Pietro Ichino
A proposito del libro di Luciano Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, (Torino, Einaudi, 2003)
La descrizione del declino in atto dell’industria italiana proposta da Luciano Gallino è impressionante: dallo smantellamento progressivo dell’industria informatica (cap. I) alla scomparsa pressoché totale dell’industria aeronautica civile (cap. II), di quella chimica (cap. III), di quella delle telecomunicazioni (cap. IV), della metalmeccanica high tech (cap. V), fino alla crisi grave e forse irreversibile della nostra industria automobilistica (cap. VI), il saggio traccia un quadro del declino del made in Italy che colpisce il lettore come un pugno nello stomaco. Sintetico, ma al tempo stesso corredato da una grande ricchezza di dati e di riferimenti storici.
Il sociologo del lavoro torinese denuncia anche l’errore insito nella parola d’ordine “piccolo è bello”: l’impresa di piccole dimensioni che domina nel panorama italiano – egli avverte – non è in grado di investire sulla ricerca e l’innovazione del prodotto. Per altro verso, proprio su questo terreno i dati mostrano una situazione di drammatica inferiorità dell’Italia rispetto ai partner europei: 74 domande italiane di brevetto per milione di abitanti nel 2000, a fronte delle 366 svedesi, 337 finlandesi, 309 tedesche, 242 olandesi, 211 danesi, 174 austriache, 151 belghe, 145 francesi, 133 del Regno Unito. Non siamo capaci di investire sulla ricerca.
Il saggio si interroga sulle cause e le responsabilità di questo declino, individuandole nelle scelte sbagliate di politica industriale compiute da governanti e dirigenti d’azienda privi di una visione strategica adeguata: una serie di errori clamorosi, che va dal rifiuto opposto all’inizio del secolo scorso dal nostro ministero delle poste al “telegrafo senza fili” di Marconi, alle scelte opportunistiche dell’Eni nel settore chimico negli anni sessanta di fronte alla nascita del colosso Montedison dai piedi d’argilla, all’assurdo e grave ritardo del Governo nel consentire l’attivazione della televisione a colori negli anni settanta, al miope rifiuto italiano di partecipare all’avventura europea dell’Airbus, alla scelta della Fiat di diversificare i propri campi di investimento e attività invece che concentrarsi sul suo core business naturale, cioè sull’automobile: una requisitoria durissima nella sostanza – ancorché il registro formale scelto dall’Autore sia più quello dell’ironia che quello della denuncia aggressiva – con la quale egli contesta a politici e manager italiani di avere sostanzialmente svenduto la nostra industria, trasformandola in una colonia delle multinazionali straniere ed esponendo così il nostro Paese al danno di dover subire scelte di investimento e di dislocazione delle attività produttive compiute da decisori alieni, pensosi prioritariamente degli interessi dei loro connazionali, o comunque di loro interessi nazionali.
Nel quadro diagnostico tracciato da Gallino, infatti, le decisioni degli investitori, nel mercato globale dei capitali, appaiono dettate in larga misura da criteri nazionalistici. È questo un aspetto del saggio che suscita qualche perplessità. Il mercato globale dei capitali può considerarsi oggi un mercato concorrenziale pressoché perfetto: un mercato planetario, cioè, nel quale costi e tempi di transazione sono quasi del tutto azzerati e in generale tutti gli operatori possono accedere alle informazioni essenziali in condizione di sufficiente parità; deve dunque ritenersi che in un siffatto mercato le imprese che seguano prioritariamente criteri di fedeltà nazionale, o addirittura campanilistici, nella dislocazione e gestione delle proprie iniziative, invece che criteri di schietta redditività, vengano tendenzialmente penalizzate (ricordiamo la lezione di R. Reich – The Work of Nations, 1993 – sul punto che ormai non ha più molto senso attribuire una “nazionalità” a una grande impresa). Se così è, i motivi che inducono gli operatori del mercato globale a non investire in Italia vanno individuati, più che nella loro appartenenza nazionale, in alcune peculiarità del sistema-Italia che hanno un effetto depressivo sulla redditività degli investimenti rispetto agli altri sistemi economici nazionali: penso soprattutto al peggiore funzionamento dei servizi (poste, trasporti, giustizia, amministrazioni pubbliche in generale), alla costosa necessità di servizi di intermediazione non necessari altrove nei rapporti con l’amministrazione pubblica, a un mercato del lavoro nazionale nettamente più vischioso, nel quale i costi di aggiustamento degli organici (assunzione e licenziamento) sono più elevati che altrove e le rendite di posizione più diffuse; infine, non ultimo per importanza, al minore radicamento della cultura della legalità, con conseguente minore tasso generale di rispetto delle regole, che nel Sud del nostro Paese si traduce in un vero e proprio “rischio criminalità organizzata”.
Se non ha più molto senso parlare di “industria nazionale”, ne ha invece moltissimo parlare di questi numerosi e gravi difetti di sistema come di altrettanti nostri “handicap nazionali” negativi. Fino all’inizio degli anni ’90 abbiamo potuto compensarli sistematicamente con gli aiuti di Stato alle imprese e la svalutazione competitiva della lira. Ora non possiamo più farlo. Se vogliamo evitare il declino – e non soltanto dell’industria manifatturiera, ma di ogni altra attività economica dislocata tra le Alpi e il Mediterraneo – non abbiamo altra scelta effettivamente praticabile che darci da fare per eliminare questi handicap.
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Serena
L’industria è il motore dell’economia italiana e il settore che più contribuisce alla moltiplicazione del PIL .
Deve restare tale e i manager industriali sono sconcertati per la mancanza annosa di piani industriali stabili.
Ci stiamo organizzando dal basso, “on the road” a supportare le imprese medie e le multinazionali tascabili per riportare la crescita anche in Italia, dove merita. E abbiamo una grande voglia di cambiamento.