nel 2002 è venuta dopo un periodo decennale di incatenamento del peso argentino al valore del dollaro americano durante il quale l’inflazione argentina è stata – di poco ma sistematicamente anno dopo anno – al di sopra di quella americana. La svalutazione del 2002 ha colmato (più che colmato, veramente) il differenziale d’inflazione accumulato dal 1991. E così il differenziale di inflazione che si è originato nel 2002-03 è stato solo (si fa per dire) del 38,3 per cento, circa cinque volte inferiore al deprezzamento del peso nel 2002. L’effetto inflattivo della svalutazione si è poi attenuato nel tempo tanto che il differenziale di inflazione dell’Argentina verso gli Usa è ritornato a una sola cifra (ma non a zero) già nel 2004. In poche parole, la maxi svalutazione del peso argentino ha corretto uno squilibrio esistente (la perdita di competitività accumulata dall’Argentina nei confronti degli Usa tra il 1991 e il 2001) e non si è tradotto in una spirale inflazionistica per gli anni a venire.
Le cose sono andate molto diversamente in Turchia dove la svalutazione ha avuto origini simili a quella argentina (la necessità di recuperare competitività a causa dell’atavicamente elevato tasso di inflazione della Turchia) ma il guadagno di competitività potenzialmente disponibile grazie alle svalutazioni del 2001-02 (+144 per cento) è stato più che divorato dai differenziali d’inflazione nel 2001-03 (l’inflazione relativa cumulata nei due anni ha raggiunto il 167 per cento). Dal 2003, tuttavia, il cambio ha smesso di deprezzarsi e anche il differenziale di inflazione è sceso rapidamente ad una sola cifra. Nel caso della Turchia dei primi anni Duemila, svalutazione e (differenziale di) inflazione sono più o meno perfettamente correlati.

LEZIONI DI STORIA

I dati sulle maxi svalutazioni avvenute nei G-20 dopo il 2000 suggeriscono che le variazioni del cambio nominale sono associate a variazioni significative dei differenziali d’inflazione nello stesso anno e nell’anno successivo alla svalutazione. I guadagni di competitività che derivano da una svalutazione sono così spesso molto inferiori (della metà, in media) rispetto all’entità della svalutazione nominale.
La connessione tra svalutazione e inflazione è tuttavia variabile tra paesi. Ci sono fattori che amplificano e fattori che attenuano l’efficacia di una svalutazione nel favorire la competitività. Prima di tutto, una svalutazione intrapresa da un paese in isolamento è molto più efficace nel modificare la competitività di un paese rispetto a una effettuata insieme ai partner commerciali. Quanto più competitive e simultanee sono le svalutazioni, tanto minore è il guadagno di competitività. Questa è la lezione che ci hanno lasciato gli anni Trenta quando molti paesi, per difendersi dalla Grande depressione, tentarono di guadagnare quote di mercato a spese dei concorrenti deprezzando la loro valuta. Ma poiché la manovra fu attuata da tanti paesi insieme il risultato fu zero in termini di competitività. Invece crollò il commercio internazionale e la recessione di tutti peggiorò.
Tra i fattori che limitano l’efficacia delle svalutazioni c’è anche la politica dei redditi (le misure che hanno l’obiettivo di predeterminare l’andamento di salari, prezzi e profitti nel tempo). L’esperienza storica dell’Italia di tanti anni fa suggerisce che la modalità di attuazione della politica dei redditi è cruciale nel determinare quanto della svalutazione si traduca in inflazione. Negli anni Settanta la politica dei redditi in Italia veniva fatta con la scala mobile, un meccanismo che indicizzava i salari all’inflazione passata. Con la scala mobile l’inflazione (anche quella generata dalla svalutazione) si trasmetteva ai salari e di nuovo ai prezzi, in tal modo annullando l’effetto pro-competitivo della svalutazione. Questo meccanismo perverso che aveva fatto raggiungere le due cifre all’inflazione italiana fu interrotto con il decreto di San Valentino del febbraio 1984 – il risultato dell’intuizione e della determinazione di due persone coraggiose, il sindacalista Cisl Pierre Carniti e l’economista Ezio Tarantelli (per questo assassinato dalla Brigate Rosse). Con un decreto molto discusso e avversato dal Pci di Berlinguer, il governo Craxi attenuò l’indicizzazione, anche modificandone il riferimento all’inflazione attesa (o programmata) anziché a quella passata. La scala mobile fu poi eliminata definitivamente il 31 luglio 1992 con l’accordo tra il governo Amato e i sindacati, compresa la Cgil di Bruno Trentin. Non casualmente, a seguito dell’eliminazione della scala mobile, la maxi svalutazione della lira nel 1992 (+22,5 per cento) si tradusse in un marginale aumento dell’inflazione e non in una fiammata inflazionistica. Nell’Italia di oggi è però difficile immaginare una riedizione dell’accordo di allora. Camusso, Bonanni e Angeletti sarebbero probabilmente superati a sinistra nella contrattazione dalla Fiom. A meno che le condizioni precarie del mercato del lavoro rendano del tutto inutile la contrattazione sindacale. In tal caso che la svalutazione sarebbe sì efficace, ma con disagi sociali ancora più gravi di quelli che vediamo oggi.
Per concludere, è difficile (e forse impossibile) affermare in assoluto che una svalutazione porti necessariamente con sé inflazione, nel breve come nel lungo periodo. La recente esperienza dei G20 e quella meno recente dell’Italia suggeriscono che molto dipende dalle istituzioni anti-inflazione di cui un paese che svaluta riesce a dotarsi. Chi vuole uscire dall’euro evidentemente ritiene che le nostre istituzioni anti-inflazione resisterebbero allo shock. Chi è più pessimista (come me) pensa invece che la persistenza delle attuali istituzioni anti-inflazione sia anche il prodotto della presenza dell’euro, di cui sarebbe dunque pericoloso fare a meno.

