Vincenzo Visco, ex Ministro del Tesoro (2000) e Ministro delle Finanze (1996, 1998 e 1999) in risposta a Roberto Perotti, sostiene che non è corretto affermare che il risanamento italiano tra il 1996 e il 2001 si è basato su un eccesso di tassazione che ha interferito negativamente con l’attività economica. Piuttosto, la finanza pubblica italiana ha trovato un equilibrio fondato su una pressione fiscale pari alla media europea e un livello di spesa primaria al netto degli interessi inferiore alla media europea e sufficiente a finanziare l’eccesso di spesa per interessi. E’ una situazione di rigidità strutturale del bilancio che non consente “distrazioni populiste”. Pena deviazioni sostanziali dai criteri di convergenza.

L’Italia e il risanamento

Di Vincenzo Visco

La politica di bilancio perseguita in Italia negli ultimi anni si presta a una lettura diversa da quella che ne dà Roberto Perotti nel suo articolo su lavoce.info “La macroeconomia di Tremonti”. La mia analisi si differenzia soprattutto per quanto riguarda gli anni Novanta. (1)

La pressione fiscale

Nel 1992, dopo oltre dieci anni di disordine finanziario, l’Italia era stata colpita dalla più grave crisi valutaria e finanziaria dopo il 1949: i rischi di insolvenza erano reali e il governo Amato presentò una manovra correttiva che diede il via al processo di risanamento del bilancio che fu poi proseguito dal governo Ciampi nel 1993. A fine 1996 la situazione risultava migliorata, grazie alla manovra correttiva subito operata dal governo Prodi nel giugno. Tuttavia (vedi Tavola 1), il disavanzo del settore pubblico continuava a superare il 7 per cento e il surplus primario (4,4 per cento) risultava ancora insufficiente rispetto a quanto richiesto dal processo di convergenza; in compenso continuava una lenta discesa del rapporto debito – Pil. Ulteriori informazioni circa le caratteristiche strutturali del risanamento si possono ricavare dalle Tavole 2 e 3 relative alla struttura della spesa pubblica e alla pressione fiscale in Italia negli anni Novanta. Come si può vedere, con l’eccezione del 1992-3 (gli anni della prima grande manovra di risanamento) e del 1997, che presentano picchi nel prelievo tributario, la pressione fiscale si è successivamente stabilizzata ai livelli prevalenti negli anni precedenti, intorno al 42 per cento del Pil.Quindi a livelli coincidenti con la media europea, e inferiori a quelli di non pochi paesi, per esempio della Francia. Non è corretto affermare, come spesso si è fatto, che il risanamento italiano si è basato su un eccesso di tassazione che ha interferito negativamente con l’attività economica. La realtà invece mostra che per gran parte degli anni Settanta e Ottanta il settore pubblico italiano si era illuso di poter finanziare spese crescenti con imposte chiaramente insufficienti (e cioè in disavanzo), per cui fu necessario un recupero di entrate fortemente concentrato in pochi anni su cui ancora si polemizza, ma che comunque si era completato agli inizi degli anni Novanta (vedi Tavole 1 e 3).

Il punto di dissenso

Sulla entità e adeguatezza della pressione fiscale e della spesa pubblica in Italia il dibattito e le polemiche sono continuate per tutti gli anni Ottanta e continuano tuttora. In proposito il punto rilevante di dissenso (spesso implicito) è il seguente: può l’Italia, paese fragile, caratterizzato da piccole e micro imprese, da una classe imprenditoriale provinciale, dall’assenza di una classe di manager professionali, da un capitalismo familiare e non di mercato, da tensioni sociali storiche, e classi dirigenti periodicamente inaffidabili, permettersi un sistema di welfare europeo, mercati concorrenziali, una corporate governance adeguata, un livello di pressione tributaria e di tax compliance soddisfacente? A ben vedere sono proprio le diverse risposte che si possono dare a queste domande che chiariscono e fanno comprendere le divisioni che si manifestarono allora e ancora si manifestano tra euroscettici e fautori della partecipazione all’Unione monetaria; e anche tra visione e programmi del centrosinistra e quelli della coalizione costruita da Silvio Berlusconi. Per fortuna, dal mio punto di vista, l’ingresso in Europa è avvenuto, e si tratta di un evento ragionevolmente irreversibile.

