Alessandro Bellavista

L’introduzione di un salario minimo legale può dare risultati positivi, se opportunamente calibrata. Potrebbe per esempio contribuire a segnare il confine tra lavoro sommerso e lavoro regolare. Ma l’orientamento prevalente ammette già che il giudice si possa discostare dal parametro dei minimi fissati dal contratto collettivo per determinare la giusta retribuzione garantita dalla Costituzione. E dunque non è questo a ostacolare lo sviluppo delle imprese del Mezzogiorno. Altre sono le carenze che incidono maggiormente. Pubblichiamo anche la controreplica di Tito Boeri e Roberto Perotti e il loro contributo originario.

Salario minimo con prudenza


Periodicamente ritorna, soprattutto nella discussione a livello politico e sindacale, la questione dell’introduzione di un salario minimo legale. A mio parere, tale misura, se opportunamente calibrata, produrrebbe indubbi risultati positivi. Condivisibili sono quindi le osservazioni e gli argomenti di Boeri e Perotti.

Il perché di un’interpretazione

Grazie all’interpretazione giurisprudenziale dell’articolo 36 della Costituzione, i salari minimi fissati dai contratti collettivi nazionali costituiscono il punto di riferimento fondamentale ai fini della determinazione della giusta retribuzione assicurata dalla stessa norma costituzionale.
Pertanto, il lavoratore che dipende da un datore non giuridicamente obbligato ad applicare il contratto collettivo del settore di riferimento, ha comunque la possibilità di rivendicare un salario più o meno vicino a quello stabilito dal medesimo contratto collettivo nazionale.

Non bisogna dimenticare la ragione di questa posizione della giurisprudenza.
Scontata l’inattuazione dell’articolo 39 Costituzione, e quindi del meccanismo costituzionale di attribuzione dell’efficacia erga omnes ai contratti collettivi nazionali, la giurisprudenza s’è trovata di fronte a rapporti di lavoro in cui i salari venivano determinati a livelli particolarmente bassi, molto lontani dai minimi dei contratti collettivi nazionali dei settori di riferimento. Questo perché? È facile comprenderlo: senza il contratto nazionale che fissa una soglia minima inderogabile, il lavoratore si trova esposto al soverchiante potere contrattuale del datore di lavoro, che è in grado di imporgli unilateralmente regole e quindi salari di livello bassissimo.

La giurisprudenza ha perciò reagito, sulla base di condivisibili ragioni di giustizia sociale, e da un lato, ha affermato l’immediata precettività dell’articolo 36 della Costituzione che sancisce il diritto del lavoratore a una retribuzione quantomeno sufficiente ad assicurargli un’esistenza libera e dignitosa. Dall’altro, ha utilizzato come parametro, ai fini della determinazione della cosiddetta giusta retribuzione costituzionalmente garantita, i minimi salariali dei contratti collettivi nazionali. Questo in forza del presupposto che attraverso la contrattazione collettiva i lavoratori riconquistano quella libertà contrattuale che non esiste a livello individuale, e sono in grado di ottenere salari più dignitosi.
Ma la giurisprudenza non afferma che il salario minimo del contratto nazionale è di per sé la retribuzione sufficiente costituzionalmente garantita.
L’orientamento prevalente sostiene che la retribuzione sufficiente vada determinata di volta in volta tenendo conto della situazione concreta, con ciò ammettendo la possibilità che il giudice si possa discostare dal parametro del salario minimo del contratto collettivo. E ciò è quanto accade, soprattutto nel Mezzogiorno, dove la giurisprudenza, anche in forza della considerazione del più basso costo della vita rispetto al Centro-Nord, ammette che il salario sufficiente possa essere anche del 20-30 per cento inferiore al salario minimo del contratto collettivo nazionale di riferimento. Pertanto, le retribuzioni minime dei contratti collettivi nazionali di fatto vengono applicate in modo tale da permettere un loro adattamento (al ribasso) a situazioni e contesti dove il costo della vita è inferiore rispetto ad altri luoghi del paese.

Un falso problema per il Mezzogiorno

Semmai, la vera questione è un’altra. Questo meccanismo è senza dubbio tortuoso e espone il datore di lavoro, che non applichi il salario minimo del contratto collettivo nazionale, al rischio di un futuro contenzioso con il lavoratore. Quindi, ben venga l’introduzione di una misura salariale legale che possa costituire un punto fermo e contribuire anche a segnare il confine tra lavoro sommerso e lavoro regolare. Peraltro, non va trascurato che, proprio nelle zone più depresse del paese, è carente la contrattazione di secondo livello che tende a comportare aumenti dei salari fissati dai contratti nazionali.