Leggi anche:  Per l'euro digitale il percorso è ancora lungo

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Lo strano caso del consumatore europeo*

Precedente

Quando la multa con lo sconto non funziona

Successivo

Il Punto

70 commenti

  1. Paolo Vitale

    L’esperienza delle fluttuazioni del dollaro negli anni Ottanta è secondo me molto interessante per capire quali siano gli effetti sugli scambi commerciali di un periodo di forte apprezzamento delle ragioni di scambio (come negli Usa tra il 1980 e il 1985) seguito da un periodo successivo di recupero di competitività (per gli Usa tra il 1985 e il 1988). Negli Usa il forte aumento delle ragioni di scambio comportò un peggioramento drammatico dei saldi commerciali statunitensi. Negli anni successivi alla svalutazione del dollaro del periodo 1985-1988 non si verificò nessuna sostanziale riduzione del deficit commerciale degli Usa. Questo fenomeno di “hysteresis” è stato spiegato tra i vari da Richard Baldwin e Paul Krugman attraverso il beachhead e l’hard landing effects (cfr: Baldwin, Richard & Krugman, Paul, 1989. “Persistent Trade Effects of Large Exchange Rate Shocks,” The Quarterly Journal of Economics). A mio avviso non c’è certezza che un peggioramento delle ragioni di scambio italiane comportino uno stimolo all’economia nazionale con la sostituzione delle importazioni e lo stimolo all’esportazioni

    • Francesco Daveri

      Anche senza hysteresis, come minimo c’è l’effetto J della svalutazione (d’impatto aumenta il costo delle importazioni senza nessun beneficio sulle quantità esportate) di cui si parla poco.
      A proposito di Krugman e la svalutazione, In effetti già nel 1976 (credo durante il suo Ph.D al MIT) Krugman scrisse un paper con Lance Taylor – il teorico della macroeconomia strutturalista – su Contractionary devaluation. Non ha cambiato idea da allora.
      In pratica, per l’Italia la svalutazione del 1992 e quella del 1995 hanno però prodotto risultati positivi sulla bilancia commerciale.

  2. L’economia italiana non è paragonabile a quella degli esempi citati, dobbiamo paragonarla, in termini di maturità, a quella americana, giapponese e inglese: tutte e tre le economie ha fatto una politica di svalutazione del cambio per l’ottenimento della piena occupazione dei fattori produttivi. Rimango deluso dal fatto che gli economisti della Voce ancora non accettino che l’euro così costruito e gestito dalla Germania porta più danni che benefici ai paesi componenti l’area valutaria.

    • Giacomo Genzini

      Se per “maturità” intende età, dal punto di vista cronologico nulla da obiettare. Di fatto, però, in termini di produttività e competitività, intesi come regolamentazione e organizzazione del lavoro, tassazione di lavoro e impresa, politiche di approvvigionamento energetico, gestione della spesa pubblica (l’elenco dei fattori di competitività sarebbe ben più lungo) l’Italia è ben lontana da Stati Uniti, UK e persino Giappone (l’analisi del cui debito pubblico, unico per sproporzione, merita studi e giudizi approfonditi a parte). Sarebbe più che altro interessante analizzare a parte l’effetto della recente, progressiva svalutazione del dollaro (che qui è preso come termine di paragone) a scapito dell’euro: come l’articolo evidenzia, una futura svalutazione della nostra moneta, quale che sia, è destinata a ristabilire un equilibrio di lungo termine che di fatto annulla eventuali vantaggi temporanei dovuti a un tasso di cambio artificiale, proprio come negli anni Trenta. Nel lungo periodo la differenza è data di solito dalla produttività, che da noi è bassa.

      • francesco

        Due cose: l’Italia non deve svalutare per guadagnare competitività, ma per rimetterci alla pari. Guardando i differenziali di inflazione dal ’99 ad oggi con la Germania vediamo che abbiamo accumulato un aumento dei prezzi cumulati circa il 20% superiore alla Germania, quindi o svalutiamo noi o rivalutano loro e con la moneta unica nessuna delle due cose è possibile. Secondo: l’Italia dal ’92 ad oggi ha il migliore avanzo primario d’Europa (meglio della Germania e dei paesi nordici), quindi non è vero che abbiamo problemi di spesa pubblica. Tra l’altro il Giappone ha un debito pubblico molto superiore al nostro.

      • La produttività italiana, naturalmente nel settore privato, è la più alta dell’Europa.

        • Maurizio Cocucci

          I dati provengono da una tabella Ocse che si possono reperire dal loro sito e riferiti al settore manifatturiero. Una curiosità, guardi chi ha conseguito le migliori performance.

          • Marco Disce

            Quel grafico riguarda la variazione della produttività dal 2005, non permette un confronto in termini assoluti.

  3. Enrico T.

    “Non casualmente, a seguito dell’eliminazione della scala mobile, la maxi svalutazione della lira nel 1992 (+22,5 per cento) si tradusse in un marginale aumento dell’inflazione e non in una fiammata inflazionistica”. Evidentemente l’Italia ora possiede delle buone istituzioni anti-inflazionistiche, e quindi una svalutazione non comporterebbe un’inflazione drastica. Detto ciò, non ci sarebbe periodo migliore per inflazionare l’economia, data la bassa inflazione in cui ci troviamo ora.

