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La Cina ha i suoi vantaggi

Confondere vantaggi comparati con vantaggi assoluti è un errore ricorrente nel dibattito italiano. La Cina non può acquisire un vantaggio comparato in tutti i settori. La vera sfida è allora rinforzare quelli dell’Italia, per esempio utilizzando meglio la mano d’opera istruita, trattenendo i migliori scienziati, migliorando le istituzioni e le infrastrutture, liberalizzando i servizi, facilitando la riallocazione delle risorse. E rinunciare a inutili barriere commerciali. Anche perché la Cina è soprattutto un’opportunità. Come altri hanno già capito.

Giovanni Sartori è un illustre politologo. Le sue idee sono spesso importanti e innovative, ed espresse con forza e capacità di persuasione. Per questo, ciò che egli scrive va seguito con attenzione. Ma in un paio di recente articoli sul Corriere della Sera, il professor Sartori ha preso una solenne cantonata. Poiché l’argomento è importante, e il suo errore è ricorrente nel dibattito italiano, è bene smascherarlo al più presto.

Vantaggi comparati e assoluti

Il problema affrontato è la Cina, e in particolare l’incapacità dell’Italia e dell’Europa a reggere la competizione con i cinesi. Sartori parte da un dato di fatto: il costo del lavoro (aggiustato per la produttività) in Cina è molto più basso che da noi, e ciò è destinato a durare. Ma allora, si chiede Sartori, cosa possiamo vendere ai cinesi? Nulla, è la sua risposta: “Se e finché il costo del lavoro in Cina sarà di 10-30 volte inferiore ai costi dei paesi ricchi, allora la legge di Ricardo dei costi comparati richiede che per ripristinare uno scambio che induca i cinesi a comprare in Europa prodotti europei, occorrerebbe che i nostri lavoratori accettino di ridurre da 10 a 30 volte i loro salari”. (1)
E questo non è né giusto né possibile. Sembra un ragionamento impeccabile. Ma, nonostante il richiamo a Ricardo, confonde vantaggi comparati con vantaggi assoluti. Un semplice esempio chiarisce l’errore. Supponiamo che il costo di produrre una maglietta in Cina sia pari a un ventesimo del costo italiano, e che il costo di produrre una lavatrice in Cina sia un decimo del costo italiano. In regime di libero scambio, l’industria cinese si specializzerà in magliette e importerà lavatrici dall’Italia. Ma come, si chiede Sartori, perché mai i cinesi dovrebbero comprare lavatrici dall’Italia, se possono produrle a un costo dieci volte inferiore? Perché per produrre lavatrici, i cinesi dovrebbero rinunciare a produrre magliette; e, dato il loro vantaggio comparato, questo proprio non gli conviene. È molto meglio per i cinesi produrre magliette, e con il ricavato comprarsi le lavatrici italiane.
Questo non vuol dire che tutto vada bene, e che non dobbiamo preoccuparci della Cina. Dobbiamo preoccuparcene eccome. Ma la ragione non è che i cinesi sono pagati molto meno di noi. La ragione è che la Cina sta erodendo un nostro vantaggio comparato. Continuando con l’esempio precedente, una volta compravamo riso dai cinesi, vendendo loro sia magliette che lavatrici. Ora, la Cina ha fatto un salto tecnologico: ha acquisito un vantaggio comparato sulle magliette, lo ha perso sul riso (magari verso un paese terzo che diventa esportatore di riso). L’Italia, che esportava magliette e lavatrici, ha subito un peggioramento delle sue ragioni di scambio. Ora riesce a esportare solo lavatrici, le sue magliette non le compra più nessuno: per l’Italia è una perdita netta di benessere. Sottigliezze inutili, dirà uno scettico. Se oggi la Cina ha eroso il nostro vantaggio comparato sulle magliette, domani lo farà con le lavatrici. Alla fine, il risultato sarà sempre lo stesso, la de-industrializzazione del nostro paese. Ma l’obiezione non regge. La Cina non può acquisire un vantaggio comparato in tutti i settori. Altrimenti, torneremmo a confondere vantaggio comparato e assoluto.

