Dopo il gran rifiuto della Cgil di Epifani alla proposta di dialogo della Confindustria sulla struttura della contrattazione collettiva ripercorriamo le tappe della contrattazione articolata in Italia, dallautunno caldo allaccordo del 1993. Perché se ne può trarre una lezione. Rivendicare come fa la Cgil un maggior peso del contratto nazionale e quindi opporsi alle proposte che tendono a spostare il baricentro della contrattazione dal centro verso la periferia, può comportare il rifiuto di Confindustria di stipulare il contratto nazionale. Questo è già accaduto nei primi anni ’80. All’origine ci fu la tornata dei rinnovi contrattuali dei primi anni Sessanta, che sancì l’inizio della contrattazione articolata: i contratti collettivi nazionali di settore restavano il pilastro portante del sistema, ma contenevano le clausole di rinvio alla contrattazione aziendale per due materie: il premio di produzione e l’inquadramento professionale. E fissavano i relativi criteri vincolanti. Dall’autunno caldo al protocollo Scotti Al termine del decennio, quel sistema di contrattazione articolata venne messo in crisi da un vasto movimento di lotta, in larga parte spontanea, tendente a liberare la contrattazione aziendale dai vincoli nazionali. Nell’“autunno caldo” del 1969 le trattative per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici rimasero bloccate per tre mesi proprio su questo punto; e si sbloccarono soltanto con un “disaccordo tacito” su questo punto – patrocinato dal ministro del Lavoro dell’epoca Carlo Donat Cattin – che sostanzialmente segnava la fine del sistema di articolazione contrattuale. Da quel momento in avanti la contrattazione aziendale sarebbe stata libera di svilupparsi anche al di fuori dell’alveo tracciato dal contratto nazionale, persino rimettendo in discussione le materie da esso già compiutamente regolate. Durante gli anni Settanta le cose andarono proprio così: la contrattazione aziendale, promossa e gestita dai consigli di fabbrica, poté svolgersi al di fuori di qualsiasi coordinamento vincolante con la contrattazione nazionale. Ma i due livelli di negoziazione poterono convivere e sovrapporsi disorganicamente soltanto fino a quando il movimento sindacale ebbe la forza per imporli entrambi alla controparte. Quando, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, la crisi economica incominciò a mordere duramente nel vivo del tessuto produttivo e il movimento sindacale incominciò a perdere colpi, la Confindustria poté porre come condizione per il rinnovo dei contratti collettivi nazionali il ripristino di regole di coordinamento vincolanti per la contrattazione aziendale. Ne seguì per quasi due anni la paralisi della contrattazione collettiva al livello nazionale; alla fine Cgil Cisl e Uil dovettero accettare il ritorno a regole vincolanti sull’articolazione del sistema contrattuale. La crisi del sistema di relazioni sindacali si risolse con il protocollo Scotti del gennaio 1983, che aprì la strada ai rinnovi dei contratti nazionali, ma al prezzo del ripristino del sistema delle clausole di rinvio tra il contratto nazionale e il contratto aziendale. In altre parole: Cgil Cisl e Uil poterono riattivare la contrattazione al livello nazionale soltanto spendendo la “moneta di scambio” di un controllo effettivo sui contenuti della contrattazione aziendale. E, nonostante le divisioni tra loro, le tre confederazioni mostrarono di saper tener fede all’impegno contrattuale: nel corso degli anni Ottanta il nuovo sistema funzionò con un tasso altissimo di effettività. L’accordo del 1993 Il sistema delineato dal protocollo del 1983 venne perfezionato e integrato dieci anni dopo con il protocollo Ciampi del luglio 1993, che stabilì una cadenza biennale della contrattazione nazionale degli standard retributivi minimi, ne fissò il criterio agganciando gli aumenti al “tasso di inflazione programmato” e demandò alla contrattazione aziendale l’adeguamento delle retribuzioni agli incrementi di produttività o redditività delle singole imprese. Debellata l’inflazione, entrata l’Italia nel sistema monetario europeo, gli spazi di una negoziazione dei minimi retributivi al livello nazionale, secondo le regole del protocollo Ciampi, si riducono di molto. E a