    • GB

      Istituzioni anti-inflazionistiche? Le stesse che dovevano vigilare sui prezzi nel changeover lira-euro? Se è così stiamo freschi.

  4. Marco Disce

    Non mi è chiaro perché l’articolo individua nell’inflazione la causa della perdita della competitività dopo la svalutazione: la perdita di competitività dovrebbe derivare dall’aumento eccessivo dei salari reali rispetto alla produttività, cioè da un aumento di salari e prezzi che è bilanciato “male”. Niente esclude che un’inflazione anche alta possa avere velocità differenti su salari e prezzi in modo da avere effetti positivi sulla competitività. Quindi la “causa” del problema non dovrebbe essere l’inflazione “in sé”.

  5. Piero Fornoni

    La mia impressione è che l’inflazione in 4-5 anni cancellerebbe i vantaggi di una svalutazione
    fatta fuori dell’ euro, perché le rigidezze strutturali italiane che molti economisti sottolineano non vengono eliminate da una svalutazione .
    Volete un esempio indiretto leggete a
    #http://www.economist.com/news/finance-and-economics/21601008-some-signs-improvement-must-try-harder-patchy-progress
    Non solo l’ Italia e’ tra i pochi paesi dove le
    pensioni sono quasi esclusivamente “statali” e nominali (no assetes solo impegno dello stato di pagarle: quali azioni, obbligazioni, investimenti che generano cash flow ha l’Inps?). Se aggiungiamo che i risparmi delle famiglie sono quasi esclusivamente in obbligazioni italiane ci troveremo con una
    riduzione sostanziale della ricchezza familiare e quindi del mercato interno. Allego anche una pagina di Dimson, Elroy, Paul Marsh and Mike Staunton, Triumph of the Optimists: 101 Years of Global
    Investment Returns Princeton NJ: Princeton University Press, 2002 dove si può vedere evolversi dei risparmi in Italia rispetto al dollaro Usa.
    Nota bene un investimento in “bot” di un dollaro
    in lira e’ diventato un centesimo di dollaro nel 2000 , un dollaro in lire investito in obligazioni italiane e’ diventato 10 centesimi di dollaro, etc.
    La profonda differenza è che oggi sarebbe ancora
    peggio perché l’ Italia è un paese non più giovane ma vecchio in un mondo in cui la competizione internazionale è molto più vasta e profonda.
    Una svalutazione all’interno dell’euro (perdita di
    valore dell’euro) sarebbe molto positiva perché ci costringerebbe comunque a fare le riforme strutturali (altrimenti dovremmo uscire), ma potrebbe aiutare la ripresa.

    • Luca

      Ok tutto quello che vuoi ma chi è disoccupato oggi, e non trova un lavoro, sai cosa glie ne importa della svalutazione del patrimonio.
      Occorre una forte politica di sostegno della domanda per ridurre la disoccupazione. Politica che non è possibile fare nell’area euro.

    • Gualberto

      Caro Piero, la svalutazione all’interno dell’eurozona la decide di fatto la Germania (e dovremmo ormai averlo capito bene), la quale regge ancora molto bene l’attuale cambio euro-dollaro, cambio che al contrario sta facendo saltare per aria noi. Aggiungerei, perché mi pare cosa non secondaria, che mentre le nostre aziende chiudono o passano di mano, chi dovrebbe farci un piacere a svalutare mi pare più interessato ad acquisire imprese in vendita e/o togliersi concorrenti dai piedi (non dovremmo infatti ignorare che su molti settori strategici esisteva una sana concorrenza tra Italia Germania e Francia nel “mondo pre-euro”). Per paura dell’inflazione (tutta in realtà da dimostrare) e del ritorno alla “non-virtuosità” italica siamo disposti a “morire per Mastricht”.

  6. Alessandro Pagliara

    L’attuale istituzione anti-inflazione è il livello di disoccupazione: difficilmente ai livelli attuali gli stipendi tornerebbero a correre. Basterebbe conservare un obiettivo di deficit sempre e comunque entro il 3%.

    • Francesco Daveri

      Certo. Ma senza l’àncora dell’euro, ci sarebbe una forte pressione per tornare a proteggere i salari con i meccanismi automatici del passato (indicizzazione).

      • Non sarebbe male per allineare gli stipendi dei lavoratori alla media ue.

      • Alessandro Pagliara

        Prof. ha ragione. Ma le dico (da giovane imprenditore) che la liquidità del mercato interno è praticamente finita.Le riforme come quella di abbandonare i contratti collettivi per dei contratti aziendali diretti con un semplice limite inferiore al salario vanno fatte. Ma qui nell’attesa delle riforme moriamo prima. Non si può negare che almeno negli annunci si inizi a colpire il ceto che ha la più alta propensione all’accumulo e non alla spesa (i redditi oltre gli 90.000€/anni netti), ma considerando le forti resistenze e che ai redditi inferiori non si può togliere più niente…il rischio di arrivare alla fine con la solita frase…”l’operazione è perfettamente riuscita…ma il paziente è morto” è decisamente alto.

        • Francesco Daveri

          Grazie. Sono preoccupato anch’io e conto con angoscia i fallimenti delle imprese e degli artigiani. Ma per me quella di lasciare l’euro rimane una scorciatoia, non una soluzione.

          • Vale più la moneta o il suicidio di oltre 300 persone per motivi economici?
            Perché Draghi non inonda di liquidità l’Europa?

