In Italia e in Europa le l’idea di incoraggiare la ricerca e l’innovazione è ormai diventata un luogo comune del dibattito politico. MA non c’è identità di vedute su come fare. Proprio in questi giorni (luglio 2005), ad esempio, in Europa si discute di politiche per la brevettabilità del software e, più in generale, della tutela dei diritti di proprietà intellettuale.
Gli articoli in questa monografia trattano di questi temi offrendo punti di vista anche differenziati sulle politiche da adottare e – comunque – tanti spunti per riflettere.

 

Il software è un’opera dell’ingegno, tutelata dal diritto d’autore. Non serve permetterne la brevettazione, come si chiede ora anche in Europa sull’esempio americano. Intanto, il brevetto è uno strumento sempre meno utile a incentivare l’innovazione. Nel caso del sofware non accelera il processo di diffusione delle conoscenze né ci sono da ripagare ingenti investimenti iniziali. Infatti, vi si affidano soprattutto le imprese più grandi e meno innovative, spesso con l’intento di bloccare le invenzioni altrui, più che di proteggere le proprie.

Perché il software non ha bisogno del brevetto

 

Raimondello Orsini e Massimo Portolani


Il software è un’opera dell’ingegno, tutelata dal diritto d’autore (copyright). Viene inoltre commercializzato con un nome o marchio depositato: oggi quindi un’impresa che sviluppa software è già protetta dal diritto d’autore e dalla legge sui marchi industriali. Negli Usa, a partire dalla fine degli anni Ottanta, si è ritenuto di permettere anche la brevettazione del software: proteggere quindi non più solo il programma (la forma nella quale è scritto), ma anche la funzione che assolve. L’Europa si sta interrogando sull’opportunità di seguire gli Usa su questa strada. Tra i motivi che inducono a rispondere negativamente si intrecciano sia ragioni generali che rendono il brevetto in sé uno strumento sempre meno utile a incentivare l’innovazione, sia ragioni specifiche che rendono il software inadatto al brevetto.

Le ragioni del brevetto

La concessione del brevetto è finalizzata a incentivare l’innovazione, che viene remunerata dai profitti monopolistici, e ad accelerare il processo di diffusione delle conoscenze, tramite il disvelamento, o “rivelazione dell’insegnamento inventivo” contestuale al deposito del brevetto.
Entrambe queste motivazioni sociali sembrano mancare nel caso del software. L’equazione “maggiore protezione uguale maggiore incentivo a innovare” solitamente non vale se le innovazioni hanno natura sequenziale (ovvero si appoggiano su innovazioni precedenti, avendo carattere complementare o incrementale): ampliare la protezione può avere un effetto deterrente superiore all’effetto incentivante (si incentiva il primo innovatore, ma si disincentivano i potenziali innovatori successivi). Riguardo al disvelamento, la brevettazione del software così come intesa negli Usa permette all’innovatore di depositare il software senza svelarne il codice sorgente. È quindi scarso il beneficio che la società riceve come corrispettivo alla concessione del monopolio. Il brevetto ricompensa chi ha ottenuto l’innovazione impiegando ingenti risorse in un progetto complesso e rischioso, investimenti che necessitano di anni di protezione monopolistica per essere recuperati (per esempio, nel settore farmaceutico). Lo sviluppo di soluzioni software non ha questi requisiti. Risolvere un problema con un algoritmo richiede delle valutazioni astratte e capacità creativa, non investimenti. Anche per questo è stato finora escluso dalla brevettabilità, come gli algoritmi matematici. Inoltre, la complessità dell’oggetto software è tale da non consentire un facile giudizio sia in sede di deposito del brevetto, sia in caso di contenzioso: difficilissimo accertare i requisiti di novità e non ovvietà, necessari perché il brevetto sia valido. Negli Usa, visto che l’Uspto si finanzia con le tasse di deposito, il brevetto viene concesso praticamente sempre, e la sua validità viene valutata in tribunale, dove il detentore si ritiene autorizzato a trascinare coloro che considera illegali imitatori. L’esplosione della litigiosità brevettuale – che non riguarda solo il software – costituisce un problema economico rilevante: le risorse spese nel deposito di brevetti inutili e nelle cause legali da questi generate sono spese di rent-seeking che non creano alcun valore per la società. Uno spreco di risorse di cui beneficiano solo gli studi tecnico-legali. (1)

