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La direttiva che non svela segreti

Dal 1° luglio le banche e gli altri intermediari finanziari che operano in Italia e in ventuno altri paesi dell’Unione hanno l’obbligo di comunicare periodicamente all’Agenzia delle entrate il pagamento di interessi a favore di persone fisiche residenti in altri Stati membri Ue. Lo impone la direttiva sul risparmio. L’onere di adeguamento delle procedure è pesante. E in cambio ne ricaveremo solo un passaggio di informazioni inutili fra Stati. L’evasione fiscale infatti non ne soffrirà minimamente, perché i “paradisi fiscali” possono continuare a essere tali.

Dal 1° luglio 2005 le banche e gli altri intermediari finanziari operanti in Italia, e in ventuno altri Stati dell’Unione Europea, avranno qualche motivo in più per riflettere su alcuni effetti collaterali derivanti dal difficile processo di integrazione europea.

La direttiva sul risparmio

Da questa data, infatti, scatta per loro l’obbligo di comunicare periodicamente all’Agenzia delle entrate i dati relativi al pagamento di interessi effettuati a favore di persone fisiche residenti in altri Stati membri dell’Unione Europea. Ciò ha comportato (e comporterà) un notevole impiego di risorse per adeguare le procedure e i metodi di rilevazione. L’Agenzia delle entrate invierà le informazioni così ottenute all’amministrazione fiscale del paese di residenza di ogni singolo percettore e riceverà le medesime informazioni da parte di altri ventuno Stati dell’Unione Europea. In tre Stati dell’Unione Europea (Austria, Belgio e Lussemburgo) e in cinque Stati extra Unione Europea  (Svizzera, Liechtenstein, Andorra, San Marino e Principato di Monaco), invece, le banche e gli intermediari locali non effettueranno alcuna comunicazione, ma preleveranno una imposta del 15 per cento sugli interessi pagati a persone fisiche residenti in altri paesi dell’Unione Europea. Il 25 per cento del gettito complessivo di questa imposta sarà trattenuta dall’erario del singolo Stato, mentre il 75 per cento verrà da questo rimesso all’erario del paese di residenza della persona.
Tutto questo per effetto dell’attuazione della cosiddetta “direttiva sul risparmio” (è la numero 2003/48/Ce) approvata definitivamente dal Consiglio il 3 giugno 2003 dopo una gestazione sofferta e prolungatasi per oltre cinque anni e nonostante una strenua battaglia dell’Italia volta a estendere a tutti l’obbligo di scambiare informazioni.
La direttiva sul risparmio vuole, come recita il suo preambolo, “consentire che i redditi da risparmio sotto forma di pagamenti di interessi corrisposti in uno Stato membro a beneficiari effettivi che siano persone fisiche, residenti in altro Stato membro, siano soggetti a un’imposizione effettiva secondo la legislazione nazionale di quest’ultimo Stato membro”. Il fine è condivisibile, ma non è esattamente primario nella politica tributaria comune. Inoltre, è assai dubbio che la strumentazione giuridica prescelta sia in grado di perseguirlo in modo efficace. Per gli intermediari finanziari italiani è invece certo il costo dell’adempimento a obblighi forse inutilmente assunti.
Con ciò non si intende negare che sia opportuno assicurare l’effettiva tassazione dei rendimenti del risparmio. Ma in un paese come il nostro, con la sua modesta aliquota del 12,5 per cento, la preoccupazione non è tanto tassare il rendimento, quanto “tracciare” il capitale che tale rendimento genera. I nostri contribuenti non portano soldi all’estero per non pagare le tasse sugli interessi; né li riporteranno in Italia per pagare il 12,5 per cento invece del 15. I soldi portati all’estero all’insaputa del fisco sono spesso il frutto dell’evasione fiscale (o di altri reati). Poco importa tassare i frutti di quei capitali. Importerebbe molto, invece, conoscere nome e cognome del proprietario e l’ammontare del bottino.