La spesa pubblica

Per quanto riguarda le spese, la Tavola 2 mostra che, rispetto al picco del 1993 (57,6 per cento del Pil), la spesa complessiva si è ridotta nel 2000 di 10,3 punti, liberando quindi massicciamente risorse per il settore privato. Tuttavia, ben 6,5 punti di tale riduzione derivano dalla diminuzione dei tassi di interesse, e solo 3,8 da una riduzione di spesa primaria, derivante soprattutto dalla riduzione del personale della pubblica amministrazione. Per quanto la spesa primaria italiana al netto degli interessi sia sempre stata, e sia ancora oggi, inferiore (di circa 3 punti di Pil) alla media europea, è certo che da questo punto di vista si sarebbe potuto fare di più: soprattutto per quanto riguarda la spesa pensionistica che è rimasta costante negli ultimi anni, ma che, nonostante tre o quattro successivi interventi di riforma, è ancora destinata a crescere nei prossimi decenni. In ogni caso, è chiaro qual’è stato l’equilibrio raggiunto dalla finanza pubblica italiana: una pressione fiscale pari alla media europea, e un livello di spesa primaria al netto degli interessi inferiore alla media europea e sufficiente a finanziare l’eccesso di spesa per interessi che, a (quasi) parità di tassi con gli altri paesi, risulta tuttavia doppia (almeno) di quella dei paesi che presentano uno stock di debito coerente col parametro di riferimento (60 per cento).

Una fragilità intrinseca

Queste considerazioni spiegano da un lato il malessere dei contribuenti che, a fronte di imposte elevate, non ottengono servizi di corrispondente valore. Dall’altro, quali siano le debolezze che permangono per il bilancio e la finanza pubblica italiana: è sufficiente infatti una crescita dei tassi di interesse di mercato per avere ripercussioni negative sul bilancio doppie rispetto agli altri paesi; la rigidità strutturale del bilancio è tale che basta un attimo di disattenzione, o un minimo di lassismo per ritrovarsi con deviazioni sostanziali dai criteri di convergenza. Ciò purtroppo è quanto si è verificato in Italia in questi tre anni di governo di una destra politica sostanzialmente euroscettica e con forti pulsioni populiste. E resta valido quanto già detto nel 2002: la intrinseca fragilità dell’equilibrio della finanza pubblica italiana dovrebbe suggerire la accelerazione dei processi di privatizzazione, il conseguimento di un surplus primario più elevato, il completamento della riforma previdenziale, e vincoli di spesa efficaci per le Regioni e gli enti locali.

* Questo intervento ripropone in sintesi la versione in italiano del testo preparato per il seminario “New Dimensions in Italian Public Policy” European Studies Centre, St Antony’s College, University of Oxford, 18 Oct.-29 Nov. 2002.
Sugli argomenti trattati si veda anche Chiorazzo V. e Spaventa L. Astuzia o virtù? Come accadde che l’Italia fu ammessa all’Unione monetaria, Donzelli (2000) e Onofri P. Un’economia sbloccata, Il Mulino (2001).

 


 

La macroeconomia di Tremonti

Di Roberto Perotti

Che conti pubblici ci lascia Tremonti? Prima di tentare un bilancio, è importante stabilire i fatti.

Le entrate: i condoni, e il resto

Partiamo dalle entrate. Tremonti rischia di venire ricordato per l’uso massiccio di misure una tantum. La tabella 1 mostra il dettaglio delle misure una tantum durante la gestione Tremonti e nei periodi precedenti. (1)
Sono incluse solo le misure che effettivamente contribuiscono a ridurre l’indebitamento netto (2) delle amministrazioni pubbliche (Ap) (3), il dato rilevante sia per i parametri del Patto di stabilità e crescita, sia per gli effetti macroeconomici. In media, le misure una tantum sono valse circa 1,3 punti percentuali del Pil all’anno durante il periodo 2001-2003, contro una media degli anni precedenti di 0,75 punti percentuali.
È importante però distinguere tre tipi di misure una tantum: condoni, anticipazioni di entrate, ed entrate straordinarie e occasionali.
I condoni sono una manifestazione delle famose “tre i”: “immoralità”, “inciviltà”, e “incompetenza”. Hanno svolto egregiamente il compito di fare cassa in fretta; ma il prezzo da pagare (sebbene non quantificabile) è stato altissimo in termini di immagine e di cultura della semi-illegalità (vedi Guerra). La tabella 1 mostra che i condoni sono la vera anomalia della gestione Tremonti: ben l,5 percento del Pil nel 2003: se si escludono i condoni, la gestione Tremonti mostra una media di misure una tantum simile agli anni precedenti.