Sicché, a mio parere, è un falso problema l’idea che la componente salariale risultante dal contratto collettivo nazionale costituisca un ostacolo alle possibilità di sviluppo delle imprese del Mezzogiorno. Ritengo che incidano maggiormente la mancanza di infrastrutture, la carenza di investimenti, l’inefficienza dell’apparato pubblico, insieme al noto effetto di spiazzamento prodotto dai rigidi trattamenti salariali operanti in quest’area, e l’ambiente sociale infestato da diffusi fenomeni criminali e da un ceto politico più che altro propenso a mantenere metodi di acquisizione del consenso basati sui vecchi meccanismi di tipo clientelare.

Come ben detto da Boeri e Perotti, altre devono essere le soluzioni. Sia consentito aggiungere che favorire un maggiore decentramento della contrattazione collettiva può avere un effetto positivo se, rispettata una soglia minima invalicabile, i salari vengono legati più strettamente di ora alla diversa produttività delle singole aziende: che può variare da impresa a impresa anche nello stesso territorio. La decontribuzione fiscale e contributiva dei salari più bassi ridurrebbe il complessivo costo del lavoro e stimolerebbe le imprese a effettuare assunzioni regolari e investimenti.

Periodicamente ritorna, soprattutto nella discussione a livello politico e sindacale, la questione dell’introduzione di un salario minimo legale. A mio parere, tale misura, se opportunamente calibrata, produrrebbe indubbi risultati positivi. Condivisibili sono quindi le osservazioni e gli argomenti di Boeri e Perotti.

Il perché di un’interpretazione

Grazie all’interpretazione giurisprudenziale dell’articolo 36 della Costituzione, i salari minimi fissati dai contratti collettivi nazionali costituiscono il punto di riferimento fondamentale ai fini della determinazione della giusta retribuzione assicurata dalla stessa norma costituzionale.
Pertanto, il lavoratore che dipende da un datore non giuridicamente obbligato ad applicare il contratto collettivo del settore di riferimento, ha comunque la possibilità di rivendicare un salario più o meno vicino a quello stabilito dal medesimo contratto collettivo nazionale.
Non bisogna dimenticare la ragione di questa posizione della giurisprudenza.

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Scontata l’inattuazione dell’articolo 39 Costituzione, e quindi del meccanismo costituzionale di attribuzione dell’efficacia erga omnes ai contratti collettivi nazionali, la giurisprudenza s’è trovata di fronte a rapporti di lavoro in cui i salari venivano determinati a livelli particolarmente bassi, molto lontani dai minimi dei contratti collettivi nazionali dei settori di riferimento.
Questo perché? È facile comprenderlo: senza il contratto nazionale che fissa una soglia minima inderogabile, il lavoratore si trova esposto al soverchiante potere contrattuale del datore di lavoro, che è in grado di imporgli unilateralmente regole e quindi salari di livello bassissimo.

La giurisprudenza ha perciò reagito, sulla base di condivisibili ragioni di giustizia sociale, e da un lato, ha affermato l’immediata precettività dell’articolo 36 della Costituzione che sancisce il diritto del lavoratore a una retribuzione quantomeno sufficiente ad assicurargli un’esistenza libera e dignitosa. Dall’altro, ha utilizzato come parametro, ai fini della determinazione della cosiddetta giusta retribuzione costituzionalmente garantita, i minimi salariali dei contratti collettivi nazionali. Questo in forza del presupposto che attraverso la contrattazione collettiva i lavoratori riconquistano quella libertà contrattuale che non esiste a livello individuale, e sono in grado di ottenere salari più dignitosi.

Ma la giurisprudenza non afferma che il salario minimo del contratto nazionale è di per sé la retribuzione sufficiente costituzionalmente garantita.
L’orientamento prevalente sostiene che la retribuzione sufficiente vada determinata di volta in volta tenendo conto della situazione concreta, con ciò ammettendo la possibilità che il giudice si possa discostare dal parametro del salario minimo del contratto collettivo. E ciò è quanto accade, soprattutto nel Mezzogiorno, dove la giurisprudenza, anche in forza della considerazione del più basso costo della vita rispetto al Centro-Nord, ammette che il salario sufficiente possa essere anche del 20-30 per cento inferiore al salario minimo del contratto collettivo nazionale di riferimento. Pertanto, le retribuzioni minime dei contratti collettivi nazionali di fatto vengono applicate in modo tale da permettere un loro adattamento (al ribasso) a situazioni e contesti dove il costo della vita è inferiore rispetto ad altri luoghi del paese.

