Il dibattito sui dazi contro le importazioni di prodotti cinesi mostra che in Italia c’è scarsa conoscenza delle norme sul commercio internazionale. Per esempio, non a tutti è chiaro che la competenza legislativa sulla politica commerciale non spetta ai singoli paesi, ma alla Comunità europea. Che a sua volta deve rispettare gli accordi Wto. Anche per questo si fa fatica a capire che tutte le strategie commerciali devono confrontarsi con un sistema internazionale improntato su regole precise e condivise da gran parte degli Stati della comunità internazionale.

I recenti dibattiti sulla proposta di introdurre dazi contro le importazioni di prodotti cinesi hanno mostrato quanta poca conoscenza vi sia, nel mondo politico e negli organi di informazione, delle norme sul commercio internazionale. E come, spesso, le proposte si basino su presupposti completamente errati.

Decide la Comunità europea

Tutte le decisioni in materia di politica commerciale non possono più essere applicate individualmente dall’Italia: il nostro paese, così come tutti gli altri membri della Comunità europea, ha trasferito, in via esclusiva, la competenza legislativa in materia agli organi comunitari. Posto che le decisioni doganali rientrano nella definizione di politica commerciale del trattato istitutivo della Ce, tutte le discussioni e le decisioni in materia spettano alla Commissione, sotto la guida del “Comitato 133”, organo consultivo del Consiglio formato dai rappresentanti degli Stati membri. A sua volta, la Ce non è libera di attuare qualsiasi politica, dovendo rispettare gli accordi Wto in vigore dal 1995. Eventuali misure difensive sono applicabili nei confronti di prodotti “originari di” un determinato paese. L’applicazione di una restrizione all’importazione dei prodotti, pertanto, potrebbe colpire anche quei beni che sono realizzati in Cina da imprese europee che hanno delocalizzato la produzione. È plausibile aspettarsi, in sede comunitaria, l’opposizione di quei paesi i cui imprenditori hanno già spostato gran parte della produzione nel paese asiatico.

Dazi o misure di salvaguardia?

Gli strumenti di protezione consentiti dagli accordi internazionali del Wto e applicabili al caso concreto sono essenzialmente due: i dazi antidumping e le misure di salvaguardia. La protezione attraverso i dazi è meno efficace rispetto a quella attuata con quote di importazione: pertanto alla politica anti-dumping, che può condurre all’istituzione di dazi doganali aggiuntivi rispetto a quelli normalmente applicati, è preferibile l’attivazione delle misure di salvaguardia che, invece, consentono l’applicazione di quote all’importazione. Inoltre, dal punto di vista giuridico, le disposizioni anti-dumping non sono lo strumento più adeguato di protezione contro le importazioni dal paese asiatico. In base alla normativa Wto, questi dazi possono essere applicati al verificarsi di tre circostanze:

– deve esistere il dumping, definito come la differenza fra il prezzo di esportazione di un prodotto e (in generale) il prezzo praticato nel mercato di origine dello stesso (e non il costo)
– deve sussistere un danno rilevante per l’industria nazionale
– bisogna dimostrare che il danno è stato causato esclusivamente dal dumping.

Dalla definizione si evince che la politica anti-dumping non mira a colpire imprese che hanno un vantaggio di costo derivante, per esempio, da una legislazione sociale o ambientale meno rigorosa. Colpisce le decisioni strategiche delle imprese che scelgono di esportare a un prezzo inferiore rispetto a quello praticato sul mercato nazionale, vuole impedire atteggiamenti anticoncorrenziali. Tale situazione vale anche nel caso della Cina, considerata una “non market economy” e pertanto assoggettabile a un particolare regime di rilevazione del prezzo nel mercato di origine basato sul costo di produzione incrementato di un profitto medio nell’ipotesi che il paese sia caratterizzato da un’economia di mercato.

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Una classe imprenditoriale impreparata

La lettura della normativa sulla politica anti-dumping, inoltre, sconfessa gli imprenditori che hanno dichiarato di essere stati abbandonati dallo Stato italiano.
In base alle norme comunitarie, che recepiscono le disposizioni Wto, l’iniziativa che porta lo Stato (la Ce nel nostro caso) a aprire un’inchiesta mirante a stabilire dazi anti-dumping, deve partire dagli imprenditori, che devono rappresentare una determinata percentuale della produzione statale di un determinato bene. Senza iniziativa dei singoli imprenditori, nessuna azione può essere intrapresa automaticamente dalla Commissione Ce, l’organo competente in materia. Ciò mette in luce un altro grave problema: l’assoluta impreparazione del nostro mondo industriale ad affrontare il mercato globale e la mancanza della più basilare conoscenza delle norme internazionali in materia. Pochi si sono evidentemente accorti che l’accordo Wto, in base al quale da gennaio 2005 non è più possibile imporre le quote all’importazione dei tessili e dell’abbigliamento, è stato concluso formalmente il 14 aprile 1994 e che il negoziato – l’Uruguay Round – era iniziato nel 1986. Non solo, dal 1995 l’accordo ha già attuato una liberalizzazione progressiva, per scaglioni.
Il medesimo problema riguarda l’ingresso della Cina nel Wto: è avvenuto alla fine del 2001, ma la richiesta formale di adesione era stata presentata nel 1986. Tutti, nei dibattiti internazionali, sapevano della forza economica del paese asiatico e del fatto che non sarebbe stato possibile tenerlo al di fuori dell’organizzazione del commercio per molto tempo: solo in Italia ci si è accorti di tutto ciò quando oramai il pollaio era vuoto.