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Le anticipazioni di entrate sono una cosa diversa. Consistono soprattutto nelle cartolarizzazioni immobiliari, una misura di qualche rilevanza solo nel 2002 quando valse lo 0,5 per cento del Pil. Con questo meccanismo, le Ap cedono degli immobili a una società veicolo, a fronte di una somma che presumibilmente rappresenta il valore atteso ricavabile dalla vendita di questi immobili a privati in futuro. Da un punto di vista macroeconomico, le anticipazioni di entrate rappresentano essenzialmente un cambiamento del profilo temporale delle entrate nette (più alte oggi, più basse domani), senza necessariamente cambiarne il valore atteso. In questo senso, non hanno necessariamente una grande rilevanza macroeconomica, ma sono ovviamente molto utili per soddisfare i vincoli del Patto. Questo in teoria. In pratica, hanno infatti due tipi di costi, anche se difficilmente quantificabili: riducono la trasparenza dei bilanci, e possono comportare un costo implicito maggiore del tasso di interesse che le Ap oggi pagano sul debito pubblico (vedi Pisauro 06-05-2003).

Anche le entrate straordinarie e occasionali (cessioni di immobili, prelievi sostitutivi straordinari, versamenti per le rivalutazioni dei cespiti aziendali) sono state usate in misura limitata (tra lo 0,4 e lo 0,55 del Pil a seconda degli anni), e comparabile a simili occasioni in passato: per esempio, l’Eurotassa del 1997-8 valeva circa l’1 per cento del Pil.
Vi sono però due osservazioni più generali sulle misure una tantum. Primo, alcune delle operazioni che più hanno fatto notizia, come le cartolarizzazioni immobiliari e dei proventi del Lotto del 2001, lo swap del debito e le cartolarizzazioni dei crediti Inpdap e della Cassa depositi e prestiti del 2002, e le cartolarizzazioni dei crediti Inps del 2002 e 2003, hanno inciso sul fabbisogno di cassa e sul debito – e in misura rilevante, circa 2 punti di Pil nel 2002 e 2003; tuttavia, esse non hanno inciso sull’indebitamento netto. (4)

Qualunque sia il giudizio che si dà sulla loro trasparenza e opportunità, è importante quindi tenere presente che i risultati discussi qui non dipendono da queste misure.
Secondo, la vendita di immobili pubblici può essere un’operazione perfettamente legittima e opportuna. È anche tutto sommato comprensibile che, sotto pressione per soddisfare gli impegni del Patto, un ministro delle Finanze cerchi di anticipare introiti futuri. Il vero problema è che le dismissioni e le cartolarizzazioni immobiliari sono state in gran parte virtuali, cioè hanno coinvolto società solo legalmente al di fuori delle Ap, in realtà controllate dal Tesoro. Come spiegano (Pisauro 01-03-2004 e Bayron 12-12-2002), non è ovvio che queste società riusciranno a vendere a privati nei prezzi impliciti nelle cartolarizzazioni.

Le spese: alcuni miti, e la realtà

Consideriamo ora il lato delle spese della gestione Tremonti. Partiamo dal dato aggregato, la spesa primaria (cioè al netto degli interessi). Qui sorgono due difficoltà. La prima è quale anno prendere come punto di partenza: il 2000 o il 2001? Il secondo risente dell’attività di due governi diversi, che si dividono l’anno quasi a metà. Per i motivi che discuto sotto, il 2001 è probabilmente un migliore punto di riferimento. La seconda difficoltà è che i dati ufficiali sulla spesa primaria possono essere fuorvianti, perché per convenzione le spese in conto capitale sono al netto di alcune entrate una tantum, come le vendite e cartolarizzazioni di immobili e i proventi Umts (vedi tabella 1). (5)

Le righe 1 e 2 della tabella 2 presentano l’andamento del rapporto spesa primaria/Pil, sia quello originale sia quello, più significativo, “corretto” escludendo appunto le entrate una tantum portate in detrazione alle spese in conto capitale. La spesa primaria ufficiale del 2003 è più alta di 1,7 punti percentuali del Pil rispetto al 2001 e di 3,4 punti percentuali rispetto al 2000 (che beneficiò dei proventi Umts); per quella corretta, i numeri sono 1,7 e 2,4 punti percentuali.