Un falso problema per il Mezzogiorno

Semmai, la vera questione è un’altra. Questo meccanismo è senza dubbio tortuoso e espone il datore di lavoro, che non applichi il salario minimo del contratto collettivo nazionale, al rischio di un futuro contenzioso con il lavoratore. Quindi, ben venga l’introduzione di una misura salariale legale che possa costituire un punto fermo e contribuire anche a segnare il confine tra lavoro sommerso e lavoro regolare. Peraltro, non va trascurato che, proprio nelle zone più depresse del paese, è carente la contrattazione di secondo livello che tende a comportare aumenti dei salari fissati dai contratti nazionali.
Sicché, a mio parere, è un falso problema l’idea che la componente salariale risultante dal contratto collettivo nazionale costituisca un ostacolo alle possibilità di sviluppo delle imprese del Mezzogiorno. Ritengo che incidano maggiormente la mancanza di infrastrutture, la carenza di investimenti, l’inefficienza dell’apparato pubblico, insieme al noto effetto di piazzamento prodotto dai rigidi trattamenti salariali operanti in quest’area, e l’ambiente sociale infestato da diffusi fenomeni criminali e da un ceto politico più che altro propenso a mantenere metodi di acquisizione del consenso basati sui vecchi meccanismi di tipo clientelare.

Come ben detto da Boeri e Perotti, altre devono essere le soluzioni. Sia consentito aggiungere che favorire un maggiore decentramento della contrattazione collettiva può avere un effetto positivo se, rispettata una soglia minima invalicabile, i salari vengono legati più strettamente di ora alla diversa produttività delle singole aziende: che può variare da impresa a impresa anche nello stesso territorio. La decontribuzione fiscale e contributiva dei salari più bassi ridurrebbe il complessivo costo del lavoro e stimolerebbe le imprese a effettuare assunzioni regolari e investimenti.

La controreplica di Tito Boeri e Roberto Perotti

Tito Boeri e Roberto Perotti

Ringraziamo Alessandro Bellavista per il suo contributo e il sostegno alla nostra proposta di istituire un salario minimo. E’ vero che in alcuni casi la giurisprudenza ha tenuto conto delle differenza nel costo della vita fra regioni. Tuttavia, a quanto ci è dato sapere, si tratta di sparuti casi e, in ogni caso, perchè si crei più occupazione è importante che il salario rifletta le differenze nella produttività del lavoro che sono spesse più ampie di quelle nel costo della vita.

Perché è giusto introdurre un salario minimo in Italia

Tito Boeri   Roberto Perotti
11 Maggio 2004


Sebbene un istituto di questo tipo esista in quasi tutti i paesi europei, in Italia si è sempre parlato poco del salario minimo, per i motivi ben evidenziati nell’intervento di
Pietro Ichino. Una delle tante lezioni delle recenti vicende di Melfi è che è giunto il momento di parlarne di più.

È importante chiarire lo scopo del salario minimo. A nostro avviso, il salario minimo deve esclusivamente proteggere le categorie più a rischio di emarginazione e sfruttamento e non rappresentate, per le quali l’alternativa sarebbero salari ancora più bassi e ancora meno tutele nel sommerso. Un uso diverso del salario minimo, che interferisca in modo sostanziale con il funzionamento del mercato del lavoro di altre categorie già ben rappresentate, avrebbe effetti deleteri sull’occupazione.

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Compressione salariale e decentramento della contrattazione collettiva

Data questa premessa, partiamo dalla situazione italiana corrente. Come è noto, il mercato del lavoro italiano è caratterizzato da una elevata compressione salariale; per molti economisti, questa è una delle cause principali degli elevati tassi di disoccupazione di certe categorie di lavoratori, che rimangono “priced out” dal mercato del lavoro, e della disoccupazione nel Mezzogiorno. Questa elevata compressione salariale è in parte dovuta alla pratica giurisprudenziale di considerare come riferimento nella determinazione del “salario equo” in caso di contenzioso, proprio il salario più basso stabilito dalla contrattazione collettiva del settore.