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Un grande mercato in espansione

Vedere il problema in termini di vantaggi comparati aiuta a capire che la Cina non è solo una minaccia, ma anche e soprattutto un’opportunità. Un paese di 1 miliardo e 300 milioni di persone, il cui reddito cresce dell’8 per cento all’anno per qualche decennio, è un gigantesco mercato in espansione. La Cina non importa solo petrolio e materie prime, ma anche beni di consumo e prodotti industriali di ogni genere. Nel 2004 è stato il terzo partner commerciale dell’Unione Europea sul lato delle esportazioni, davanti a Giappone e Russia. Qualcuno ne ha saputo approfittare: le esportazioni della Germania verso la Cina sono triplicate tra il 1999 e il 2003.  Ma per approfittarne anche noi, dobbiamo evitare gli errori. Il protezionismo non è una via d’uscita. Con o senza barriere commerciali, non riusciremo a difendere un vantaggio comparato in settori in cui ciò che conta è solo la quantità di lavoro. Non ci sono riusciti altri ben più agguerriti di noi, come gli Stati Uniti.
Tra il 1997 e il 2001, l’industria tessile e dell’abbigliamento americano ha distrutto più di 180mila posti di lavoro. Dal 2001 al 2004 ne ha persi altri 350mila. Uno studio di McKinsey conclude che entro pochi anni la Cina potrebbero raggiungere il 50 per cento delle esportazioni mondiali nel tessile. Possiamo rallentare questa tendenza, ma non invertirla. La vera sfida è rinforzare i vantaggi comparati in altri settori. Questo vuol dire sfruttare meglio la mano d’opera istruita, trattenere in Italia i nostri migliori scienziati, migliorare le istituzioni e le infrastrutture, liberalizzare i servizi, facilitare la riallocazione delle risorse. Non sono “pannicelli caldi”, come li chiama Sartori. Sono l’unica cosa sensata da fare.
I nostri uomini politici hanno già le idee piuttosto confuse. Cominciano a essere tentati dal protezionismo e dal populismo. Non diamo loro altre scuse per evitare di affrontare le vere sfide economiche del paese.

(1) Corriere della Sera, 27 giugno.

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13 commenti

  1. Pietro Della Casa

    La tesi dei vantaggi comparati è piuttosto suggestiva e certamente rassicurante: dunque esiste per forza un qualche vantaggio comparato che la Cina non può sottrarci. E la dimostrazione di ciò è che in caso contrario il vantaggio comparato si snaturerebbe diventando un vantaggio assoluto… ma questa è una dimostrazione ontologica simile a quella di S. Anselmo! Ricordo perciò l’obiezione fatta ad essa da Kant: definire una cosa non ne dimostra l’esistenza.

  2. vito m.

    grande tabellini!! avevo letto anche io l’editoriale sul corriere, lunedì scorso, e ne ero uscito inorridito, soprattutto dopo aver studiato economia internazionale.
    Uno studente bocconiano riconoscente…