Due voci di bilancio rappresentano quasi l’85 per cento di tutta la spesa primaria: consumi pubblici (cioè consumi intermedi più remunerazione degli impiegati pubblici, o spesa per il personale) e prestazioni sociali alle famiglie. L’andamento di queste due voci è dunque cruciale per comprendere la dinamica delle spese; fortunatamente, inoltre, i dati su queste due voci sono abbastanza incontroversi, ed esenti da interpretazioni alternative e alchimie contabili.

La spesa per consumi pubblici nel 2003 è aumentata rispetto al 2001 dello 0,5 percento del Pil. Di questi, solo 0,2 punti percentuali sono dovuti all’ aumento della spesa per personale. Ciò sembra contrastare con l’opinione diffusa che la spesa per consumi intermedi e per il personale stesse aumentando fuori controllo, con aumenti nel 2003 rispettivamente del 19,5 per cento e del 9,3 per cento. Il motivo della apparente contraddizione è semplice: questi ultimi dati si riferiscono al settore statale, e sono di cassa; inoltre, omettono il fatto che nel 2002 la spese per consumi intermedi e per il personale del settore statale diminuirono dell’2,4 e dell’1,3 per cento, rispettivamente. Il primo dato si riferisce alle Ap, ed è di competenza.

Come spiegare allora l’aumento considerevole – 1 punto percentuale del Pil – dei consumi pubblici nel 2003 rispetto al 2000? Metà di questo aumento è avvenuto nel 2001, ed è imputabile in gran parte all’aumento della spesa sanitaria (15,9 per cento) e in particolare di quella farmaceutica (32,8 per cento). È difficile attribuire esattamente la responsabilita’ di questo aumento, ma certamente su esso hanno influito pesantemente le misure prese dal governo precedente nella prima parte dell’ anno, quali l’ abolizione del ticket e l’ ampliamento delle prestazioni garantite dal SSN.

La spesa per prestazioni sociali monetarie nel 2003 è aumentata di 0,4 pp rispetto al 2000, e di 0,6 pp rispetto al 2001. L’ aumento è dovuto soprattutto alla spesa pensionistica, in parte a causa delle tendenze demografiche in atto, in parte per misure discrezionali quali l’ aumento delle pensioni minime. È legittimo incolpare Tremonti di parte di questo aumento, ma bisogna allora essere coerenti fino in fondo: molti di coloro che invece accusano questo governo di irresponsabilità fiscale e di tradire il Trattato di Maastricht allo stesso tempo lo accusano di volere attaccare lo stato sociale.

Sono davvero aumentate le spese?

I dati su entrate e spese in relazione al Pil sono però leggermente fuorvianti. È importante ricordare che il ciclo economico (vedi riga 20 della tabella 2) è stato negativo nel 2002-2003 e positivo (almeno per gli standard italiani) nel 1995-2001. Un peggioramento della congiuntura fa aumentare spese ed entrate in rapporto al Pil semplicemente perché fa diminuire il denominatore. Per avere un’idea dell’effetto denominatore sulle spese, le righe dalla 8 alla 13 della tabella mostrano i tassi di crescita in termini reali (valori nominali divisi per il deflattore del Pil) delle voci di spesa analizzate in precedenza. Nel 2002 e 2003, la crescita della spesa primaria corretta e dei consumi pubblici (inclusa la spesa per personale) è stata più bassa che nel biennio precedente.