In questo contesto, un salario minimo stabilito per legge – ma inferiore al salario minimo implicito nei contratti collettivi – sarebbe il nuovo punto di riferimento obbligato per la giurisprudenza, rimpiazzando il salario minimo implicito nella contrattazione collettiva. I salari di imprese operanti nel medesimo settore, ma in regioni diverse potrebbero così differenziarsi maggiormente in base alle condizioni del mercato del lavoro e ai livelli di produttività, favorendo l’occupazione nelle regioni del Mezzogiorno.

Chiaramente, un salario minimo fissato a un livello troppo alto potrebbe anche avere l’effetto opposto, cioè porre un freno alla dispersione salariale. Per evitare che ciò avvenga, è essenziale fissare il salario minimo a un livello sufficientemente basso, tale da proteggere esclusivamente le categorie più deboli – in generale, anche quelle meno sindacalizzate.
Il salario minimo avrebbe anche l’effetto di incoraggiare il decentramento della contrattazione collettiva, poiché priverebbe quest’ultima della copertura che le viene assicurata da una tradizione giurisprudenziale che interferisce troppo con la libera contrattazione fra le parti a livello di azienda. Il tutto senza dover aspettare la soluzione della disputa sulla corretta interpretazione degli articoli 36 e 39 della Costituzione – una soluzione che molto probabilmente richiederà anni.

Un secondo vantaggio dell’introduzione di un salario minimo sufficientemente basso è che offrirebbe un incentivo in più per uscire dal sommerso – un’azione oggi troppo costosa per molte aziende al livello di salario minimo stabilito dalla giurisprudenza. Misure temporanee per favorire l’emersione si sono rivelate del tutto inefficaci a ridurre le dimensioni dell’economia sommersa nel nostro paese.

Sarebbe utile accompagnare l’introduzione del salario minimo con misure che riducano il prelievo fiscale e contributivo sui lavori pagati ai salari minimi e al di sopra di questi (ad esempio, in Francia gli sgravi si estendono fino ai lavori pagati 1,7 volte i salari minimi). È un modo per ridurre il costo del lavoro e aumentare i salati netti al tempo stesso, incentivando ulteriormente l’emersione del sommerso.

Differenze per età, non per regioni

Come abbiamo accennato, un salario minimo deve essere fissato a un livello basso. Nei paesi dell’Unione europea è generalmente tra il 50 e il 60 per cento del salario orario medio nel settore manifatturiero, mentre negli Stati Uniti è più basso (inferiore al 40 per cento). Bisogna invece resistere alla tentazione politica di stabilire il salario minimo a un livello eccessivo, perché questo porterebbe a esiti occupazionali peggiori degli attuali. È quindi importante fissare il salario minimo avendo presente le condizioni del mercato del lavoro nel Mezzogiorno, ponendolo a un livello tale da renderlo vincolante solo per le categorie più deboli nelle regioni meridionali. Ma sarebbe sbagliato differenziare il salario minimo per regione perché ciò aprirebbe il varco a forme di interferenza politica nel mercato del lavoro difficilmente controllabili.

È, invece, importante differenziare il salario minimo in base all’età, come in Olanda. In Italia la diffusione del lavoro a basso salario è particolarmente elevata fra i lavoratori più giovani; di conseguenza, un salario minimo che protegga i lavoratori anziani più deboli metterebbe fuori mercato i più giovani, condannandoli a una prospettiva di una vita da disoccupati cronici. D’altra parte, il basso salario tra i giovani è in gran parte solo una tappa verso lavori meglio remunerati. È importante che questi bassi salari possano essere pagati anche in impieghi regolari e contratti permanenti, onde evitare che i giovani rimangano segregati nel sommerso o in contratti che offrono meno tutele dal punto di vista previdenziale e assicurativo.

Salario minimo e povertà

Infine, è importante notare che il salario minimo non deve essere usato come surrogato di altri strumenti contro la povertà. Il salario minimo non riesce infatti a discriminare i lavoratori a basso salario di famiglie benestanti.
Per combattere efficacemente la povertà, sono quindi necessari altri strumenti, più mirati, come un reddito minimo garantito e sussidi condizionati all’impiego. (1)
Un salario minimo come quello che proponiamo serve unicamente per contrastare il fenomeno dei “working poor”, di chi è povero mentre ha un lavoro. Questo è un fenomeno crescente nel nostro paese, ma pur sempre marginale nel panorama della nostra povertà; quest’ultima, infatti, colpisce soprattutto chi un lavoro non ce l’ha.



(1)
Tito Boeri, Roberto Perotti “Meno pensioni, più welfare”, Il Mulino, 2003.

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