rincarare la dose si aggiungono le proposte di Confindustria da un lato, di Cisl e Uil dall’altro, tendenti in vario modo a spostare il baricentro della contrattazione dal centro verso la periferia. Da molte parti si osserva che il collegamento alla produttività o alla redditività aziendale di una porzione più ampia della retribuzione potrebbe consentire notevoli incrementi effettivi della retribuzione complessiva distribuita. Da molte parti si osserva, altresì, che consentire una differenziazione regionale di quei minimi potrebbe giovare allo sviluppo del Mezzogiorno, dove peraltro minimi inferiori sarebbero giustificati dal minore costo della vita. Di qui anche la proposta di consentire la deroga ai minimi stabiliti dal contratto nazionale, mediante contratto collettivo regionale o provinciale, in funzione di politiche di sviluppo concertate nella sede decentrata. La Cgil e il contratto nazionale Senonché ridurre lo spazio del contratto nazionale rispetto a quello riservato alla contrattazione periferica significa – per definizione – aumento delle differenze retributive da regione a regione e/o da impresa a impresa; ed è proprio a questa differenziazione che oggi la Cgil si oppone. E non si limita a opporsi, ma sembra spingersi a rivendicare un aumento del peso del contratto nazionale rispetto a quello attribuitogli dal protocollo Ciampi. Dall’ala sinistra della Cgil e in particolare dalla Fiom si chiede, più specificamente, che gli aumenti retributivi contrattati al livello nazionale siano svincolati dal tasso di inflazione programmato, restando inderogabili gli standard minimi. Si invocano, a sostegno di questa linea, le ragioni della solidarietà: si vuole che i comparti più forti di ciascuna categoria possano aiutare i più deboli, in un sistema che riduca al minimo le disuguaglianze. Ma a questa linea d’azione si contrappone un interrogativo: i lavoratori delle regioni più arretrate del paese traggono davvero vantaggio da standard minimi elevati, uguali per tutto il territorio nazionale? Riescono davvero ad accedere a un lavoro regolare rispettoso di quegli standard? Oppure l’effetto di una politica di questo genere è solo di favorire, in quelle regioni, il dilagare del lavoro irregolare?
Più in generale, l’ala sinistra della Cgil chiede che si volti pagina rispetto a una lunga stagione di politica dei redditi; che si volti pagina, in particolare, rispetto ai vincoli posti non solo alla contrattazione nazionale delle retribuzioni, ma anche a quella aziendale, dal protocollo Ciampi del 1993.
Vi sono alcune analogie evidenti tra questa rivendicazione e quella sulla quale divamparono le lotte dell’autunno caldo del 1969. Ma le condizioni attuali di unità e di forza del movimento sindacale sono molto più simili a quelle dei primi anni Ottanta che a quelle della fine degli anni Sessanta. Come nei primi anni Ottanta, anche oggi la Confindustria può rispondere a quella rivendicazione con il rifiuto di stipulare, a quelle condizioni, il contratto nazionale. E a quel punto – piaccia o non piaccia alla Cgil o alla sua ala sinistra – lo spostamento dal centro alla periferia del baricentro del sistema delle relazioni sindacali si verificherebbe nei fatti, senza bisogno di alcun accordo-quadro.
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Stefano Cruciani
A parte la necessità assoluta di mantenere per il Sindacato la funzione etica e politica di garante della giustizia e della tutela dei diritti dei più deboli,innanzi tutto, ora la nuova situazione economica internazionale di crisi globale e profonda, determina l’indispensabilità, anche ai fini della ripresa e della tenuta democratica del nostro Paese e delle altre nazioni europee (nonchè del resto del mondo) di adottare una politica redistributiva ed equa dei redditi, per favorire i meno abbienti e riequilibrare le insostenibili diseguaglianze prodotte dal neoliberismo; sistema ormai visibilmente alle corde.
domenico
Pensa che la nuova struttura contrattuale varata il 15 aprile 2009, e non firmata dalla Cgil, possa essere d’aiuto per arginare l’inflazione? E di conseguenza, pensa che il nuovo IPCA possa essere la nuova risposta ai problemi legati al potere d’acquisto degli stipendi e salari degli italiani? Grazie.