Peggio del resto d’Europa? Dipende…

Sia per le spese, sia soprattutto per le entrate il ciclo economico impatta anche sul numeratore del rapporto. Un modo per tenerne conto è di esprimere entrate e spese al netto dell’effetto del ciclo economico, ottenendo così dati “cyclically adjusted”. (6)
La riga 17 della tabella 2 mostra che indebitamento netto “cyclically adjusted” calcolato dalla Commissione è addirittura diminuito tra il 2001 e il 2003.
Si può obiettare che ciò è avvenuto per la provvidenziale discesa dei tassi di interesse e per l’uso di misure una tantum, condoni, e artifici contabili. Come indica la riga 7, tra il 2001 e il 2003 la spesa per interessi è diminuita dell1,1 per cento del Pil. Al netto di questa spesa, rimane vero che l’avanzo primario “cyclically adjusted” è rimasto essenzialmente invariato tra il 2001 e il 2003 (riga 18 della tabella 2). (7)

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L’avanzo primario “cyclically adjusted” corretto per le misure una tantum è sceso di 1,5 punti percentuali fra il 2001 e il 2003 (riga 19). (8)
Anche questa diminuzione è simile a quella avvenuta nel periodo 1997-2000.
In conclusione, includendo le misure una tantum, Tremonti ha fatto meglio della media dell’area euro, in cui l’ avanzo primario “cyclically adjusted” è sceso tra il 2001 e il 2003 di 0,4 punti percentuali secondo i calcoli della Commissione. Al netto delle misure una tantum, l’avanzo primario corretto per il ciclo è invece andato peggio della media dell’area euro. (9)
Il giudizio finale, quindi, verte sulla legittimità delle misure una tantum. Come ho detto prima, non tutte sono necessariamente negative; ma il ruolo dei condoni nel salvare il 2003 è rilevante.

….E dei suoi predecessori? Probabilmente no

In ogni caso, non si può disconoscere che è mancata sotto Tremonti una politica di riduzione della spesa primaria. In questo, tuttavia, Tremonti è in ottima compagnia. Dalle righe 1 e 14 della tabella 2, si può notare che neanche nel periodo di massimo sforzo per entrare nell’unione monetaria, tra il 1995 e il 1999, quando l’indebitamento netto delle AP cadde dal 7.6 all’1,7 e il ciclo economico era in larga parte favorevole, vi fu la pur minima riduzione della spesa primaria: tutto l’aggiustamento fiscale fu fatto dal lato delle entrate, e anche in questo caso con ampio ricorso a misure una tantum.

Il debito pubblico: la fantasia al potere

Si afferma frequentemente che la discesa del debito pubblico è rallentata sotto la gestione Tremonti. Anche in questo caso la differenza è spiegabile in gran parte con l’effetto denominatore; ma soprattutto in questo caso, gli artifici contabili hanno contribuito a salvare le apparenze. È infatti sul debito che si è scatenata maggiormente la fantasia del ministero dell’Economia.
Anche in questo caso si possono distinguere due strategie: anticipare entrate, portando i proventi in riduzione del debito, e modificare lo status legale di alcune entità per farle uscire dalla definizione delle Ap. Riguardo alla prima, mentre come abbiamo visto solo una parte delle cartolarizzazioni ha avuto effetti dell’indebitamento netto, tutte hanno avuto effetti sul debito delle Ap, anche in questo caso il dato rilevante per il Patto. Riguardo alla seconda, la “privatizzazione” della Cassa depositi e prestiti è emblematica. Di per sé, questa ha portato una minima riduzione del debito (0,6 miliardi di euro). Tuttavia, una volta privatizzata la Cassa, il governo ha potuto “venderle” 11 miliardi di euro di partecipazioni azionarie, e portare il ricavato in riduzione del debito.

Anche in questo caso bisogna distinguere tra aspetti contabili ed effetti macroeconomici. Per un cittadino, ciò che conta è il debito pubblico totale di tutti gli enti che sono sotto il controllo pubblico: che questi enti siano formalmente società per azioni, o siano invece parte delle Ap, è irrilevante. Allo stesso modo, il fatto che certi proventi siano cartolarizzati – e per di più venduti a enti privati solo di nome, ma in realtà controllati integralmente dal ministero – non cambia il valore atteso delle tasse che il governo prima o poi chiederà per pagare il debito.
È interessante notare come, nella motivazione del downgrading del debito pubblico (http://www2.standardandpoors.com/NASApp/cs/ContentServerpagename=sp/Page/HomePg) annunciata mercoledì 7 luglio, Standard & Poor’s menzioni molto raramente il debito, e si concentri prevalentemente sul disavanzo di bilancio: gli artifici contabili sul debito servono a soddisfare formalmente il Patto, ma non ingannano nessuno.