  3. Giancarlo Corò

    Le osservazioni di Tabellini sui vantaggi comparati della Cina, anche se espresse in modo un po’ scolastico, aiutano ad affrontare un tema sul quale il dibattito politico italiano sembra mostrare una totale mancanza di cultura economica e di memoria storica. Una questione che quasi nessuno considera è il processo di redistribuzione a favore dei consumatori delle importazioni a basso prezzo (perciò soprattutto dei cittadini a più basso reddito), nonché l’effetto di selezione dei produttori meno efficienti (che invece di riposizionarsi su nuove attività trovano più facile organizzarsi e chiedere protezioni tariffarie). La questione che, tuttavia, rimane aperta è quali “nuovi” vantaggi comparati l’economia italiana ed europea può ricostruire una volta che un “nuovo” attore economico e commerciale come la Cina entra in scena. In tale prospettiva, mi permetto di segnalare due aspetti che la teoria tradizionale dei vantaggi comparati non consente di cogliere e che richiamano la possibilità di una “specializzazione verticale”. Il primo aspetto si riferisce alla differenziazione qualitativa dei prodotti: non ha alcun senso confrontare sullo stesso mercato beni con prezzi (ed elasticità al prezzo) così diversi quali possono essere le t-shirt cinesi e le giacche di Armani: è inutile pensare di produrre t-shirt in Italia ma sarebbe sbagliato ritenere che anche la creazione delle giacche di Armani (o i vestiti di Valentino, i jeans della Diesel, le scarpe Tod’s, ecc.) non debba più avere base nel nostro Paese: anzi, proprio la natura di beni di lusso, perciò con elevata elasticità al reddito, dovrebbe rendere il mercato cinese tra i più promettenti in futuro per l’export di questi beni. Il secondo aspetto riguarda l’integrazione produttiva internazionale, in particolare in quei settori, come la moda o la meccanica, nei quali è possibile la frammentazione tecnica dei processi: la delocalizzazione delle funzioni a maggiore intensità di “lavoro sostituibile” diventa, in questa prospettiva, una scelta di efficienza per le imprese, allo stesso modo dell’introduzione di un’innovazione di processo. La Cina, con il suo enorme potenziale di manodopera a basso costo, può allora favorire la crescita e il rafforzamento competitivo delle imprese anche nei settori tradizionali, purché queste sappiano sviluppare nella base domestica nuove funzioni creative, tecnologiche e di servizio (finanza, logistica, distribuzione). In definitiva, una strategia di politica economica internazionale di tipo protezionista nei confronti della Cina è sbagliata e controproducente. Ma se non si riesce a ricostruire in fretta un rapporto di complementarietà economica, gestendo con intelligenza i processi di ri-aggiustamento, diventerà sempre più concreto il rischio che il populismo leghista (e quello non meno insidioso di sinistra) prenda il sopravvento, sacrificando al protezionismo una straordinaria opportunità di rilanciare la crescita dell’economia italiana.

  4. alessandro molinaroli

    Pur apprezzando la fine distinzione tra vantaggi comparati relativi e assoluti rimane il fatto che la Cina non rinuncia a produrre lavatrici per esportare magliette. Produce sia le une che le altre dato l’enorme esercito di riserva (lavorativa) di cui dispone.
    Bene l’osservazione circa le esportazioni germaniche: si tratta peraltro di un effimero successo come dimostra il crollo di VW sul mercato cinese. C’è una asimmetria di tempi: la Cina è qui ed ora, noi forse saremo, domani. E nel frattempo! Chi può rinunci alle lusinghe del prezzo e compri made in Italy. Agli altri suggerisco di comperare Made in Turkey: un grande Paese, che adora i prodotti e le tecnologie italiane (FIAT e Pirelli docet). Con loro ci si può metter d’accordo, con i cinesi no, lo dice anche Alain Minc

  5. mariti paolo

    Ci voleva questa messa a punto. D’accordo anche sulle indicazioni: utilizzare “…meglio la mano d’opera istruita, trattenere in Italia i nostri migliori scienziati, migliorare le istituzioni e le infrastrutture, liberalizzare i servizi, facilitare la riallocazione delle risorse”. NON si tratta di “pannicelli caldi”. Direi, anzi, il contrario.
    Occorre aggiungere che ciò vale, però, nel tempo più protratto o più lungo . Nel breve periodo, paesi la cui dotazione di fattori produttivi sia piuttosto simile a quella della Cina, con molteplici specializzazioni in attività manifatturiere a basso rapporto capitale (anche umano)/lavoro e che con essa competano abbastanza direttamente sui mercati mondiali, possono subire significative perdite di benessere e distruzione di ricchezza, considerata la dimensione “economica” di quel paese .
    Ritengo che qui, come in generale, non si possano trascurare gli orizzonti temporali sui quali collocare analisi diverse e le relative diverse linee d’azione. E’ in atto una erosione dei nostri vantaggi comparati. Del tutto corretto. Occorre aggiungere che avviene attualmente a RITMI che possono rivelarsi davvero perigliosi per una economia tutto sommato medio-piccola come la nostra. Alle direzioni di azione sopraindicate occorre aggiungere azioni che mirino a contenere il tasso di erosione entro limiti accettabili dal punto di vista della sostenibilità sociale e, da ultimo, politica in senso lato: per facilitare la riallocazione delle risorse, si affianchino e si intraprendano, quanto meno e subito, azioni che agevolino la mobilità spaziale ed intersettoriale delle risorse, il riassorbimento della mano d’opera più qualificata, attraverso investimenti nella sua eventuale riqualificazione, ed ammortizzatori sociali per quella meno qualificata. Inoltre, si sa bene che nel lungo periodo quei paesi subiranno spinte ad adeguarsi a norme di diritto del lavoro, previdenziale, sanitario, di sicurezza, di rispetto dell’ambiente ecc. più esigenti e stringenti e costosi per le imprese. Una proposta di agire per una accelerazione in questa direzione sarebbe, come dire?, donchisciottesca. E’ quanto meno doveroso però far rispettare alle ormai numerosissime imprese costituite in Italia – in particolare in certe aree- da cinesi od altre nazionalità tutte le norme vigenti in QUESTO paese.
    Dal lato delle produzioni o dell’offerta non credo proprio che basti incentivare le imprese, il che significa gli imprenditori, ad integrarsi. Questo sì che è un “pannicello caldo”. Tali incentivi tendono tipicamente ad essere utilizzati da molte imprese – quelle per intenderci formate non da imprenditori, ma da “impresari”, mercatanti, affaristi – con integrazioni formali, a valenza giuridica (tanto per incassare), ma con scarsa efficacia sul piano economico-produttivo-innovativo e soprattutto sulla capacità di riallocare le idee e le risorse in altri e diversi e nuovi mercati. Non si tratta di “cambiare testa”, come qualcuno (insolentemente) pur sostiene e scrive, o di “gonfiarsi” per integrazione, come la rana davanti al bove, ma di cambiare settore, prodotti, servizi, organizzazione, comportamenti commerciali….e consulenti.

  6. Massimo Portolani

    Egregio Professor Tabellini, il suo articolo offre un punto di vista senz’altro condivisibile e mi permetto di inviare questo commento per alimentare il dibattito….
    Un paragone fra Italia e Cina é una cosa, a parer mio, ben diversa. Peraltro oggi gran parte dela concorrenza cinese viene alimentata da investimenti stranieri, contrariamente a quanto Ricardo auspicava.
    A mio parere, occorre vedere il problema anche in termini di potenza e non solo economici. Paul Krugman,
    finora sempre favorevole al libero scambio, ha recentemente scritto un articolo sul New York Times (The China Challenge) in cui suggerisce al governo USA di bloccare il tentato acquisto di Unocal da parte cinese.
    Non mi pare che gli USA stiano a guardare e a fare valutazioni di sola efficienza economica.
    Mi perdoni ma c’é una cosa che mi lascia perplesso nei ragionamenti per cui dobbiamo fare altro e lasciar distruggere l’esistente, in quanto non competitivo:

    1- Per fare altro ci vuole tempo e nel frattempo le persone devono comunque vivere. I dazi penso possano servire a guadagnare tempo

    2- Il fatto che arrivi un qualcosa in cui siamo più bravi é un auspicio, niente di più. Magari il turismo, in quello abbiamo un vantaggio innegabile.

    3- Certo potremmo vendere vino ai cinesi come i portoghesi agli inglesi. Però lei concorderà con me che un conto é produrre vino e un conto é produrre computer o missili. E del resto abbiamo sotto gli occhi quello che é accaduto in seguito a quegli accordi a Portogallo e Inghilterra in termini di potenza e benessere. Friedrich List ha scritto molte cose interessanti in proposito.
    Proprio l’aver agevolato l’importazione di vino portoghese, purché il Portogallo facesse lo stesso con il tessuto inglese, ha portato alla rovina l’industria tessile portoghese.

    4- Un sistema industriale una volta distrutto (e si fa presto) non si ricostruisce o non si riconverte in poco tempo, ammesso che ci si riesca.

    Per questi motivi, che solo in parte sono economici, mi sento di non essere totalmente ostile ad un rallentamento della distruzione della nostra impresa. Che poi la stiamo distruggendo da soli con direttive europee come la Rohs/weee é un dato di fatto, per il quale i cinesi non hanno colpa. La ringrazio per l’attenzione e spero di aver contribuito al dibattito.

    Massimo Portolani

    • La redazione

      Grazie per i commenti. Due osservazioni. a) La fine del regime di quote cinesi sulle fibre era stato negoziato 10 anni fa. Non possiamo dire che è una sorpresa. Di quanto tempo ancora abbiamo bisogno per preparaci?
      b) Krugman è contrario ad un investimento cinese fatto negli USA. E lo è per via dell’importanza stategica di UNocal. Ma questa è cosa diversa da un timore di un eccesso di investimenti americani in Cina.

  7. matteo gomellini

    Caro Prof. Tabellini,
    ritengo che l’indutria cinese oggi abbia un vantaggio comparato nella produzione sia di magliette sia di lavatrici. La questione centrale é secondo me il mutamento strutturale dell’economia italiana verso una composizione della produzione piú orientata ai servizi, all’utilizzo di lavoro qualificato, alla produzione di beni a maggior contenuto di tecnologia, a una competitivitá basata sull’innovazione, come lei dice alla fine del suo articolo. Purtroppo, nonostante le ricette ci siano, la loro attuazione sembra assai lontana. E’ su questo che si deve cominciare ad aprire un serio dibattito. Non piú su cosa fare. Ma su come farlo.
    Con stima,
    m. gomellini

  8. Michele B.

    Buongiorno professore, sono un suo quasi ex-studente.
    volevo fare una domanda riguardo ai vantaggi comparati.
    Forse mi sbaglio ma qui si parla di Cina la quale basa tutto il suo vantaggio in minori costi da lavoro.
    Perciò non riguarda un settore (magliette)(migliori materie prime, migliore immagine, style o altro) ma riguardo l’intero tessuto economico.
    Visto che la variabile lavoro la troviamo in ogni settore penso che, nei settori dove questo è un fattore preponderante nella produzione, vi sarà un vantaggio comparato. vero no? e perciò se fosse vera la mia affermazione (cosa poco probabile ma vorrei sapere perchè) non potremo parlare di vantaggio “quasi-assoluto” riferendoci con quel quasi a quei settori labour intensive? e perciò anche alle lavatrici sempre che queste siano labour intensive? anche perchè il vantaggio comparato si può sfruttare finchè dall’altra parte c’è domanda per quei beni e non penso che se tutti i cinesi si mettessero per assurdo a produrre magliette l’offerta generata verrebbe riassorbita dalla seppur alta domanda mondiale visto che i cinesi sono 1/5 della popolazione mondiale. In questo caso perciò il vantaggio comparato sarebbe limitato dalla domanda e i cinesi dovrebbero spostarsi a produrre pure lavatrici per sfruttare il secondo settore dove hanno vantaggi comparati. E’ un ragionamento che non fila?? Grazie mille

    • La redazione

      Il vantaggio comparato della cina è presente nei settori ad alta intensità di lavoro poco qualificato. Se i cinesi sono tanti, anche la loro domanda (e non solo la loro offerta) sarà grande, e una parte di questa sarà soddisfatta con importazioni (nei settori ad alta intensità di capitale
      fisico o umano).

  9. Carlo Massimi

    In effetti l’analisi del prof. Sartori presenta una debolezza di fondo. Ipotizzando anche che la Cina fosse più competitiva di noi in tutte le produzioni, per esportare i suoi prodotti essa dovrà comunque accettare in cambio qualcosa.
    Questo qualcosa sarà costituito in gran parte da altre merci, e quindi a fronte dell’aumento delle esportazioni cinesi ci sarà un aumento delle importazioni. A questo punto, come insegnano Ricardo e il prof. Tabellini, quali prodotti verranno importati e quali esportati dipenderà dai vantaggi comparati. Del resto già oggi le esportazioni cinesi sono coperte in gran parte da importazioni e l’avanzo della Bilancia delle Partirte Correnti cinese è solo una piccola quota del valore delle esportazioni.
    Per quanto riguarda questo avanzo, che nelle paure del prof. Sartori sarebbe destinato a crescere mano a mano che i cinesi estendono la loro produzione ad altri prodotti grazie al costo del lavoro più basso, esso è e sarà pagato con valuta straniera.
    Ora, la Cina potrà decidere di utilizzare questa valuta straniera per accrescere le proprie riserve (come in parte ha fatto finora), o per finanziare investimenti all’estero. Nel primo caso non potremmo certo lamentarci, in pratica otterremmo merci in cambio di carta (è il meccanismo attraverso il quale si finanzia buona parte del deficit commerciale statunitense). Nel secondo caso, vorrebbe dire che a fronte dell’aumento delle esportazioni cinesi avremo un boom degli investimenti esteri cinesi.
    In conclusione, non è pensabile che nei prossimi decenni la Cina diventi l’unico paese produttore di merci distruggendo i sistemi produttivi degli altri paesi, come sembra temere Sartori. Infatti, la Cina avrà interesse ad esportare i suoi prodotti, solo nella misura in cui potrà ottenere in cambio qualcosa che ha convenienza ad importare piuttosto cha a prodursi in casa. Non c’è dubbio che rispetto ai paesi occidentali questi prodotti saranno quelli a maggiore intensità di capitale, tecnologia e manodopera specializzata.

  10. alias

    Gli effetti del boom di esportazioni Cinesi si dovrebbero misurare anche attraverso i risparmi dei consumatori italiani, quando comprano scarpe e borse e tessili a basso prezzo, come dice il professor Corò; indirettamente, poi, c’è un legame fra l’attivo commerciale cinese, e l’aumento degli investimenti cinesi diretti all’estero, che potranno esser di natura cartacea (titoli di stato Usa), o, più concretamente, case appartamenti negozi in Italia. Con tutti i problemi di modificare alla radice la struttura urbana delle nostre città (Esquilino ecc.), questo fenomeno ha avuto risvolti positivi per molti negozianti italiani, che han potuto chiudere baracca e vendere in blocco, non potendo più vendersi la licenza, e non volendo più lavorare in tarda età, senza ricambio generazionale.
    Da un certo punto di vista, quindi, la penetrazione commerciale cinese è compatibile con accumulo di attività (finanziarie e reali) da parte della Cina nei confronti del resto del mondo, anche senza che vi sia un aumento speculare delle esportazioni di merci dal resto del mondo, in particolare dall’Italia. Bisognerebbe allora internalizzare i cinesi nell’economia italiana (come già si fa a Prato, e in misura diversa in altri distretti; ma forse si dovrebbe puntare anche ad internalizzare scienziati e ricercatori cinesi di alto livello).

  11. Francesco

    La teoria dei vantaggi (o dei costi) comparati non mi ha mai attratto più di tanto, perché anche se elegante dal punto di vista formale la trovo poco utile nel caso in cui non siamo di fronte a piccoli paesi. -Innanzitutto, a ben vedere, si tratta di una teoria normativa e non positiva, quindi nessuno ci garantisce che i suoi risultati si ripetano nella realtà. -Secondo, la teoria presuppone il pieno impiego ( non solo di lavoro, ma di tutti i fattori di produzione ); affinché uno stato con vantaggio assoluto abbia un vantaggio relativo reale ad importare è necessario che debba distogliere risorse da una produzione ad un’altra. Altrimenti ci potrebbe essere un vantaggio ad utilizzare questi fattori “dormienti” nella nuova produzione. -Terzo, la teoria assume che le domande rimangano inalterate e presuppone la presenza di imposte “lump-sum”. In H-O si assume addirittura che le tecnologie utilizzate siano le stesse in entrambi i paesi. Al limite, se vogliamo utilizzare un modello economico, usiamo quelli di NTT, che almeno hanno il merito di descrivere la realtà e non fare castelli in aria.

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