Cambia la visione delle politiche sociali: non necessariamente un “onere” per il sistema economico, ma un ausilio essenziale all’esigenza di conciliare crescita economica e sviluppo sociale. A patto di privilegiare i problemi dell’infanzia e il sostegno ai genitori per coniugare responsabilità famigliari e professionali. Varare misure che facilitino il passaggio dall’assistenza al lavoro. Legare la sostenibilità finanziaria dei sistemi pensionistici a maggiori opportunità di lavoro e partecipazione sociale per gli anziani. Soprattutto in Italia.

I ministri responsabili per le politiche sociali dei paesi Ocse si riuniscono a Parigi il 31 marzo e il 1 aprile 2005. (1)) La riunione e i documenti preparatori sono l’occasione per individuare alcune delle preoccupazioni comuni dei governi dei paesi Ocse in materia di “welfare“. Nel passato recente, le discussioni su questo tema sono state dominate dai timori sugli effetti negativi, veri o presunti, di un livello di spesa sociale eccessiva per la crescita economica e l’occupazione. La riunione di questa settimana segnala un cambiamento di tono: le politiche sociali non sono necessariamente un “onere” per il sistema economico, ma possono rappresentare un ausilio essenziale all’aggiustamento strutturale e all’esigenza di conciliare crescita economica e sviluppo sociale. Per assolvere tale funzione, è però fondamentale che le politiche sociali guardino in avanti, piuttosto che ai modelli del passato, e adeguino obiettivi e interventi alla diversa realtà del mondo d’oggi.

Le politiche sociali attive

In che cosa si traduce tale cambiamento di priorità e interventi? L’Ocse propone il termine di “politiche sociali attive” e tre grandi assi di intervento. Primo, l’attenzione data ai problemi dell’infanzia e all’importanza di conciliare le responsabilità famigliari e professionali dei genitori che lavorano. Secondo, nell’ambito di una strategia complessiva per combattere l’esclusione sociale, l’importanza di misure che facilitino sia il passaggio dall’assistenza sociale al lavoro (welfare-to-work) che il sostegno sociale a chi già lavora (welfare-in-work). Terzo, conciliare la sostenibilità finanziaria dei sistemi pensionistici con maggiori opportunità di lavoro e partecipazione sociale per gli anziani. Si tratta di priorità largamente condivise, e che sono importanti pur con alcune differenze significative anche per l’Italia. Analizziamole con ordine.

La povertà dei bambini

Oltre il 15 per cento dei bambini italiani (con meno di 18 anni) viveva nel 2000 in famiglie il cui reddito netto è inferiore alla metà del reddito mediano: una percentuale ben superiore a quella media dell’Ocse, anche se in riduzione rispetto alla metà degli anni Novanta. Due fattori spiegano tale risultato. Il primo è il contributo limitato delle imposte e dei trasferimenti sociali nel ridurre la povertà delle famiglie con figli, sia rispetto agli altri paesi Ocse sia rispetto alle famiglie senza figli. Il secondo è il basso tasso di occupazione tra le donne con bambini. (Grafico 1)

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Aumentare l’occupazione femminile è cruciale non solo per ridurre il rischio di povertà infantile, ma anche per aumentare la fertilità, il cui livello è in Italia tra i più bassi al mondo. I paesi Ocse con tassi di occupazione femminili più elevati sono anche quelli con fertilità più alta. Un dato che sottolinea l’importanza di un’offerta di servizi di custodia dell’infanzia ampia e di costo abbordabile, di forme di organizzazione del lavoro che offrano ai genitori flessibilità di orario, e di un’organizzazione del sistema educativo (doposcuola, vacanze) più attento alle esigenze dei genitori.

Grafico 1. Relazione tra tassi di povertà tra i bambini e tassi di occupazione delle mamme nei paesi dellOcse

I dati si riferiscono all’anno 2000. Tassi di occupazione per le donne di età tra i 25 e 54 anni con uno o più bambini con meno di 16 anni. I tassi di povertà tra i bambini sono definiti come la proporzione dei bambini (con meno di 18 anni) che vivono in famiglie con reddito netto equivalente (corretto per la dimensione del nucleo famigliare) inferiore alla metà del reddito mediano.

