Dopo tredici anni arriva finalmente un concorso ordinario per ricoprire quasi 12mila cattedre nelle scuole statali. È una buona notizia, perché dovrebbe mettere fine alla giungla delle graduatorie, composte da decine di migliaia di precari che di anno in anno hanno consentito il regolare svolgimento delle lezioni. Ma la scuola italiana ha bisogno di bravi insegnanti. E il concorso sarebbe un’occasione sprecata se non riuscisse a selezionarli. E allora bisogna avere ben chiaro che cosa permette a un laureato di diventare un docente capace di far crescere i suoi studenti.

Il ministro Profumo ha annunciato la ripresa dei concorsi per reclutare nuovi insegnanti da inserire all’interno del sistema scolastico e ha indicato una data certa entro la quale il bando sarà pubblicato. A distanza di tredici anni dall’ultimo concorso ordinario, si avvia quindi un percorso che dovrebbe segnare una discontinuità con il passato e permettere l’inserimento di energie e forze nuove all’interno di una scuola che ha i docenti più anziani d’Europa. In Italia, infatti, gli insegnanti con più di 50 anni sono il 53 per cento del totale, mentre in Francia, Regno Unito e Spagna non arrivano al 30 per cento.

CONCORSO IN TRE PROVE

Stando alle bozze disponibili, l’accesso al concorso per ricoprire 11.542 cattedre nelle scuole statali di ogni ordine e grado sarà riservato a laureati già in possesso di abilitazione all’insegnamento. Il concorso dovrebbe prevedere tre tipologie di prove: un test preselettivo, teso ad accertare le capacità logiche e di comprensione del testo insieme alle competenze informatiche e alla conoscenza di almeno una lingua straniera comunitaria; una prova scritta orientata a valutare la padronanza disciplinare dei candidati; una prova orale incentrata sulle competenze didattiche del candidato, a sua volta comprensiva della simulazione di una lezione e di un colloquio di metodologia didattica.

IL PASSATO: UNA GIUNGLA DI GRADUATORIE

Il concorso però non avviene nel deserto, ma nella giungla dei diritti acquisiti delle decine di migliaia di precariche di anno in anno, con contratti eternamente a tempo determinato, hanno consentito un regolare svolgimento delle lezioni nella scuola italiana.
La giungla attuale è il risultato preterintenzionale di decenni di politiche troppo attente al contingente. Sin dagli anni Ottanta, infatti, l’accesso ai ruoli del personale docente di ogni ordine e grado è stato garantito attraverso due differenti canali così come esplicitato dal Dlgs 297/94 (Testo unico). Il primo modo prevedeva la partecipazione a un concorso a cattedre per titoli ed esami, ma dal 1990 ne sono stati banditi soltanto due e l’ultimo risale al 1999. La seconda modalità di accesso invece prevedeva la possibilità di partecipare ai concorsi per soli titoli, dopo un periodo di servizio come supplenti nelle scuole statali e purché in possesso di un’abilitazione all’insegnamento. L’abilitazione veniva conseguita con la partecipazione a un concorso con relativo esame finale, a un corso abilitante o, dal 1999, alle Sissis/Siss, scuole di durata biennale istituite presso le università. I due tipi di concorso generavano graduatorie differenti: graduatorie di merito di durata definita per il concorso ordinario e graduatorie permanenti, poi diventate a esaurimento, per il concorso per titoli. In ogni caso, entrambe valide ai fini del reclutamento. In più, attraverso ridefinizioni progressive dei criteri di accesso, le graduatorie sono state integrate con i nuovi abilitati e i nuovi insegnanti che nel frattempo avevano maturato periodi di servizio utili nel sistema scolastico.
Il sistema di reclutamento così disegnato, nel corso dell’ultimo decennio, si è rivelato inefficace e inefficiente. Troppi giovani laureati venivano inseriti in un percorso di speranza di posto di lavoro stabile e trattenuti in questo limbo per anni senza alcuna reale garanzia di regolarizzazione, considerate le scelte di razionalizzazione della spesa. Nello stesso tempo, troppo pesante era la ricaduta in termini di qualità dell’offerta formativa della scuola italiana che vedeva un esercito di insegnanti “a tempo” passare da un istituto all’altro e a volte da un insegnamento a un altro.
Nel 2007 si è tentato di dare uno sbocco a questa situazione, attraverso la stabilizzazione di molti precari presenti nelle graduatorie permanenti e ipotizzando nuovi percorsi di reclutamento. Nonostante le assunzioni di quell’anno e la trasformazione delle graduatorie permanenti in graduatorie a esaurimento, la situazione non si è modificata di molto, tanto che ancora oggi le graduatorie vedono la presenza di decine di migliaia di aspiranti insegnanti. Anche i nuovi percorsi finalizzati al reclutamento hanno stentato ad affermarsi e solo di recente sono stati banditi i concorsi per poter accedere ai tirocini formativi attivi (Tfa), cioè a scuole di durata annuale organizzate dalle singole università sulla base del reale fabbisogno di insegnanti e tese a consolidare le competenze didattico-metodologiche dei giovani laureati che intendano avviarsi all’insegnamento.
Un nuovo concorso non può prescindere da questa situazione pregressa e l’ipotesi di aprirlo ai soli abilitati potrebbe essere un passo concreto per andare in questo senso.

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IL FUTURO: RECLUTARE I MIGLIORI

Il nuovo concorso sarebbe però un’occasione sprecata se non riuscisse ad aprire un nuovo capitolo nei meccanismi di reclutamento della scuola italiana. I quasi 12mila nuovi insegnanti che usciranno dal concorso dovranno formare gli studenti italiani nei prossimi anni e la la prima domanda da porsi riguarda dunque il “come” è opportuno reclutarli, anche aprendo una riflessione sul significato che si intende attribuire alla funzione docente. È fondamentale per costruire un percorso concorsuale efficace nella selezione di quelle figure professionali; sarebbe perciò opportuno definire con rigore gli strumenti che permettano di garantire l’accesso ai migliori.
Per reclutare futuri bravi insegnanti è importante avere chiaro che cosa deve possedere un laureato per diventare un docente capace di far crescere i suoi studenti. Un dibattito su questo tema attraversa la scuola europea e non solo quella italiana.
La bozza del bando di concorso, così come i test proposti per l’accesso ai Tfa, sembra invece concentrare l’attenzione sulle competenze disciplinari dei candidati lasciando solo alla fase finale, alla prova orale con la presentazione di una lezione, la verifica delle altre competenze necessarie per fare di un erudito un buon insegnante. I test proposti per i Tfa così come le cinquanta domande quiz previste per la preselezione del futuro concorso sembrano concentrarsi su conoscenze che lasciano poco spazio alla valutazione delle competenze di natura psicopedagogica e delle capacità relazionali e organizzative necessarie a un buon insegnante per entrare in contatto con i suoi allievi e per poter operare all’interno delle comunità educative.
I quiz potrebbero invece essere orientati a sondare tutto ciò che un insegnante deve conoscere per insegnare – contenuti disciplinari, conoscenza delle principali problematiche psicopedagogiche relative all’età degli studenti con cui si entrerà in contatto e metodologia didattica. Nello stesso tempo già da questo concorso si potrebbe utilizzare l’anno di prova come un momento di tirocinio sotto la supervisione dei dirigenti delle singole scuole in cui potrebbero essere inseriti i candidati che hanno superato le prime fasi concorsuali. Tutto ciò senza alcun aggravio per l’amministrazione, dato che già ora le scuole sono tenute a redigere una relazione di conferma alla fine del primo anno per ogni nuovo insegnante.

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