  7. Nel 1992 la lira si svalutò del 40% sul marco tedesco, non solo il 22% e nonostante tale percentuale non vi fu nessuna fiammata inflazionistica, la scala mobile fu abolita, ma anche se era ancora funzionante, non essendovi inflazione non vi sarebbero stati incrementi salariali.
    Oggi, si vuole difendere l’euro a tutti i costi, l’oligarchia finanziaria gestisce tutto e tutti dai politici alla comunicazione etc. L’onestà intellettuale, alla fine deve prevalere. I fatti sono i seguenti: si vuole tenere l’euro gestito nelle modalità attuali (politica monetaria filo Merkel- l’euro deve essere una valuta forte) allora si dovranno ridurre gli stipendi e i prezzi sui paesi indebitati, naturalmente vi sarà un’arretramento del benessere della società, saranno messi i discussione gli equilibri sociali raggiunti.
    Tutto cambia, con una politica monetaria espansiva, ma nel medio periodo vi dovrà esservi anche una integrazione fiscale, in difetto si tornerà prima o poi alla situazione attuale.

    • the manjushri

      Questo l’andamento dei salari reali dal ’90 al ’95, con drastico calo a partire dal ’92: 28 280, 28 539, 28 672, 28 227, 27 859, 27 354. Nel 1992 avevamo, esempio, un saldo passivo relativamente ai beni ad alto contenuto tecnologico pari a 9 miliardi, oggi quel saldo passivo è triplicato. E sono beni intermedi e strumentali che servono per produrre altri beni. L’aumento del costo di questi beni farebbe schizzare in basso i salari molto più di quanto successo nel ’92. Oppure, le aziende che usano quei beni dovrebbero chiudere per impossibilità a stare sul mercato, oppure ancora dovremmo ritornare a delle produzioni più arretrate e con meno tecnologia (ammesso che esistano sostituti).

      • Luca

        Sarà ma oggi le imprese chiudono lo stesso, pure con l’euro forte.

        • gianfranco

          ma possibile che ci sia chi ancora non lo ha capito?
          svalutare significa diminuire il valore del proprio lavoro, dei propri prodotti e delle proprie cose.

        • the manjushri

          Alcune chiudono, altre aprono

      • Marco Disce

        I salari reali in calo sono l’altra faccia del boom del saldo delle partite correnti. Avremmo potuto aumentare i salari ed esportare di meno, come fa il Giappone.

        • the manjushri

          Dai un’occhiata ai salari giapponesi 2011 e 2012 (4.060.166 e 4.002.910, a prezzi costanti) e alla loro bilancia commerciale; ha raggiunto deficit mostruosi. Se il prezzo delle importazioni schizza in alto da qualche parte devi recuperare.

          • Marco Disce

            Il Giappone ha usato la svalutazione per accrescere il Pil pro capite a discapito della bilancia commerciale, noi l’abbiamo usata per accrescere la bilancia commerciale a discapito del Pil pro capite.

          • the manjushri

            Entrambi si sono mangiati i salari reali: è quello che avviene a chi svaluta (vedi anche Uk e Ungheria) inoltre il Giappone si sta scavando una gran bella fossa, con crollo del saldo delle partite correnti e debito sul Pil oltre il 200%. Voglio proprio vedere come lo finanzieranno con popolazione che va invecchiando sempre più.

          • Marco Disce

            Hai dati su salari reali ridotti in Giappone? A me risulta che il Giappone nell’ultimo anno ha fatto +2,2% di PIL pro capite, meglio di USA (+0,8%) ed eurozona (-0,6%).

            http://bastaconleurocrisi.blogspot.it/2013/12/la-svalutazione-non-serve-il-caso.html

    • Francesco Daveri

      Il mio esercizio usa il dollaro come punto di riferimento per tutti i paesi, non il marco. Quindi il tasso di svalutazione da considerare è il 22, non il 40. Inoltre, a mio avviso l’inflazione nel 1992 non ci fu proprio perché la scala mobile era stata abolita e anche perché fu adottata insieme una politica fiscale molto restrittiva (Amato fece una finanziaria da 100 mila miliardi, almeno sulla carta).

  8. francesco

    Se prendiamo i paesi paragonabili come sviluppo economico all’Italia (Australia, Corea, Giappone e Regno Unito) troviamo che a fronte di un svalutazione media del 21,5% si ha un inflazione media (sui 7 casi sopraelencati) di poco superiore all’1%! Secondo me quindi le conclusioni dello studio presentato sopra sono esattamente il contrario di quelle riportate nell’articolo.

    • Francesco Daveri

      Un articolo dovrebbe essere letto per intero (se uno vuole commentarlo). Stabilito che i paesi Ocse hanno un pass through più basso nella prima parte del pezzo, nella seconda parte mi chiedo se, dal punto di vista delle istituzioni anti-inflazione, l’Italia assomigli agli altri paesi Ocse oppure no. La mia risposta è no. Abbiamo adottato istituzioni anti-inflazione (cioè abbandonato l’indicizzazione e cose simili) PERCHE’ dovevamo stare nello Sme e prepararci a entrare nell’euro. Senza Euro, cosa succederebbe alle nostre istituzioni anti-inflazione? Questo dice il mio pezzo.