Fonte: OCSE (2005), Extending Opportunities – How Active Social Policies Can benefit Us All, OCSE, Parigi.

L’esclusione sociale

Le differenze tra Italia e altri paesi Ocse sono più significative quando si guardi alle politiche volte a ridurre i rischi di esclusione sociale tra gli adulti. Diversi paesi dell’Ocse hanno introdotto negli ultimi dieci anni riforme finalizzate ad accelerare il passaggio dall’assistenza sociale all’impiego. Riforme, spesso controverse, che combinano una maggior offerta di servizi e formazione all’obbligo , di cooperare agli sforzi finalizzati all’impiego per chi dipende dall’assistenza sociale. Per esempio, partecipando a corsi di formazione o accettando l’offerta di un posto di lavoro “appropriato”, pena sanzioni che possono arrivare alla perdita del sussidio.

In Italia, il tema del welfare-to-work si pone in termini diversi. La ragione è semplice: i programmi di assistenza per la famiglie a rischio di povertà sono ancora marginali e quantitativamente poco significativi: l’Italia è uno dei pochi paesi Ocse senza prestazioni “di ultima istanza” per le famiglie. Esistono certo altre prestazioni assistenziali a livello locale, o programmi nazionali come le pensioni di invalidità. Ma si tratta di strumenti che mal rispondono ai bisogni delle famiglie in condizioni di bisogno. I paesi dell’Ocse con spese sociali (esclusa la sanità e le prestazioni di vecchiaia) più elevate sono anche quelli con minore povertà tra le persone adulte: in Italia, dove tale spesa è inferiore al 5 per cento del Pil, il tasso di povertà tra le persone di età tra i 18 e i 64 anni è prossimo al 12 per cento; in Svezia e Danimarca, con una spesa pari al 12 per cento del Pil, i tassi di povertà tra le persone adulte sono di circa il 4 per cento.

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Le politiche per gli anziani

Limitare l’impatto dell’invecchiamento demografico sui sistemi pensionistici resta una priorità in tutti i paesi dell’Ocse. Con alcune differenze nel caso dell’Italia. Le proiezioni Ocse (peraltro datate) della spesa pubblica pensionistica in percentuale del Pil indicano una sostanziale stabilità in Italia sul periodo 2000-2050, a seguito delle riforme introdotte negli ultimi dodici anni. Esiste certo il problema di accelerare la “transizione” nel mettere in atto tali riforme, per evitare la “gobba” nelle spese prevista intorno al 2030. Ma, al di là degli interventi puramente finanziari, l’analisi dell’Ocse evidenzia due altre priorità. La prima è aumentare il tasso di occupazione delle persone anziane, il cui livello per gli uomini tra i 64 e i 69 anni è circa un terzo di quello medio dell’Ocse. È un obiettivo importante non solo per ridurre la spesa pensionistica, ma anche per evitare che le riduzioni delle prestazioni si traducano domani in un aumento del rischio di povertà tra gli anziani, in particolare tra chi ha avuto carriere discontinue o è rimasto a lungo in lavori poco protetti. Il secondo è rispondere ai bisogni di servizi per gli anziani non autosufficienti. In Italia tali bisogni sono stati tradizionalmente assicurati dalle famiglie, in prevalenza moglie e figlie. L’aumento del tasso di occupazione delle donne nel futuro rischia di metter in crisi questo modello: programmi di spesa e interventi mirati sono necessari per conciliare aumenti dell’occupazione femminile e bisogni degli anziani non autosufficienti.

Le priorità per una riforma del “welfare” in Italia sono chiare, e importanti interventi, in particolare sul sistema pensionistico, sono già stati varati in anni recenti. Resta la parte più difficile: costruire nel paese il consenso necessario per tradurre questo programma in misure concrete.

 

* Economista, Divisione delle Politiche Sociali dell’Ocse.

(1) www.oecd.org/socialmin2005

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