L’impatto macroeconomico diretto di questi artifici contabili è dunque probabilmente limitato. Ma il loro costo, in termini di immagine e trasparenza, potrebbe rivelarsi alto; e in questo senso il loro impatto macroeconomico indiretto potrebbe non essere trascurabile.

(1) Questi ultimi sono desunti da varie “Relazioni del Governatore della Banca d’Italia”.
(2) L’ indebitamento netto è all’incirca la differenza fra uscite ed entrate di competenza.
(3) Le amministrazioni pubbliche includono il settore statale (cui si riferisce il bilancio dello Stato) ma anche Regioni, province, comuni, enti di previdenza, ed altri enti. I dati delle amministrazioni pubbliche, incluso l’indebitamento netto, sono per competenza, quelli sul settore statale quasi sempre di cassa. Molti equivoci sarebbero stati evitati se i media fossero consapevoli della enorme differenza fra i dati delle amministrazioni pubbliche e quelli del settore statale, e della diversa copertura dei vari documenti economici prodotti durante l’anno.
(4) Nelle intenzioni, le prime due misure dovevano ridurre anche l’indebitamento, ma non sono state accettate da Eurostat.
(5) La tabella 1 mostra che il totale di queste entrate in detrazione di spesa è stato dell’1,3 per cento nel 2000 e dello 0,9 percento nel 2002, e trascurabile nel 2001 e 2003. È importante ricordare che questo non è un trucco contabile di Tremonti, ma una convenzione adottata da tutti i paesi europei e incorporata in tutti i dati ufficiali, inclusi quelli certificati da Eurostat e usati per il calcolo dei parametri del Patto di stabilità e crescita.
(6) L’aggiustamento ciclico dei dati di bilancio non è una semplice operazione contabile, ma comporta dei giudizi soggettivi. Di conseguenza, diverse organizzazioni (Ocse, Commissione europea, Fondo Monetario, Banca d’Italia) possono fornire stime diverse dell’aggiustamento ciclico nello stesso anno.
(7) L’opinione diffusa secondo cui la discesa dei tassi è stata resa possibile dall’adesione alla unione monetaria è inoltre un poco maliziosa. Secondo i calcoli di Lorenzo Codogno, Carlo Favero, e Alessandro Missale (“EMU and government bond spreads”, Economic Policy, October 2003), l’adesione all’euro, eliminando il rischio di cambio, ha diminuito il differenziale con i tassi a lunga tedeschi di circa 300 punti base (3 punti percentuali) – un numero molto alto. Ma dal 2000 in poi, il differenziale con i tassi tedeschi ha sempre fluttuato tra i 20 e i 40 punti base: in altre parole, gli effetti dell’entrata nell’unione monetaria si sono esauriti ben prima della gestione Tremonti. I tassi di mercato italiani ed europei sono in gran parte decisi dalla Fed americana, che tra il maggio 2000 e la fine del 2003 ha ridotto il Federal Fund rate dal 6,5 per cento all’1 per cento.
(8) Questo dato probabilmente sottostima l’effetto negativo dei fattori esterni sull’indebitamento netto. Con la fine del boom di Borsa, tra il 2000 e il 2003 le Ap hanno perso di colpo circa 8 miliardi di euro (circa lo 0,6 percento del Pil del 2001) in imposte legate all’andamento del mercato borsistico. L’aggiustamento ciclico del deficit tiene conto della caduta del tasso di crescita del Pil, ma non della caduta delle quotazioni di Borsa.
(9) In quest’ultimo confronto, non si tiene conto che anche altri paesi europei hanno fatto uso di misure una tantum, seppure in misura minore.

Fonte: righe 1-16: “Relazione del Governatore della Banca d’ Italia”, varie edizioni
righe 17-20: “Public Finance in EMU”, edizione 2004, Bruxelles, Commissione europea
Per gli anni 1995 e 1996, nelle righe 16 e 19 si è assunto che le misure temporanee fossero pari a 0,5 punti percentuali del Pil, ottenuto dividendo in tre parti uguali il dato aggregato di 1,5 punti percentuali per il triennio 1994-96 citato dalla “Relazione del Governatore per l’ Esercizio 1999”, p. 177.

 

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