  9. francesco

    Un’ultima cosa….l’Italia è in avanzo primario da 22 anni e si è oramai creata anche nell’opinione pubblica la consapevolezza dell’importanza della buona gestione della spesa pubblica (tanto per fare un esempio dei gli 80 euro di Renzi si è parlato più se c’erano o no le coperture che se era il modo migliore di spendere quelle risorse) e a mio avviso queste 2 cose sono ottimi indicatori sul fatto che siamo capaci di attuare le politiche antinflazionistiche necessarie. Tra l’altro i differenziali di inflazione cumulati degli ultimi 15 anni sono molto più bassi di quelli ad esempio tedeschi e la svalutazione andrebbe in buona parte a colmare questo divario piuttosto che scaricarsi sui prezzi.

  10. Amedeo

    Molto interessante

  11. Luca

    Vorrei vedere i dati relativi all’aumento dell’inflazione rispetto al periodo antecedente la svalutazione e non il differenziale % d’inflazione con gli USA.
    Poi, non si parla del precedente storico italiano del 1993 quando l’inflazione rispetto alla svalutazione del 1992 diminuì.
    L’articolo si sofferma su Argentina e Turchia e non menziona il caso del Regno Unito che oggi ha tassi d’inflazione, e soprattutto, di disoccupazione, contenuti.
    Infine, l’inflazione degli anni 70 fu causata più che altro dall’aumento del prezzo del petrolio (shock petroliferi del 1973 e del 1979). Infatti non ne fu colpita solo l’Italia, ma tutti i grandi paesi industriali. L’inflazione arrivò a due cifre un po’ ovunque: USA, UK, Francia, ect. etc.. L’effetto fu più debole in quei paesi che aumentarono il tasso d’interesse mentre in quelli (come il nostro) dove la disoccupazione era un problema politico (a causa dei successi del partito comunista), oltre che sociale, l’inflazione impiegò più tempo ad abbassarsi.

  12. Cesare Nistri

    Interessanti sia l’articolo che i commenti a seguire. In particolare avrei molte perplessità sugli effetti di un nuovo change-over “euro-lira” che nel senso contrario non è stato certo un successo in fatto di prezzi. Aggiungerei peraltro che per 15 anni abbiamo beneficiato di bassi interessi sul debito pubblico dovuti al processo di convergenza monetaria: gli esempi riportati, non essendo relativi ad un’unione monetaria, non possono forse ricomprendere questo aspetto che in 15 anni ha dato all’Italia un risparmio di 500 milioni di Euro in minori interessi sul debito pubblico. Soldi buttati dalla finestra ovviamente!

    • giulioPolemico

      Attenzione, il change-over in senso contrario di cui Lei giustamente lamenta che non fu certo un successo in fatto di prezzi, è stato in gran parte viziato dal fatto che il governo Berlusconi di allora, per “comprare” i voti dei commercianti non fece quello che altri governi fecero in altre nazioni, cioè non ammonì pesantemente le categorie del commercio. E se prima della mezzanotte una pizza costava 9000 lire, dopo la mezzanotte costava 8 euro (esperienza personale).
      Molti furono disonesti e ne approfittarono, il governo disonesto diede briglia sciolta, cioè quello che in cuor suo ogni “buon” italiano vuole, e allora bisogna fabbricare un colpevole, cioè l’euro.

  13. emiliano venanzini

    Tolto il fatto che tutte, o quasi, queste economie sono in crescita mentre in Euro Zona siamo per lo più fermi o in calo, l’ Italia non avrebbe più senso se paragonata solo alle economie più ricche dell’ esempio? Se si guarda a Giappone e UK, non so se anche l’Australia può essere paragonabile, sono molto lontani dal passtrough del 50%.

  14. Jacopo

    Solo una piccola obiezione statistica, siccome l’autore è stato molto onesto sottolineando che la correlazione tra svalutazione e inflazione è variabile tra paesi, non sarebbe stato meglio scegliere un campione più omogeneo di paesi? magari abbassando la soglia di svalutazione necessaria per prendere in considerazione l’episodio dal 10 al 5%. Secondo me India, Indonesia e Turchia (ma forse anche Giappone dall’altro lato, anche se è più simile all’Italia degli altri stati) alterano troppo la variabilità dei dati, e in generale io noto che tra paesi sviluppati e in via di sviluppo c’è una chiara differenza riguardo al pass-through.

  15. Aumenta la disoccupazione in modo dilagante, ben venga la svalutazione per riassorbire i disoccupati, poi di vedrà, in ogni caso sicuramente non si blocca ma disoccupazione diminuendo le spese, anche se improduttive, in Italia occorre una scossa di liquidità, manca nel sistema, tutti ci stanno portando fuori dal vero problema, la vera crisi italiana e quella europea, in Europa sono aumentati tutti i debiti statali perché la Bce non ha stampato la moneta come ha fatto la Fed, l’unica manovra fatta dalla Bce e’ quella di 1000 miliardi di Ltro, erano prestiti, non hanno aumentato la liquidità nel sistema.

    • Maurizio Cocucci

      Svalutazione per assorbire i disoccupati? Come nel 1992 quando nei tre anni successivi si persero circa 650.000 posti di lavoro nonostante l’aumento delle esportazioni? Sulla seconda parte credo che non sia il denaro che manca, ma la fiducia delle imprese ad investire e della banche a prestare. Io francamente non vedo tutte queste aziende che vorrebbero investire oggi come oggi. Se invece intende la disponibilità delle banche di concedere prestiti a fronte di impegni finanziari allora già lo fanno e a grande rischio visto l’elevato ammontare delle sofferenze che aumenta sempre più.