A chi è utile

La natura burocratica e costosa dell’attività di brevettazione fa sì che a essa si affidino soprattutto le imprese più grandi e – paradossalmente – meno innovative, spesso con l’intento non di proteggere le proprie invenzioni, ma di bloccare quelle altrui. La possibilità di essere trascinati in costose cause legali è in grado di scoraggiare sia le numerose piccole imprese che operano in ambito proprietario, sia la miriade di operatori che collaborano al circolo virtuoso dei progetti Open Source. L’incertezza, i lunghi tempi dei processi e l’impegno finanziario sono un’arma nelle mani delle grandi imprese detentrici di brevetti (validi o no), per indurre altre imprese ad accettare accordi extragiudiziali che possono anche implicare restrizioni della concorrenza. La legislazione sul diritto di proprietà intellettuale deve essere chiara e ridurre le incertezze. La concessione di brevetti dalla validità opinabile non va evidentemente in questa direzione.
In Europa ci sono poche grandi case di software che non siano distributrici o sussidiarie di grandi imprese americane. Queste non aspettano altro che l’estensione dei propri brevetti ai paesi europei. A desiderare un esito simile, possono essere solo la potente lobby degli avvocati o i funzionari dell’European Patent Office (Epo), i quali hanno pensato bene di organizzare, il 30 marzo 2005, un Information Day presso il Parlamento europeo.
http://events.european-patent-office.org/2005/0330/ Tra le motivazioni della “urgenza” della brevettabilità del software ve ne è una davvero singolare: il Parlamento europeo deve legiferare in proposito, perché ormai l’Epo ha già concesso più di 30mila brevetti in ambito software (in palese violazione della normativa vigente: “la prassi ha ormai scavalcato i vincoli normativi”). Resta da vedere se il Parlamento è ancora sovrano, o deve limitarsi a recepire le pressioni dei lobbisti avvallandone i comportamenti mediante modifiche legislative che ne sanino gli abusi.

Per saperne di più

Sul ruolo controproducente dei brevetti, si veda J. Bessen- E. Maskin (2000), “Sequential innovation, patents, and imitation”, Working Paper del Mit: http://www.researchoninnovation.org/patent.pdf .

(1) Per rendersi conto direttamente dell’esplosione del numero dei brevetti depositati negli Usa senza avere i requisiti di novità e non ovvietà, si può consultare il sito ufficiale Uspto: http://patft.uspto.gov/netahtml/search-adv.htm facendo una ricerca con parole chiave come “computer” o “internet”.

L’Europa potrebbe risolvere la diatriba tra fautori e critici della brevettabilità del software istituzionalizzando la Generalized Public License. E’ il contratto principe dell’open source e impone a chi migliora un programma open di mettere a disposizione il codice sorgente dei nuovi apporti. E’ anche facilmente applicabile ad altri contesti. Questa soluzione stimolerebbe la concorrenza tra i due sistemi: chi inventa potrebbe scegliere tra brevettare o mettere le proprie innovazioni in campo aperto.

Licenza d’innovare

 

Alfonso Gambardella

Il 7 marzo, il Consiglio sulla competitività della Commissione europea ha rimandato al Parlamento il testo della “direttiva sulla brevettabilità del software“. È l’atto più recente di una diatriba che va avanti dal 2002, da quando Commissione e Parlamento si rimpallano il documento a suon di emendamenti in cui la prima amplia ciò che può essere brevettato come software e il secondo lo restringe.

