Se guardiamo alla concreta realtà del nostro paese, è difficile avere dubbi sulla necessità di riforme in tema di povertà e non autosufficienza, ambiti in cui lintervento pubblico è in Italia tradizionalmente debole. Nonostante si discuta da anni di reddito minimo e di fondo per i non autosufficienti, sono solo alcune Regioni a intervenire su questi temi, seguendo spesso strade diverse luna dallaltra. Ma il vero rischio è che il ripensamento delle politiche sociali scivoli in un angolo sempre più remoto dellagenda politica. Non è difficile indicare quali siano i principali rischi per ampiezza della popolazione colpita – che il welfare state italiano tutela in modo inadeguato: sono povertà e non autosufficienza. Milioni di persone le vivono, ma gli interventi pubblici in proposito sono tradizionalmente deboli. L’inadeguatezza è evidente tanto nel confronto con i bisogni presenti nella società, quanto con ciò che viene fatto nel resto d’Europa. Il tortuoso cammino delle riforme Le azioni per poveri e non autosufficienti costituiscono il cuore delle politiche sociali sempre sottovalutate in Italia, di quel welfare pubblico diverso da pensioni e ospedali così poco sviluppato e così necessario. Sono stati i Governi di centro-sinistra a portare l’attenzione su reddito minimo e fondo per la non autosufficienza. La precedente legislatura ha prodotto un ricco insieme di proposte (si pensi all’opera della Commissione povertà e della Commissione Onofri) nel tentativo di elaborare una riforma complessiva del welfare italiano. Tuttavia, non si è riusciti a tradurre il patrimonio di idee in politiche. Sul fondo per la non autosufficienza non sono stati compiuti atti concreti. Non si è introdotto il reddito minimo, di cui pure è stata attivata nel 2000 una sperimentazione in trentanove comuni (poi diventati trecentosei). Sulla non autosufficienza, il ministro Girolamo Sirchia ha prospettato nel tempo diverse ipotesi, senza mai giungere a una proposta definita. Il centro-sinistra ha proposto l’istituzione di un fondo finanziato attraverso un’imposta addizionale dello 0,75 per cento su Irpef e Irpeg a livello nazionale, cui le regioni potrebbero prevedere addizionali aggiuntive sino ad un massimo di un ulteriore 0,5%. . La commissione Affari sociali della Camera ne ha approvato il testo, lo scorso autunno, con il voto favorevole dei parlamentari di maggioranza e opposizione. Il provvedimento è stato poi bloccato dall’esecutivo, che è contrario all’innalzamento della pressione fiscale. Tra rischio di oblio e confronto con la realtà Il rischio è oggi che le riforme scivolino in un angolo sempre più remoto dell’agenda politica. Spinge in questa direzione la riduzione delle aspettative dovuta a un decennio di tentativi falliti. Anche le complessive tensioni della finanza pubblica restringono gli spazi per progettare riforme legate all’incremento della spesa. Lo sostengono molte ragioni, a partire dalle grandi differenze territoriali e dalla necessità di investire maggiormente su questi temi. Come hanno fatto recentemente i governi di vari paesi europei. Alla ricerca di prospettive Viviamo oggi la contraddizione di riforme che la società italiana necessita fortemente, ma sempre più appaiono di improbabile attuazione. (2) Il fondo può assumere diverse configurazioni, che condividono l’obiettivo di incrementare le risorse pubbliche dedicate alle persone non autosufficienti. L’ipotesi oggi più discussa consiste in una tassa ad hoc (tassa di scopo), un’altra è l’introduzione di uno specifico contributo sul costo del lavoro. La Commissione Onofri propose nel 1997 – di alimentare il fondo attraverso risorse recuperate da altre voci della spesa pubblica esistente (previdenza). Alcuni sostengono l’introduzione di fondi ad adesione facoltativa ma questa non potrebbe costituire la soluzione principale (vedi La voce Beltrametti 16//72002). (3) Formez (2003), L’attuazione della riforma del welfare locale, Formez, Roma, (
Gli atti compiuti in materia rappresentano un valido metro per misurare la capacità di chi governa di avvicinarsi alle concrete esigenze della nostra società.
Sono comuni e Regioni, tra forti eterogeneità territoriali, a erogare servizi e interventi in questo campo, mentre il Governo nazionale fornisce alcune prestazioni monetarie. Da anni, si discute la possibilità di una più incisiva azione, attraverso due principali innovazioni: il reddito minimo di inserimento (1) e il fondo per la non autosufficienza. (2)
L’attuale esecutivo ha mantenuto una linea univoca: nessun passo in avanti, bocciatura delle proposte esistenti e assenza di reali alternative. Ha criticato il reddito minimo nei suoi tratti fondamentali, insistendo sulle debolezze dei comuni nell’attuare i programmi di inserimento sociale e sostenendo l’impossibilità di definire una simile misura su scala nazionale. L’alternativa ipotizzata è il “reddito di ultima istanza”, il cui profilo è rimasto vago e senza alcuna traduzione operativa.