      • Fate un giro tra le pmi italiane, tutte hanno il problema del credit crunch, occorre avere le informazioni corrette, in Italia stanno chiudendo tutte le imprese solo per la liquidità, le tasse e il mercato del lavoro non fanno chiudere le imprese, forse rinviano l’apertura ma non provocano la chiusura.
        Prendeti i dati della chiusura delle imprese e dei concordati preventivi presentati sui tribunali italiani, fate un giro sulle zone industriali italiane e sentite gli imprenditori.

        • giulioPolemico

          E che c’entra l’euro? Allora tutti i Paesi dell’euro dovrebber esser in quella situazione. E se in quella situazione sono solo gli stati europei meridionali, forse è perché funzionano nel modo sbagliato. Allora, anziché dare la colpa all’euro, perché non mettersi a funzionare nel modo giusto (qualche riforma no, eh?)?

          • L’euro è’ come se tra i paesi vi fosse il cambio fisso tra le monete e in presenza di economie diverse, il cambio fisso accentua le diversità e non le cura.

  16. Giacomo

    Anche l’autore scrive “La connessione tra svalutazione e inflazione è tuttavia variabile tra paesi.” Io credo che guardando ai dati si possano individuare due categorie di paesi (sviluppati e in via di sviluppo) nei quali l’inflazione reagisce in modo molto diverso alla svalutazione. Io personalmente avrei scelto un campione più omogeneo di paesi, non credo che il pass-through trovato con questi dati sia realistico per l’Italia.

    • Francesco Daveri

      Basta leggere tutto l’articolo e si trovano esattamente questa distinzione assieme ad altre riflessioni un po’ più articolate di quelle indicate nell’abstract e nelle prime righe del pezzo. Però bisogna arrivare fino in fondo all’articolo. Capisco che leggere un pezzo per intero nell’era di internet è faticoso ma uno sforzo può essere fatto. Almeno prima di scrivere un commento, se non altro.

      • giacomo

        Mi scusi ma io l’articolo l’ho letto tutto, mi sembra che non abbia considerato questa possibilità. Resta il fatto che per avere un’idea più realistica di cosa succederebbe all’Italia il campione da lei scelto non mi pare molto adeguato. Inutile dire che le dinamiche sono molto diverse tra paesi emergenti ed economie mature e poi fare i calcoli usando un campione che non considera questo punto sostanziale.

  17. emiliano venanzini

    Ricordo che anche Svezia e Polonia svalutarono nel 2008, o giù di lì. Non ricordo precisamente, ma mi pare che l’importo non fu irrisorio, perché non vengono considerate? La Svezia oggi è in deflazione, o quasi, quindi abbasserebbe la media, se non altro quella dei paesi ricchi, che poi è già bassa. E per finire, il differenziale di inflazione che interessa all’Italia non è quello verso gli Usa, infatti la maggior svalutazione è attesa verso la Germania, e credo che non sia solo il caso dell’ Italia.

    • Francesco Daveri

      Svezia e Polonia non fanno parte dei G20. Ho scelto un criterio, quello di concentrare l’analisi sui pesi più importanti del mondo. Chi vuole può estendere il lavoro che ho fatto, non è mica vietato.

      • emiliano venanzini

        Ok, chiaro. Però continua a non sembrarmi pertinente il differenziale con gli Usa, o almeno non penso sia rilevante allo stesso modo per l’Italia e il Regno Unito e il Messico e l’Argentina.

  18. Francesco Daveri

    Ho scelto i paesi più importanti del mondo negli ultimi quindici anni e ho confrontato gli episodi di maxi svalutazione scegliendo un criterio. Qualsiasi scelta sarebbe stata arbitraria. Non è vietato estendere la mia analisi, tra l’altro.
    Dell’Italia pre-1992 nel mio pezzo se ne parla, basta leggere tutto l’articolo (che fatica la lettura, più facile un bel commento)

  19. marcello

    Mi sembra un po’ azzardato pensare che l’uscita dell’Italia o di un altro grande paese dall’eurozona non produca un effetto domino e la fine della moneta comune. In questo caso si avrebbero reazioni a catena che una semplice media non può nemmeno lontanamente approssimare. I casi riportati sono quelli di singole economie non di sistemi. Se il buon giorno si vede dal mattino, la polverizzazione dell’Urss ha prodotto sconquassi e iperinflazione e si sta parlando di 1/10 del Pil dell’eurozona. Per non parlare dell’integrazione finanziaria, dei derivati in euro, etc. Se si parlasse di svalutazione dell’euro, di un’euro tenuto a questi valori artificialmente da politiche economiche dissennate e miopi, mentre tutto il mondo dai Brics, al Giappone, agli Usa al Regno Unito svaluta e sottrae quote di mercato all’Europa, allora anche un po’ d’inflazione non solo ci farebbe un gran bene, ma ridimensionerebbe il debito e il suo costo. Come dice Krugman ai rentier non piace l’inflazione, a chi ha debiti viceversa non solo consente di tirare il fiato, ma permette forse di fare quegli investimenti in It e innovazione di cui tanto ha bisogno.