Chi brevetta. E chi no

Per entrare nel merito della disputa, possiamo valutare l’esperienza degli Stati Uniti, che hanno avviato la brevettazione “forte” sin dai primi anni Ottanta.
I problemi sono la crescita dei brevetti mirati non tanto a proteggere le proprie invenzioni quanto a bloccare quelle degli altri e il grande aumento delle citazioni in giudizio su questioni brevettuali. D’altra parte, brevetti più forti non sembrano aver scoraggiato le piccole-medie imprese high-tech. Sam Kortum e Joshua Lerner mostrano che nella seconda metà degli anni Ottanta, la quota di imprese che non avevano brevettato nel quinquennio precedente è aumentata rispetto alla seconda metà degli anni Settanta. Brownyn Hall e Rosemarie Ziedonis documentano entrambi gli effetti nei semiconduttori. E mostrano che l’effetto dell’aumento della litigiosità brevettuale e dei “blocking patent” è più marcato degli stimoli alle piccole-medie imprese innovative. Jim Bessen e Robert Hunt ottengono risultati analoghi proprio nel software. Anzitutto, i brevetti delle grandi imprese manifatturiere sono aumentati molto di più di quelli delle imprese di software: secondo i loro dati, le prime impiegano l’11 per cento dei programmatori e analisti di software e detengono il 75 per cento dei brevetti, mentre le seconde impiegano il 33 per cento dei programmatori e analisti e posseggono il 13 per cento dei brevetti software. Una differenza così marcata nella produttività brevettuale non può essere spiegata da differenze di efficienza, ma solo da differenze nella propensione a brevettare. Inoltre, Bessen e Hunt mostrano che, a parità di altre condizioni, le imprese con una maggiore propensione a brevettare hanno una intensità più bassa di ricerca & sviluppo (R&S). Un brevetto più forte, che protegge meglio chi brevetta nella difesa delle proprie innovazioni, rende la R&S più remunerativa, e dunque dovrebbe aumentarla e non diminuirla. Il sospetto è perciò che i brevetti non servano a proteggere le proprie innovazioni, ma a qualcos’altro, e probabilmente ad avere più potere contrattuale rispetto ai concorrenti e a bloccarne le innovazioni.

Il modello open source

Insomma, gli Stati Uniti sembrano essersi spinti un po’ troppo in là. E, in effetti, due rapporti della Federal Trade Commission e della National Academy of Science suggeriscono strade per riequilibrare il sistema. Ora, la posizione della Commissione è più articolata di quanto gli oppositori della direttiva sostengono. La direttiva metterebbe solo ordine in una materia in cui non c’è disciplina in Europa e, comunque, l’Ufficio brevetti europeo sta brevettando software da tempo senza guida da parte del legislatore. Inoltre, come ribadito l’8 marzo di fronte al Parlamento dal commissario alla Direzione mercato interno e servizi, Charlie McCreevy, la direttiva non consente di brevettare nulla che non sia già brevettabile oggi, ed è fatta in modo da consentire di brevettare soltanto contributi tecnologici importanti.
L’esperienza Usa ha mostrato però che la corsa alla brevettazione e l’aumento delle citazioni in giudizio sono stati un fenomeno troppo grande e socialmente costoso per sentirsi rassicurati dalle parole di un Consiglio comunitario, per quanto autorevole. Al tempo stesso, l’open source è un modello nuovo e interessante di produzione del software, sta realizzando progetti e innovazioni utili per la società e andrebbe incoraggiato.
Perché non pensare anche a una direttiva che istituzionalizzi la Generalized Public License (Gpl)? La Gpl è il contratto principe dell’open source che impone a chi contribuisce a un programma open, del quale viene cioè messo a disposizione pubblicamente il codice sorgente, di mettere a disposizione il codice sorgente dei relativi miglioramenti. Il modello potrebbe essere adottato in contesti diversi e difatti si sta diffondendo in altri sistemi tecnologici, come le biotecnologie. La direttiva potrebbe definire il meccanismo e in particolare l’estensione del vincolo di pubblicità dei miglioramenti a valle, standardizzare le caratteristiche dei contratti Gpl, articolarne la tipologia e assicurarne il rispetto. Al di fuori del software, la Gpl potrebbe imporre pubblicità e licenze non esclusive sui migliormenti di un’innovazione.
La direttiva stimolerebbe poi la concorrenza tra i due sistemi. Chi inventa può brevettare o mettere le proprie innovazioni in campo aperto. Il meccanismo va studiato e precisato, ma sarebbe una bella innovazione istituzionale europea, una volta tanto in anticipo e non a rimorchio degli Stati Uniti.

Per saperne di più

Bessen, J. e R. Hunt (2004) “An Empirical Look at Software Patents”, Working Paper 03-17, Federal Reserve Bank of Philadelphia.
Gambardella, A. e B.H. Hall (2005) “Proprietary vs Public Domain Licensing in Software and Research Products”, NBER Working Paper 11120,
www.nber.org.
Hall, B.H. e R. Ziedonis (2001) “The Patent Paradox Revisited: Determinants of Patenting in the US Semiconductor Industry, 1980-1994”, Rand Journal of Economics 32 (1), 101-128.
Kortum, S. e J. Lerner (1999) “What is Behind the Recent Surge in Patenting”, Research Policy 28, 1-22.

Link ai rapporti Ftc e Nas:
http://www.ftc.gov/opp/intellect/
http://www7.nationalacademies.org/ocga/briefings/Patent_system_21st_Century.asp

 

Si può trasferire l’esperienza dell’open source in campo informatico ad altri aspetti del progresso tecnologico? A dispetto del problema del free-riding, la ricerca sullo sviluppo di un input comune a più processi produttivi può risultare addirittura maggiore in un contesto di General Public Licence rispetto a un regime di monopolio protetto da brevetto. Accade quando si ha un effetto di accrescimento del profitto totale dell’industria dovuto a un miglioramento tecnologico dell’input comune. Ciò suggerisce una nuova politica della brevettabilità.

 

Oltre Linux

 

Philippe Aghion e Salvatore Modica


Il dibattito sull’open source, o più propriamente sulla General Public Licence, è generalmente centrato sul software, dove in termini di miglioramento del prodotto la Gpl ha dato risultati estremamente positivi, in particolare con Linux.
Lavoce.info ha già discusso gli aspetti fondamentali del problema negli articoli di Gambardella e Santarelli-Bono. (LINK) Vorremmo aggiungere qualche commento su un’altra questione: cosa possiamo astrarre dall’esperienza di Linux pensando al progresso tecnologico in generale, non necessariamente “digitale”?

I due problemi dell’open source

Conviene tener distinte le due fasi principali del ciclo di vita di un nuovo prodotto: (i) la nascita, con l’invenzione primaria (per il software si pensi alla versione 0.01 di Linux, che Linus Torvalds mise in giro a beneficio di un centinaio di hackers, o al sistema Dos di Microsoft) e (ii) il successivo sviluppo, generato dai miglioramenti apportati da ricerca incrementale (ad opera della collettività degli sviluppatori o del monopolista proprietario del brevetto). Della General Public Licence si dice che permette a ognuno di “dare un mattone per avere in cambio una casa intera”. (1)
Ma lo slogan non racconta proprio tutto: primo, qualcuno deve aver gettato le fondamenta. (2) Secondo, vero è che in fase di sviluppo uno può dare un mattone e avere una casa intera in cambio, ma è altrettanto vero che la casa è sua anche se il mattone non ce lo mette: quindi, perché sprecarlo? In altre parole, l’adozione della Gpl presenta due problemi. Il primo, classico, è che l’assenza di brevettabilità riduce l’incentivo a inventare – in fase (i). L’altro, che a invenzione avvenuta, miglioramenti incrementali di qualità possono essere frustrati dal free-riding – in fase (ii).
Il primo problema, discusso già da Schumpeter e poi da Nordhaus in un famoso libro del 1969, è ancora più chiaro alla luce della teoria della crescita contemporanea che individua nel processo innovativo il motore principale dello sviluppo economico. (3) La prospettiva di profitti monopolistici garantita dalla brevettabilità rende profittevole l’attività di ricerca in quanto consente di recuperare costi iniziali che vendendo al costo marginale andrebbero inevitabilmente perduti. Fortunatamente, i processi innovativi non si arrestano del tutto in assenza di brevettabilità, e Linux ne è esempio eloquente. D’altra parte, è difficile contestare il fatto che tipicamente la brevettabilità costituisce un importante incentivo alla ricerca. (4)

Se l’input è comune a più processi produttivi

Il problema di free-riding creato dalla Gpl sugli sviluppi della nuova invenzione, con conseguente livello subottimale dell’investimento, è tipico dei beni pubblici (il risultato della ricerca diventa un bene pubblico con la General Public Licence). Tuttavia, il volume di ricerca su Linux ha di gran lunga superato quello messo in atto da Microsoft su Windows, e da un paio d’anni allo sviluppo di Linux concorre un pool di grosse imprese di telecomunicazioni e di produttori di hardware (in concorrenza fra loro) che finanziano l’Open Source Development Labs, dove non a caso lavora Torvalds a tempo pieno. Cosa sta succedendo? La nostra opinione è che stia accadendo qualcosa che non ha tanto a che fare con la natura digitale di Linux, quanto con la sua funzione di input comune a molteplici processi produttivi (5).
Per ricorrere a un esempio non digitale e non high-tech, si pensi agli impianti frenanti che entrano nella produzione delle automobili, dei camion, degli aeroplani. La nostra idea, confermata nel contesto di un modello biperiodale, è che a dispetto del problema di free-riding, la ricerca sullo sviluppo di un input comune a più processi in un contesto di General Public Licence può risultare addirittura maggiore che in regime di monopolio protetto da brevetto. Accade quando a fronte dell’effetto negativo di bene pubblico, è presente un abbastanza forte effetto di accrescimento del profitto totale dell’industria dovuto alla qualità dell’input comune e alla conseguente crescente produttività dei processi produttivi delle singole imprese. In altre parole, l’impresa investe nell’input/bene comune nonostante così facendo avvantaggi non solo se stessa ma anche i concorrenti, se al contempo accresce abbastanza la dimensione della “torta” da dividere con loro. Questa dei beni intermedi largamente usati sembra dunque la categoria di prodotti su cui concentrarsi, al di là del software, per pensare alla possibilità di adozione della Gpl.

Quale politica dei brevetti

Ristretta in tal modo l’attenzione a un campo di applicazione potenzialmente proficuo, emerge comunque un tradeoff per la politica dei brevetti: orientarsi sulla brevettabilità, favorendo innovazioni primarie che andrebbero incontro a uno sviluppo di prodotto relativamente lento. Oppure imporre una Gpl sulle nuove invenzioni (del tipo in questione) garantendo uno sviluppo sostenuto di qualità, accettando però un rallentamento del loro tasso di natalità. Ci sono vie d’uscita? Alla ricerca di un intervento pubblico che riesca ad aggirare il tradeoff appena descritto, sembrerebbe ragionevole esplorare la possibilità di mantenere sì la brevettabilità, ma poi per quei beni in cui c’è più ricerca incrementale con Gpl che sotto regime di monopolio (del tipo da noi individuato), lo Stato acquisti i brevetti, e li rilasci con licenza Gpl.

(1) Sono parole di Ganesh Prasad, un web designer affascinato dalle implicazioni economiche e sociali di Linux, che utilizza dal 1996.
(2) Per Linux è stato Linus Torvalds, un finlandese freddoloso che voleva fare tutto da casa, come ricorda nella sua autobiografia “Rivoluzionario per caso” pubblicata da Garzanti.
(3) Si vedano ad esempio i capitoli disponibili dell’
Handbook edito da Philippe Aghion e Steven Durlauf, di prossima pubblicazione.
(4) Il caso della brevettabilità del software piuttosto che la sua protezione con copyright, che tocca anche delicate questioni di brevettabilità delle idee, potrebbe essere un’eccezione, anche a causa degli intricati problemi legali che verrebbero a crearsi. Vedi il sito della Foundation for a Free Information Infrastructure,
ffii.org, per il dibattito in Europa.
(5) Aghion, P. e Modica S., “Open Source without Free-Riding”, in preparazione.


La Commissione Europea e i ministri europei reponsabili della Competitività hanno varato una controversa direttiva sulla brevettabilità di “computer-implemented inventions”. Lungi da poter essere considerato concluso, il dibattito dovrebbe ora investire l’intero sistema di tutela della proprietà intellettuale. Se si vuole incoraggiare l’attività innovativa e favorire la circolazione dei suoi risultati, le strategie copyleft sembrano le più adatte a promuovere la ricerca di base. E potrebbero innescare meccanismi per il recupero di competitività e di rilancio verso l’economia basata sulla conoscenza, perno della strategia di Lisbona.

