Una vittoria di Kerry potrebbe modificare la politica estera degli Stati Uniti. Il suo elettorato infatti è molto più disponibile di quello di Bush al ritorno a una politica multilaterale. Ma anche un secondo mandato repubblicano sarebbe meno radicale, dopo la delusione irachena e l’isolamento diplomatico americano. Un riavvicinamento tra le due sponde dell’Atlantico è necessario, dal momento che il mondo non può fare a meno dell’America, e l’America da sola, come dimostra l’Iraq, non può cambiare il mondo.

Le elezioni presidenziali di novembre negli Stati Uniti si prefigurano come un evento decisivo nello scenario internazionale. Anche se sulla politica interna le divisioni tra Democratici e Repubblicani non sono una novità, in politica estera le linee dei due partiti sono sempre state, nell’ultimo cinquantennio, ispirate a una sostanziale bipartisanship. È pertanto atipico che la politica estera americana, e i suoi effetti determinanti per gli assetti globali, sia decisa, come sembra, dall’esito delle urne.

La “rivoluzione” di Bush

Questo è dovuto in parte all’attuale condizione del sistema internazionale, nel quale la minaccia terroristica non ha comportato una polarizzazione tra Stati capace di strutturare i comportamenti, che rimangono pertanto soggetti alle preferenze politiche e ideologiche dei principali attori. Un tipico esempio è la guerra dell’Iraq, che comunque la si pensi non può che essere definita una guerra “di scelta”, e quindi non determinata da pressioni provenienti dal sistema internazionale.
La polarizzazione sui temi di politica estera è però dovuta anche e soprattutto alla “rivoluzione” inaugurata dall’amministrazione Bush, che pone una discontinuità non solo rispetto ai presidenti democratici.
Il tradizionale unilateralismo dei Repubblicani si è infatti storicamente espresso nell’isolazionismo pre-Roosevelt o in una tipica riluttanza a coinvolgimenti esterni dove gli interessi americani non fossero direttamente compromessi. Dwight Eisenhower e Richard Nixon avevano posto fine agli interventi in Corea e Vietnam voluti dalle amministrazioni democratiche di Harry Truman e di John Kennedy-Lyndon Johnson. E persino Ronald Reagan aveva promosso una nuova assertività nella strategia americana con l’utilizzo di forze locali (i Contras in Nicaragua, i Cristiani in Libano, i Mujaheddin in Afghanistan) e risparmiando le truppe Usa. Al contrario, sulla spinta dei Neocons, George W. Bush ha coniato una politica estera sia unilaterale sia volta all’impegno diretto degli Stati Uniti per fini ambiziosi quali la democratizzazione forzata di paesi chiave.
Questa “rivoluzione” ha accentuato l’opposizione alla politica estera americana nel mondo, ma anche negli stessi Stati Uniti, dove John Kerry ha attaccato frontalmente il presidente per aver trascinato l’America in una guerra che l’ha isolata diplomaticamente e che soprattutto ha distratto risorse preziose dalla lotta contro il terrorismo.

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Cosa pensano gli americani (e gli europei)

La polarizzazione su linee partitiche emerge chiaramente dal Transatlantic Trends Survey, un sondaggio estremamente interessante perché condotto simultaneamente su entrambe le sponde dell’Atlantico.
Come spiega, tra gli altri, Pierangelo Isernia, che è il terminale italiano del gruppo di studiosi dietro al Tts, le opinioni degli americani e degli europei sono in generale più simili di quanto non farebbe pensare la frattura transatlantica apertasi negli ultimi due anni. Ad esempio, americani (71 per cento) ed europei (60 per cento) concordano nel ritenere che Europa e Stati Uniti siano abbastanza vicini per poter collaborare alla soluzione dei maggiori problemi internazionali, sull’esistenza dei quali concordano ampiamente.
Al tempo stesso, però, su alcune questioni le opinioni divergono. Ad esempio, il 50 per cento degli europei ritiene che l’Europa dovrebbe avere una maggiore indipendenza dagli Stati Uniti nella politica internazionale, mentre la desiderabilità di una leadership globale americana è in calo in tutti i principali paesi europei.
Le divergenze sono accentuate soprattutto riguardo alla questione dell’uso della forza. Solo il 41 per cento degli europei, a fronte dell’82 per cento degli americani, ritiene che la guerra sia uno strumento necessario per ottenere giustizia, mentre questi ultimi ritengono molto meno importante un coinvolgimento dell’Onu nei principali conflitti internazionali.
Quello che è significativo è che le opinioni complessive negli Stati Uniti sono il risultato di due posizioni molto differenti che ricalcano le divisioni partitiche. Mentre i Democratici hanno una posizione per molti versi simile a quella europea, i Repubblicani mantengono invece una visione marcatamente diversa. I Democratici sono favorevoli a un profilo europeo più alto, non ritengono (81 per cento) che la guerra in Iraq sia valsa la perdita di vite umane e pensano (69 per cento) che abbia aumentato la minaccia terroristica, considerano infine “essenziale” un mandato dell’Onu per futuri interventi militari. Al contrario, i Repubblicani ritengono indesiderabile che l’Europa sviluppi una potenza simile a quella americana, pensano che la guerra in Iraq sia stata giustificata e abbia ridotto la minaccia terroristica (79 per cento e 69 per cento rispettivamente), mentre coloro che giudicano importante il ruolo delle Nazioni Unite sono un’esigua minoranza (26 per cento).

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In conclusione, una vittoria di Kerry potrebbe modificare la politica estera americana non solo perché una nuova amministrazione non deve “salvare la faccia” rispetto all’imbarazzante situazione in Iraq, ma anche perché il suo elettorato è molto più disponibile di quello di Bush Jr. al ritorno a una politica multilaterale. Ciò nonostante, è probabile che anche un eventuale secondo mandato repubblicano sarebbe meno radicale del precedente, dal momento che la delusione irachena e l’isolamento diplomatico americano propendono per una politica più moderata.
Un riavvicinamento della comunità internazionale, e in primo luogo delle due sponde dell’Atlantico, è infatti necessario, dal momento che il mondo non può fare a meno dell’America, e l’America da sola, come dimostra l’Iraq, non può cambiare il mondo.

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