  20. Maurizio Cocucci

    Faccio fatica a comprendere alcune simpatie espresse in diversi commenti a favore dell’inflazione. Posso capire se un aumento dei prezzi fosse dovuto ad una fase di crescita sostenuta dell’economia, ma se invece dovesse provenire da un effetto cambio come conseguenza di un ritorno ad una moneta nazionale non vedo proprio quali vantaggi ci possano essere. Sento ripetere spesso che nel 1992 non ci fu inflazione a seguito di una corposa svalutazione della lira. Vero, ma oltre alle ragioni espressi dal prof.Daveri in risposta ad un commento si è mai andati a vedere anche gli altri parametri? Ad esempio il prezzo del petrolio, crollato dai 20 dollari al barile a circa 14 e così per altre materie prime. Oppure l’andamento del Pil, negativo nel 1993 nonostante l’aumento delle esportazioni. E che dire dell’occupazione, che ha visto perdere circa 300 mila posti di lavoro nel 1993, altrettanti l’anno successivo e 50 mila nel 1995? Posti di lavoro recuperati poi, quando la bilancia commerciale italiana ha ripreso a scendere? Sarebbe dovuto accadere il contrario secondo i fautori della ripresa attraverso una svalutazione.
    Ad oggi più o meno paghiamo circa 65 miliardi di euro per gas e petrolio, se tornassimo ad una moneta nazionale e questa quasi sicuramente si deprezzasse sul dollaro avremmo come conseguenza quella di dover pagare una sovratassa di 6,5 miliardi l’anno (di euro, di lire o di talleri che siano) ogni 10 punti percentuali di deprezzamento, come una corposa manovra finanziaria. A me poi francamente interessa poco se ufficialmente l’inflazione risultasse stabile o meno, quei soldi andrebbero tirati fuori in un modo o nell’altro, che sia attraverso un maggior prezzo dei carburanti, un aumento delle bollette, del costo dei trasporti o altro.
    A proposito di effetti di politiche monetarie espansive, non mi risulta ad oggi un miglioramento del saldo commerciale giapponese a fronte della tanto acclamata Abenomics. Che l’equazione profetizzata da qualcuno per far ripartire l’economia del Sol levante abbia per caso qualche buco? Magari in qualche cella di foglio Excel ad esempio.

    • Ettore

      Anche io sono convinto che la svalutazione propugnata dagli anti-euro non servirebbe a molto; nel tuo interessante commento sulla svalutazione della lira del ’92 (cavallo di battaglia degli euro-exit sopratutto in televisione dove, per i limiti intrinseci del mezzo, raffinate analisi non si possono fare, per cui prevale chi ha parlantina sciolta, vedi la Meloni per capirci, e la battuta pronta, non c’è quasi mai nessun politico proeuro preparato a contraddire dati alla mano: politici studiate un po’prima di andare in tv!). Sostieni che il prezzo del petrolio e’sceso a 14 dollari dopo la svalutazione: ma per avallare la tesi che la svalutazione faccia aumentare il costo delle materie prime, avrebbe dovuto salire essendo quotato in dollari (rivalutato rispetto alla lira) dunque perché hai scritto che è diminuito: errore di digitazione o altro?

      • Maurizio Cocucci

        Ho riportato le quotazioni del brent al barile che vengono sempre espresse in dollari. A settembre 1992 (mese della tempesta finanziaria che portò all’uscita della sterlina e della lira dallo Sme e alla conseguente svalutazione) la quotazione media fu di circa 20 dollari al barile. In seguito il prezzo scese fino a raggiungere una quotazione attorno ai 14 dollari tra dicembre 1993 e marzo 1994 (nei mesi seguenti il prezzo riprese a salire). Per quanto riguarda il cambio dollaro/lira si passò dalle 1.200 lire per un dollaro del 1992 alle 1.600 dei due anni successivi, quindi il prezzo del brent espresso in lire fu in sostanza stabile, visto che i 14 dollari fu un picco inferiore mentre la media fu circa di 17 dollari/barile.

        • Ettore

          Molto chiaro,il prezzo del petrolio in dollari si abbassò per cui rimase costante il prezzo in lire quindi non ci fu l’aumento del costo della energia. Fu una circostanza fortunata: se fosse rimasto costante, il prezzo in lire sarebbe cresciuto. In ogni caso noi non importiamo solo petrolio, ma anche tutte le altre materie prime (rame, zinco, ferro, etc.) per cui (è improbabile che scendano tutte, sarebbe possibile sterilizzarne l’aumento abbassando le accise come sul petrolio) con una svalutazione il costo delle materie prime si alzerà di certo, producendo un effetto inflattivo da costo (ossia l’aumento del costo di produzione si scaricherebbe sui prezzi interni).

      • Alessandro Pagliara

        Il ragionamento sulle materie prime tiene solo per quelle non energetiche: su rame, zinco, argento, oro, mercurio, etc. Ma su quelle energetiche come carbone o peggio gas e petrolio all’impresa (o all’utente finale che poi e quello che consuma) può persino convenire una svalutazione perché si contrarrebbe il costo italiano del carburante (tasse e accise) e l’aumento di quello estero sarebbe di gran lunga compensato. Non voglio dire cosa sia meglio, ma non è nemmeno così banale (come vuoi far vedere) valutare l’effettivo costo sulle materie prime di un’uscita dall’euro. Sarebbe interessante invece pensare ad una intensiva politica energetica Fer intensificando ancora eolico, fotovoltaico e idroelettrico. Raggiunto un 60-70% di produzione propria sarebbe bello rifare il ragionamento sull’uscita.

        • Maurizio Cocucci

          Che una svalutazione della propria moneta possa tradursi in un vantaggio perché c’è la possibilità che lo Stato faccia da benefattore scontando l’aumento del costo puro del carburante riducendo le accise lo vedo come un miraggio, a giudicare dall’esperienza (accise aumentate anche in presenza di una forte recessione). Direi di rimanere con i piedi per terra.
          Se le può interessare in questa sezione redatta dal Ministero dello Sviluppo Economico può trovare molte informazioni utili in merito alle fonti energetiche: http://dgerm.sviluppoeconomico.gov.it/dgerm/

    • Ettore

      Mi correggo,volevo dire che il prezzo in dollari delle materie prime, stante la svalutazione della lira, avrebbe dovuto rimanere costante ed aumentare in lire invece tu hai indicato solo il prezzo in dollari (diminuito, perché?); sarebbe stato interessante citare il prezzo in lire del petrolio dopo la svalutazione, probabilmente sarà aumentato.