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Il segreto resta tale

Peccato però che questo risultato non sia affatto assicurato dalla direttiva sul risparmio. I paesi tradizionalmente usati per nascondere il frutto dell’evasione fiscale sono quelli che non si sono impegnati a fornire alcuna informazione, ma soltanto a riversare il 75 per cento del gettito complessivo derivante dall’applicazione dell’imposta. Qual che è peggio è che questo sistema è destinato a permanere invariato sine die: la direttiva prevede che Austria, Belgio e Lussemburgo potranno continuare a non trasmettere informazioni sino a quando Svizzera, Liechtenstein, Andorra, San Marino e Principato di Monaco non accetteranno di scambiare informazioni. E non si comprende perché mai la Svizzera dovrebbe accettare di rinunciare al suo segreto bancario.
È vero che la direttiva stessa prevede che, tra sei anni, l’aliquota dell’imposta salga al 35 per cento. Così facendo, si intenderebbe indurre gli Stati che mantengono il segreto bancario a rinunciarvi. Ma non occorre essere tecnicamente attrezzati per capire come l’onere fiscale può essere facilmente aggirato: la direttiva si applica solo agli interessi versati a una persona fisica. Basta intestare il conto ad una società (magari costituita in un altro paradiso fiscale) e il gioco è fatto. Il risultato di tutto questo è che:
(a) gli Stati maggiormente interessati ad avere informazioni continueranno a non averne;
(b) l’evasione fiscale, favorita dal segreto bancario dei paesi che potranno continuare a mantenerlo, non soffrirà minimamente;
(c) chi si attendeva introiti favolosi per le esangui casse erariali rimarrà deluso;
(d) gli intermediari finanziari italiani sopporteranno un pesante onere di adeguamento delle loro procedure e forniranno all’amministrazione finanziaria italiana informazioni che non rivestono per essa alcun interesse;
(e) l’amministrazione trasmetterà queste informazioni a Stati esteri che avranno scarso interesse a riceverle e otterrà, a sua volta, informazioni presumibilmente scarse o irrilevanti;
(f) chi vorrà evitare di farsi notare, si trasferirà in Svizzera o in Lussemburgo, affiancando coloro che già frequentano quelle piazze finanziarie.
L’unica speranza è che il 30 giugno 2006, prima data utile per ricevere il pagamento dell’agognato 75 per cento, uno Stato a caso (poniamo la Svizzera) si trovi a dover riversare all’Italia poche migliaia di franchi. Sarebbe il segnale che il sistema non funziona, a meno di non imputare la scarsità del gettito a un improvviso sgonfiamento delle gestioni off-shore presso le banche elvetiche. La direttiva prevede una clausola di revisione: ogni tre anni la Commissione deve riferire al Consiglio sul funzionamento della direttiva e proporre le modifiche necessarie a garantire in un modo migliore il raggiungimento del fine da essa perseguito. In quella occasione magari si riprenderà a discutere sul serio di segreto bancario. Sempre che le previdenti banche svizzere non decidano di auto-tassarsi per far finta che il sistema funzioni a meraviglia.

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Sommario 27 giugno 2005

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Han detto di noi

  1. alias

    I paesi beneficiari dell’applicazione delle aliquote minori, per un periodo iniziale piuttosto lungo, sono Belgio Austria e Lussemburgo, vuoi per motivi di tradizione, vuoi, probabilmente, per fidelizzare clienti desiderosi di mantenere conti correnti o postali remunerativi e fiscalmente agevolati, e per continuare a godere di una rendita di posizione di sistema sul mercato europeo del credito.
    Se poi i clienti di quei sistemi bancari sono, magari, Eurodeputati, e se tra costoro vi sono, magari, miei (nostri) concittadini, i quali beneficiando dei massimi stipendi mensili (21.000 euro) fra tutti i cittadini dei 15 paesi membri, probabilmente qualcosina risparmiano, allora è un problema di equità morale, oltre che di danno erariale per l’Italia.
    Poichè la classica casalinga italiana (ad esempio, mia madre) paga il 27 per cento (e non il 12,5) di ritenuta fiscale alla fonte sui (bassi) interessi che le frutta un c/c, o un libretto di risparmio postale, mi sembra che la 2003/48/CE sia anche peggio di come la dipinge il dott. Manzitti.

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