L’Europa tra copyright e copyleft

Giovanni Bono e Enrico Santarelli

In passato, i programmi per elaboratori elettronici (“software”) erano soggetti alla disciplina sul diritto d’autore: le idee contenute nel programma non potevano essere brevettate. Sulla scorta dell’idea che il software contiene invenzioni come ogni altra realizzazione tecnologica, gli Stati Uniti (USA) hanno da tempo rotto con questa tradizione ed il software – come gli algoritmi matematici, i “business methods”, etc. – è entrato a pieno titolo fra le materie di brevetto. Nello stesso tempo, il “copyright” sul software è stato messo in crisi da una comunità transnazionale di sviluppatori, detta del “software libero” o “movimento open source”. Questa comunità è cresciuta grazie all’uso di licenze cosiddette “copyleft”, che mettono in comune i risultati invece di negoziarne la circolazione sul mercato. Tale pratica, che ha prodotto esperienze di successo nel settore del software – come GNU, Linux e Apache – e ha contagiato giganti come Netscape, IBM e Sun Microsystem si sta estendendo anche ad altri settori, dalla musica alle biotecnologie.
Commissione europea ed Europarlamento hanno dibattuto a lungo attorno alla possibilità di brevettare software.
La querelle si è aperta con un Green Paper presentato dalla Commissione nel 1997. Il 24 settembre 2003, l’Europarlamento ha approvato un testo fortemente limitativo, la direttiva dell’Unione Europea sulla brevettabilità di “computer-implemented inventions”. A sua volta, la Commissione ha presentato, il 18 maggio 2004, un testo modificato nella direzione opposta. Quest’ultimo, tuttavia, non ha raccolto sufficienti consensi, tanto che il 2 febbraio 2005 l’Europarlamento ha chiesto l’azzeramento dell’intera procedura, invitando la Commissione a soprassedere rispetto alla decisione in tema di brevettabilità del software. Infine, tra il 3 e il 7 marzo 2005, prima la Commissione poi i ministri europei responsabili della Competitività, hanno respinto questo invito e, malgrado l’opposizione più o meno ferma di alcuni paesi membri (la Spagna in testa, ma anche Cipro, Danimarca Lettonia, Paesi Bassi, Polonia, Ungheria) e l’astensione di altri (Austria, Belgio e Italia), manifestato una preferenza per l’orientamento copyright. In attesa di un nuovo pronunciamento dell’Europarlamento, è nostra opinione che la politica comunitaria per l’innovazione dovrebbe invece operare una scelta di campo diversa e decidere di sfruttare a fondo le opportunità di crescita generate dal copyleft.

Fautori e oppositori della brevettabilità

I fautori ritengono la brevettabilità del software un incentivo necessario all’attività innovativa: ne garantirebbe il futuro in Europa proteggendo le invenzioni sia delle piccole che delle grandi imprese. Gli oppositori osservano che, mentre negli altri campi la concessione del brevetto è subordinata alla divulgazione dell’informazione tecnologica su cui esso si basa, nel caso del software tale protezione è accordata anche se il codice sorgente rimane segreto. Di conseguenza, l’estensione del meccanismo brevettuale frenerebbe l’innovazione, mettendo l’industria europea del software saldamente in mano a un cartello di grandi imprese in grado di eliminare i concorrenti più piccoli grazie al pieno controllo che esercitano sui codici sorgente del software più diffuso. In effetti, il dibattito è stato talvolta letto come uno scontro tra gli interessi delle grandi e delle piccole imprese del settore.
La prassi ha tuttavia da tempo scavalcato i vincoli normativi, posti ad esempio dall’articolo 52 della European Patent Convention, e di fatto sono stati concessi numerosissimi brevetti sul software. Il problema, però, è di portata maggiore. Il punto di fondo è infatti se l’Unione europea debba seguire gli Stati Uniti sulla strada di una politica intransigente di tutela della proprietà intellettuale o se vi sia la possibilità di imboccare percorsi diversi. Si tratta, in altre parole, di scegliere con chiarezza il sistema prevalente di accesso alle conoscenze codificate, che rappresentano sia il principale input che il principale output di ogni attività innovativa.

Copyright e copyleft

La regolamentazione privata dell’accesso alle conoscenze codificate prende forme diverse in settori e sistemi giuridici diversi. Questa varietà di forme, pratiche e strategie negoziali può essere ricondotta a due tipologie generali: “copyright” e “copyleft”.
La strategia copyright, che include i brevetti, è tipicamente “chiusa” e comporta un’attribuzione selettiva dei diritti di accesso. La strategia copyleft, adottata dalla comunità degli sviluppatori di software libero, è invece “aperta” e attribuisce i diritti di accesso non selettivamente. Nel primo caso, la conoscenza generata dall’attività innovativa è una collezione di beni privati, accessibili soltanto a seguito di una negoziazione privata. Nel secondo, è un “commons”, cioè una risorsa di proprietà comune la cui riproduzione, circolazione e modifica sono limitate in modo tale da garantire la loro permanenza nel “commons”. Gli esempi di “commons” nella moderna società dell’informazione sono molteplici. Basti pensare, ad esempio, che gli standard tecnologici del world wide web sono in larga parte un “commons” e che l’istituzione che orienta la loro produzione – iniziata al Cern di Ginevra nel 1989 – è una joint venture franco-nippo-statunitense, il World Wide Web Consortium (w3c). E recenti esempi di successo di software copyleft come quelli del sistema operativo Linux e del server http (hyper text transfer protocol) Apache dovrebbero attenuare la diffidenza attorno a questa modalità di accesso alle conoscenze codificate. Tra l’altro, il ciclo di vita del software tende a diventare sempre più breve. Tutelarlo con una strategia copyright rigida e protratta nel tempo non sembra avere molto senso, anche in considerazione del fatto che la profittabilità di un prodotto software è di regola alta subito dopo la sua immissione sul mercato, ma rapidamente decrescente nel periodo successivo (Forrest, 2003).