    • Luca

      Nel 1992 la svalutazione fu accompagnata dalle politiche di austerità. E’ come oggi, se fai delle politiche di repressione della domanda ottieni come risultato la disoccupazione, e la contrazione del Pil.
      Anche il modo in cui i governi italiani hanno affrontato la disoccupazione a partire dalla seconda metà degli anni novanta è identico a quello di oggi: flessibilità, precarietà e svalutazione del fattore lavoro. Che è quella cosa che piace molto ad alcuni furbi, che non capiscono che se diminuiscono gli stipendi ne risentono anche i consumi interni. Alle medesime azioni corrispondono le stesse reazioni.

  21. Giorgio

    Certo che sentir parlare di “svalutazione” riguardo a regimi di cambi flessibili fa un po’ ridere.
    E’ divertente vedere un’armata coalizzata a favore del blocco dei tassi di cambio, con argomenti sempre più inconsistenti.

  22. ettore

    Questo tread di discussione sull’euro exit e sugli effetti di una svalutazione è il più interessante che abbia letto! Complimenti al Prof. Daveri: la sua analisi è veramente meticolosa, obiettiva e ben strutturata. In economia le variabili sono molteplici e praticamente su nulla si può impostare una successione causale rigidamente deterministica e questo studio lo dimostra ampiamente. Si ragiona per probabilità analizzando dati per cui condivido l’impostazione e le conclusioni di questa analisi. I dati disponibili sugli effetti di una svalutazione probabilmente depongono per un pass-through del 50%, ossia un parziale effetto inflattivo che vanificherebbe la svalutazione in assenza di meccanismi anti-inflazione efficaci come quelli del ’92.

  23. I paesi non sono tenuti insieme dall’euro, ma dalla paura dell’uscita, non sanno cosa li aspettano, basta che parta un paese poi be vedremo delle belle. Un euro simile è la più grossa sciocchezza mai vista al mondo, ancora oggi troviamo il modo di difenderlo, perché non analizziamo la bilancia dei pagamenti nei rapporti tra i paesi euro, prima e dopo la sua entrata? Perché non analizziamo i movimenti dei capitali degli ultimi 6/7 anni tra i paesi euro? Perché non analizziamo la perdita del potere di acquisto dei lavoratori nel periodo di adozione dell’euro in Italia e negli altri paesi?

    • giulioPolemico

      Perché non analizziamo il fatto che il debito pubblico di oggi deriva proprio dagli anni in cui la lira perdeva ogni anno il 20% di potere d’acquisto e lo Stato era obbligato ad emettere titoli a rendimento altissimo per battere l’inflazione, i quali titoli sono esattamente quelli che adesso ci troviamo sul groppone (a gennaio ho riscosso un buono postale di 30 anni fa: io ci ho fatto un ottimo affare, ma per lo Stato è tutto debito pubblico)? Perché non analizziamo che ai tempi della lira l’economia tirava perché bisognava dare a ogni italiano almeno un’automobile, un frigorifero, una tv, etc. e adesso che tutti ce li abbiamo non possiamo pretendere che l’economia continui a tirare come allora? Perché non analizziamo che sulla scena economica non era ancora arrivato qualche piccolo staterello come Cina, Brasile, India e quelli dell’Est Europa?

      • Falso, il costo del debito pubblico attuale, considerata la sua durata media di 6 anni, è quello degli ultimi anni.

        • giulioPolemico

          Il debito odierno, adesso non esisterebbe (e non ci dissanguerebbe) se l’Italia non avesse precedentemente speso tutte le sue risorse per far fronte al debito emesso negli anni 60, 70, 80. L’Italia si è impoverita, negli anni 90 e 2000, proprio per onorare il debito emesso quando la liretta creava inflazione a due cifre. E così l’Italia è rimasta senza riserve e per le necessità contingenti e future ha dovuto emettere altro (molto) debito: quello che c’è adesso. Ma il debito attuale è stato emesso proprio perché l’Italia si era già svuotata per onorare il debito contratto quando la magica lira faceva esplodere l’inflazione.

  24. Luca

    Tutta la discussione sull’aumento dell’inflazione in seguito alla svalutazione è un solo aspetto di un argomento che si illustra completamente, solo se si affronta in termini di elasticità delle esportazioni (e delle importazioni) sul cambio, in base alle condizioni di Marshall Lerner:
    http://goofynomics.blogspot.it/2013/02/marshall-lerner-astenersi-piddini.html

  25. Lacs Arte Angelo Giannetti

    Evito di commentare punto per punto evidenziando i SE e i MA. Prendiamo per buono quanto è nell’articolo pensando che sia Natale, ora perché non fa/fate delle valutazioni senza Se e senza Ma di cosa succede rimanendo nell’€uro come Def, FiscalCompact, Fondo salva stati ed ERF e oro banca d’Italia? Sapete terrorizzare l’uscita dall’euro, bravi, ora dite qua’è il costo sociale, economico e democratico per restare nell’euro. Dai fuori il coraggio così poi commentiamo tutto insieme.

  26. Guglielmo

    A mio avviso l’uscita del Inghilterra dalla unione Europea si deve guardare il confronto delle valute:Sterlina e Dollaro e non dal Euro

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén