Mercato del lavoro debole negli Stati Uniti negli ultimi tre anni. Secondo alcuni per il trasferimento in paesi a più basso costo di alcune mansioni. Che oggi non sono più solo quelle dell’industria manifatturiera, ma comprendono anche i servizi all’impresa. In realtà la delocalizzzazione ha inciso molto poco sull’andamento dell’occupazione. D’altra parte si tratta di un fenomeno che non si fermerà. Tanto più che come tutto il commercio internazionale, aumenta la produttività dei lavoratori americani e, in aggregato, fa crescere i redditi reali del paese.

Quasi ogni giorno leggiamo di aziende americane che lasciano a casa migliaia di lavoratori statunitensi per trasferire la programmazione, un call center o tutta la funzione “risorse umane” in Cina o India.
Queste notizie portano a stimare in 500mila circa i posti di lavoro nel settore dei servizi all’impresa trasferiti all’estero negli ultimi tre anni. E poiché questi trasferimenti hanno coinciso con la crescita più debole dell’occupazione dalla ripresa successiva alla seconda guerra mondiale, molti osservatori ne hanno tratto la conclusione che la delocalizzazione all’estero “spiega” gran parte del malessere del nostro mercato del lavoro. Tuttavia, l’evidenza empirica suggerisce che la delocalizzazione di mansioni ha inciso molto poco sull’andamento dell’occupazione. L’impatto è, e probabilmente resterà, modesto perché i flussi commerciali e d’investimento che facilitano l’outsourcing all’estero mettono in moto anche forze riequilibratici.

Delocalizzazione e colletti bianchi

Gli elettori americani sono da tempo indifferenti alla delocalizzazione di mansioni nell’industria manifatturiera perché nel frattempo l’occupazione americana si è spostata verso attività basate sulla conoscenza. Se dunque l’outsourcing non è di per sé un fenomeno nuovo, quello che è nuovo (e secondo alcuni, preoccupante) è il fatto che oggi l’outsourcing comprende l’esportazione di lavori qualificati, da “colletti bianchi”.
Storicamente, via via che la produzione di scarpe, videoregistratori e semiconduttori si trasferiva all’estero, gli americani passavano a impieghi “migliori”. Ma ora alcuni dei lavori che prendono il volo verso altri paesi “sono” i lavori migliori – per esempio, nell’ideazione di software, nella microeconomia, nella radiologia – in quelle nuove industrie nelle quali si suppone che gli Stati Uniti abbiano un vantaggio comparato.
Tuttavia, secondo i dati sul commercio, l’impatto reale della delocalizzazione di lavoro è stato finora piuttosto modesto. I servizi all’impresa qui di maggior interesse sono tutti riuniti nella generica voce “altri servizi privati”. Le importazioni americane di “altri servizi privati” da tutti i paesi asiatici in via di sviluppo ammontavano nel 2003 a meno di un decimo dell’1 per cento del Pil degli Stati Uniti. Troppo poco per aver avuto un forte impatto sulla crescita dell’occupazione in Usa.
Inoltre, i flussi di lavoro legati all’outsourcing devono essere visti alla luce dello straordinario dinamismo dell’economia americana, dove ogni settimana un milione di persone perde il lavoro, ma un altro milione lo trova.
Dalla metà degli anni Novanta, il Bureau of labor statistics ha registrato i motivi di tutte le interruzioni del rapporto di lavoro che interessano cinquanta o più lavoratori in un periodo di cinque settimane e che durano più di trenta giorni. Secondo questi dati, importazione competitiva e delocalizzazione di lavoro spiegano appena il 2,4 per cento di tali interruzioni dal 2001 al 2003 (figura 1), la stessa percentuale del 1998-99, gli anni del boom. Anche se triplicassero, le quote attribuite alla importazione competitiva e alla delocalizzazione lascerebbero ancora a vicende interne come la debolezza della domanda di lavoro, il compito di spiegare la quantità dei recenti licenziamenti di massa. (1)

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Le assunzioni da outsourcing

Spostandoci dai grandi licenziamenti all’occupazione totale, nel 2001-2003, i lavoratori americani hanno sperimentato 143 milioni di interruzioni del rapporto di lavoro, comprese 56 milioni di interruzioni involontarie (figura 2). Le interruzioni sono compensate in larga parte dai 141 milioni di assunzioni, ma nei tre anni il risultato netto è stato leggermente negativo. Assumendo (dai dati sui licenziamenti di massa) che la delocalizzazione di lavoro e l’importazione competitiva spieghino il 2,4 per cento di tutti i 56 milioni di licenziamenti avvenuti tra il 2001 e il 2003, l’outsourcing ha comportato 1,3 milioni di licenziamenti nei tre anni. Sono grandi numeri.
Ma l’outsourcing ha significato anche assunzioni. Le imprese indiane stanno “insourcing” negli Stati Uniti, attraverso l’apertura di filiali americane per offrire servizi ai clienti negli Stati Uniti. E i call center indiani acquistano software e apparecchiature di comunicazione americani, così come i loro giovani lavoratori, grazie al nuovo benessere, acquistano dvd americani. Inoltre, le imprese degli Stati Uniti hanno potuto tagliare i costi per hardware, software e altri servizi procurandoseli all’estero e così hanno potuto assumere persone che altrimenti non avrebbero assunto.
Gli analisti non sanno quante assunzioni legate all’outsourcing hanno bilanciato qualcuno fra il milione di licenziamenti causati dall’outsourcing negli ultimi tre anni. Ma è decisamente sbagliato confrontare il milione lordo di licenziamenti dovuto all’outsourcing con la perdita netta di due milioni di posti di lavoro da fine 2000 a fine 2003. Sarebbe come confrontare una mela con una mezza arancia.
L’outsourcing verso una serie di aree a basso costo continuerà certamente. Le aree prescelte si spostano nel tempo perché il commercio mette in moto forze che tendono a eguagliare il costo del lavoro nelle diverse regioni. Con l’incremento della domanda, i programmatori indiani stanno ricevendo notevoli aumenti quest’anno.
Inoltre, mentre i paesi a basso reddito accumulano capitale fisico e umano, la produttività dei loro lavoratori cresce e così i loro salari.
Infine, anche i tassi di cambio possono giocare un ruolo. Nei primi anni Novanta, i capitali affluivano nei paesi del miracolo asiatico facendo salire il loro costo del lavoro in dollari così come i prezzi delle loro attività.
Insomma, le vicende interne sono responsabili in larga parte della recente debolezza del mercato del lavoro negli Stati Uniti. In futuro, l’outsourcing proseguirà, seguendo le variazioni nelle fonti del vantaggio comparato. Ma come tutto il commercio internazionale, l’outsourcing aumenta la produttività dei lavoratori americani e, in aggregato, farà crescere i redditi reali del paese.
Nel frattempo, una politica monetaria accomodante, può favorire il reimpiego degli individui danneggiati dalla delocalizzazione, mettendo a tacere le richieste di protezione.

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(1) A partire dall’inizio del 2004 per tutti i licenziamenti, esclusi quelli stagionali e le ferie, il programma Bls Mass Layoff Statistics chiede se l’interruzione del rapporto di lavoro implica il trasferimento della mansione in altra sede della stessa o altra società. Se è così, il programma chiede anche se la mansione è stata trasferita all’estero. Secondo i primi dati divulgati nel primo trimestre 2004, il 3,5 per cento di tutte le interruzioni, escluse le stagionali e le ferie, implicano un trasferimento all’estero della mansione. Quasi due terzi delle mansioni trasferite all’estero restano all’interno della stessa società. Nonostante questi dati non siano perfettamente comparabili con i dati Mass layoff statistics pre-2004, i risultati sono molto simili: i licenziamenti causati dalla delocalizzazione di lavoro restano una piccola parte della massa totale dei licenziamenti.

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