Imparare dagli Usa?

L’esperienza Usa non sembra d’altra parte un modello da imitare. In un recente libro, due tra i massimi studiosi statunitensi di economia dell’innovazione, Adam Jaffe e Josh Lerner, sostengono che il sistema americano di tutela della proprietà intellettuale tramite i brevetti è andato in crisi proprio a partire dalla prima metà degli anni Ottanta.
Le cause sono l’introduzione di una Corte d’Appello centralizzata (Cafc) che ha unificato e potenziato il trattamento giudiziario dei diritti brevettuali, e la trasformazione dell’ufficio brevettuale (Uspto) in agenzia di servizi i cui costi di mantenimento sono pagati attraverso le fees dei “clienti” (i patent applicants, coloro che presentano domanda di concessione di brevetto), anziché dal governo federale. L’orientamento pregiudizialmente favorevole della Cafc nei confronti dei titolari di brevetto (“patent holders”) e la trasformazione dello Uspto in una struttura di servizio dei “patent applicants”, ha determinato una autentica esplosione dell’attività brevettale, cresciuta tra il 1982 e il 2002 al ritmo medio del 5,7 per cento l’anno, contro l’1 per cento medio annuo del periodo 1930-1982. Accompagnata, però, da una crescita esponenziale nel numero dei contenziosi giudiziari, da una sostanziale perdita di rigore nelle procedure di valutazione delle domande e di attribuzione dei brevetti da parte dello Uspto, nonché da un aumento dei costi di transazione per l’acquisto e la cessione di licenze sui brevetti. Oltre tutto, la proliferazione di brevetti di scarsa o nessuna rilevanza tecnologica e i costi sempre più elevati di difesa dei brevetti in sede giudiziale, non hanno portato all’incremento sperato nella realizzazione di innovazioni di prodotto.

Cosa fare in Europa

Naturalmente, occorre valutare con estrema cautela se una politica tradizionale – di impostazione copyright – sia preferibile all’esplorazione di politiche nuove – di ispirazione copyleft. Oltre a suggerire un ripensamento della normativa sulla brevettabilità del software, il dibattito europeo dovrebbe investire l’intero sistema di tutela della proprietà intellettuale. Gli strumenti per la “tutela della proprietà intellettuale” e quelli per la formazione di “commons” di conoscenza servono lo stesso duplice scopo: incentivare l’attività innovativa e favorire la circolazione dei suoi risultati. L’esperienza delle economie industriali induce a considerare i primi come i più adatti a promuovere gli investimenti privati in ricerca & sviluppo, perché consentono una esplorazione sistematica e ordinata delle prospettive aperte da una invenzione primaria. I secondi sembrano invece i più adatti a favorire la ricerca di base, svolta o finanziata da fondazioni ed enti pubblici, le università in testa.
Se l’Europa riuscisse a coniugare il regime di tutela e riconoscimento dell’innovazione nel suo complesso con politiche ispirate a esperienze copyleft, potrebbe gettare le basi per lo sviluppo di un meccanismo incentivante originale e capace di indurre individui e imprese a scegliere strategie di innovazione aperte. Sarebbe uno strumento di recupero di competitività e di rilancio nel cammino verso un’economia basata sulla conoscenza, l’obiettivo prioritario individuato dal Consiglio europeo di Lisbona nel marzo 2000.

Per saperne di più

Sulle recenti tendenze negli Usa e in Europa abbiamo citato:
Jaffe, Adam J e Josh Lerner (2004), Innovation and Its Discontents, Princeton e Oxford, Princeton University Press.
Forrest, Heather (2003), “Europe: Open Market … Open Source?”, Duke Law & Technology Review, http://www.law.duke.edu/journals/dltr/articles/2003dltr0028.html

Per quanto riguarda il “copyleft”, rinviamo alle pagine web delle più importanti istituzioni di governo di “knowledge commons”, la Free Software Foundation (http://www.fsf.org/), la Open Source Initiative (http://www.opensource.org/) e il Creative Commons (http://creativecommons.org/).