Le misure di salvaguardia

Quali soluzioni possono essere adottate? Nel breve periodo si possono attivare gli strumenti previsti dagli accordi Wto e dal protocollo di adesione della Cina all’organizzazione. L’unico a disposizione è rappresentato dalle misure di salvaguardia, regolamentate dal Wto in modo rigido. Tuttavia, in base al protocollo di adesione della Cina, fino al 2008 la Ce può attivarle nei confronti dell’importazione di tessili e abbigliamento cinesi seguendo procedure più elastiche. A differenza dell’anti-dumping, le misure di salvaguardia possono essere attivate direttamente dalla Commissione senza la richiesta di imprese comunitarie, a patto che rivestano un interesse comunitario. Bisogna dimostrare l’esistenza di un notevole incremento delle importazioni di un determinato prodotto, di un danno per l’industria nazionale e del nesso causale: il danno deve essere prodotto esclusivamente dall’incremento delle importazioni e non da altri fattori.
Il vantaggio delle misure di salvaguardia è che consentono l’applicazione anche di quote all’importazione, più efficaci rispetto ai dazi. Si tratta di uno strumento di breve periodo: in base agli accordi Wto sono normalmente temporanee, il protocollo di adesione della Cina ne consente l’applicazione fino a quando non si sia rimediato al danno per le imprese nazionali. L’esempio delle quote imposte nel 2001 dagli Stati Uniti sull’importazione di acciaio dimostra che, sempre nel breve periodo, le misure di salvaguardia possono essere efficaci anche quando sono applicate violando le disposizioni Wto. Uno Stato danneggiato da una misura illegittima applicata da un altro membro del Wto può infatti ricorrere all’apposito organo di soluzione delle controversie dell’organizzazione. Che è strutturato in due gradi di giudizio, e può impiegare anche 15-18 mesi per dare una soluzione. In caso di condanna, lo Stato soccombente non deve risarcire i danni, ma è obbligato semplicemente a eliminare la disposizione illegittima entro un periodo ragionevole dalla decisione del Wto. Gli Stati Uniti abrogarono la misura di salvaguardia solo nel dicembre 2003. Nel frattempo l’industria statunitense aveva goduto per quasi tre anni di un’importante protezione.
In ogni caso, va rilevato che il protocollo di adesione consente alla Cina di reagire a eventuali misure di salvaguardia applicate per più di due o, in alcuni casi tre anni, con contromisure aventi un effetto commerciale equivalente: ciò rappresenta, evidentemente, un monito contro l’imposizione di misure di salvaguardia di medio-lungo periodo.

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Gli standard sociali e ambientali

È bene ricordare che mentre è possibile imporre barriere per bloccare o limitare l’ingresso di prodotti dannosi per la salute dei cittadini e per l’ambiente nel paese importatore, il Wto non dà strumenti per limitare l’importazione di beni e servizi prodotti in nazioni con standard ambientali e sociali inadeguati. È perciò importante che i paesi occidentali ne promuovano l’adozione e il rispetto nelle principali organizzazioni internazionali diverse dal Wto.

Gioca solo la difesa

In questi giorni, si è dibattuto solo di politiche difensive. Pochi hanno, invece, messo in rilievo l’importanza delle politiche offensive: quasi nessuno ha ricordato, ad esempio, che la Cina dal dicembre scorso consente anche a società interamente straniere di distribuire prodotti sul territorio nazionale o che la presenza diretta sul mercato cinese può essere utile per stimolare le autorità dello Stato asiatico a una maggiore lotta nei confronti della contraffazione dei prodotti stranieri. Dal punto di vista giuridico, tuttavia, i problemi sono altri: bisogna che i nostri imprenditori colmino il gap di conoscenza nei confronti delle regole del commercio internazionale che impedisce loro di capire che tutte le strategie commerciali devono confrontarsi con un sistema internazionale improntato su regole precise e condivise da gran parte degli Stati della comunità internazionale.

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