In assenza di riforme nazionali, le Regioni seguono strade diverse: alcune non investono su questi temi, mentre altre compiono notevoli sforzi. La Campania ha recentemente avviato una propria sperimentazione di reddito minimo. Trento, Bolzano ed Emilia Romagna hanno costruito articolati progetti di fondi per la non autosufficienza. L’impressione è che con questo scenario la responsabilità dell’azione sarà sempre più nelle mani dei governi regionali.
Ma se guardiamo alla concreta realtà del nostro paese, è difficile avere dubbi sulla necessità delle riforme in tema di povertà e non autosufficienza. Ne sono convinti studiosi e osservatori. Lo dimostrano le analisi empiriche sui bisogni sociali e stato delle politiche. La discussione semmai riguarda il disegno delle riforme, quali caratteristiche potrebbero assumere: chi dovrebbe beneficiarne (quali criteri per avere accesso al reddito minimo? A chi indirizzare le risorse raccolte con il fondo?) e quali interventi fornire (quale combinazione tra prestazioni monetarie e servizi alla persona?).
Particolarmente controverso è il dibattito sul finanziamento delle riforme, principale scoglio su cui si sono sinora infranti gli sforzi per introdurle.
Tre le domande essenziali: come suddividere le responsabilità tra Stato, Regioni e comuni? S’intende incrementare la pressione fiscale? Si possono recuperare risorse all’interno della spesa pubblica esistente?
Punto fermo è la necessità di un forte impegno del Governo centrale.
Con questo non si vuole deresponsabilizzare Regioni e comuni. Il punto è delicato: basti pensare che diverse Regioni, vivaci nel lamentare le insufficienti risorse per i servizi sociali assegnate dallo Stato, quando questo ultimo le ha effettivamente incrementate (attraverso i fondi della legge 328/2000), non vi hanno accompagnato l’aumento di risorse proprie. (3)
Sembra utile discutere la costruzione di meccanismi incentivanti, capaci di collegare l’incremento dei finanziamenti centrali a quello dei finanziamenti degli altri livelli di governo.
Per fronteggiare il pericolo di un progressivo affievolirsi dell’interesse, occorre dedicare attenzione alle esperienze regionali innovative, che costituiscono un proficuo laboratorio di idee per le riforme nazionali e possono aiutare a mantenere i riflettori accesi su questi temi. È pure importante diffondere queste conoscenze tra le Regioni.
Al Governo centrale dobbiamo continuare a chieder conto dell’assenza di politiche e a sottolineare la debolezza delle iniziative messe in campo per coprirla.
Sul reddito di ultima istanza, l’unico passo è stata la previsione nella Finanziaria di un co-finanziamento dello Stato alimentato attraverso il prelievo del 3 per cento sulle pensioni superiori a circa 13mila euro mensili. All’annuncio non sono seguiti atti concreti e, comunque, le stime mostrano che si tratterebbe di non più di qualche milione di euro.
In tema di non autosufficienza, anni di belligeranti affermazioni del ministro Sirchia sono sfociati nella recente attivazione di una sperimentazione di novanta “custodi sociali” (4) in quattro città, con uno stanziamento di quattro milioni di euro.
È veramente difficile sostenere che queste iniziative potranno avere un impatto di qualche significato. Tanto più che si affiancano a atti più rilevanti che spingono verso la diminuzione degli interventi per poveri e non autosufficienti, come la riduzione dei trasferimenti agli enti locali.
L’opposizione va spronata a dare maggior risalto a questi temi, con proposte sempre più articolate.
I nodi da sciogliere non mancano, basta pensare al finanziamento. L’opposizione sostiene si debba introdurre il reddito minimo e incrementare la spesa per la non autosufficienza. Le due riforme richiedono un grande ammontare di risorse pubbliche: ci si chiede in che modo potrà raccoglierle quando, eventualmente, sarà tornata al potere.
(1) Il reddito minimo di inserimento costituisce una garanzia universalistica contro la povertà rivolta alle persone con reddito inferiore ad una certa soglia. È la combinazione di un contributo monetario e di un programma d’inserimento sociale. (Vedi Chiara Saraceno)
(4) Il “custode sociale” ha il compito di individuare gli anziani in difficoltà in particolare nei grandi centri urbani ed aiutarli nel soddisfacimento dei bisogni primari, a partire dall’acquisto di cibo e farmaci. Se necessario, li mette in contatto con i servizi sociali e sanitari.
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