Un’introduzione tecnica ma accessibile al problema della circolazione delle conoscenze codificate è contenuta in:
Quah, Danny (2004), “Digital Goods and the New Economy”, Centre for Economic Policy Research, Discussion Paper Series No. 3846,
www.cepr.org/pubs/dps/DP3846.asp

Un’utile risorsa bibliografica per il lettore economista si può trovare al seguente indirizzo:
http://www.dklevine.com/general/intellectual/intellectual.htm

 


La pubblica amministrazione ha difficoltà a utilizzare le tecnologie con efficienza e efficacia. Lo dimostra la limitata diffusione di software open source. Per non aggravare i ritardi già accumulati servono scelte precise e un sistema di incentivi e disincentivi per realizzarle. E si potrebbe così rivitalizzare l’industria italiana del software.

Perchè la PA diffida di Apache

Lucio Picci


Il 63 per cento nel mondo, ma solo il 38 per cento nell
amministrazione pubblica italiana: questo il confronto della diffusione di un importante software open source (Os), il server web Apache, il programma che permette di far funzionare i siti web (compreso quello de lavoce.info). (1) Sono necessarie politiche precise per colmare questa distanza, che è un sintomo della difficoltà dellamministrazione italiana a utilizzare le tecnologie con efficacia ed efficienza. Da un punto di vista pratico, e con qualche approssimazione, la differenza tra software proprietario e Os consiste nel fatto che nel primo caso, di solito dopo il pagamento di una licenza duso, lutente può eseguire il programma, ma non vede come è stato scritto e non può modificarlo, mentre il software open source può essere modificato e ulteriormente distribuito, ed è gratuito.

Non sempre vince il migliore

La scelta tra software proprietario (come quello prodotto da Microsoft) e Os non è ovvia. È importante considerare la presenza di effetti di rete, che si hanno quando il beneficio del possesso di un prodotto dipende positivamente dal numero di consumatori che già ne dispongono. Come telefono o fax, anche il software è tanto più utile quanto più è diffuso. Per questo è difficile contrastare un prodotto che gode di un mercato ampio anche quando si dispone di una tecnologia più vanzata: nelle industrie in cui vi sono effetti di rete, non sempre vince il migliore. Ed è questo il vantaggio di cui godono i prodotti Microsoft nel mercato del software per la produttività di ufficio (videoscrittura e fogli di calcolo, per esempio): abbandonarli significa anche rinunciare allestrema comodità con cui si scambiano per e-mail documenti in un formato che è divenuto uno standard de facto, oltre che alla consulenza gratuita dei vicini di scrivania.
Nel mercato
lato server, come nel caso del server web Apache, la situazione è diversa. Per esempio, Apache è dominante, gratuito, eccellente, ben documentato e utilizza un sistema operativo, Unix, disponibile (anche) a titolo gratuito, secondo molti migliore del concorrente Microsoft. Al di là di una generale avversione per il software che non proviene da un produttore importante, con la relativa deresponsabilizzazione dei tecnici che comporta una tale attitudine, vi sono dunque poche ragioni per non adottarlo: la ridotta diffusione di Apache nellamministrazione pubblica indica una scarsa propensione ad avvalersi di soluzioni tecnologiche efficaci ed efficienti.

Dalla commissione le consuete raccomandazioni

Il Governo dovrebbe riflettere. Il ministro dellInnovazione, Lucio Stanca, istituì lo scorso novembre una commissione sul software Os che ha da poco terminato i suoi lavori. Senza prendere posizione precisa, e cercando di accontentare un po’ tutti, la commissione propone lusuale armamentario: qualche misura concreta, qualche risorsa, ma soprattutto raccomandazioni assortite, il più delle volte senza occuparsi degli incentivi e disincentivi perchè queste non rimangano sulla carta. Invece, trascura completamente il fatto che la scelta di una tecnologia di rete non è analizzabile al livello del singolo utente, ma deve tenere conto degli effetti che abbiamo indicato e del conseguente problema del coordinamento delle scelte individuali. Esiste unampia letteratura scientifica su questo tema, e Stanca avrebbe fatto bene a non affidarsi soltanto, o prevalentemente, a (ingegneri) informatici, le cui competenze sono altre.

È tempo di decisioni

Nei fatti se non nelle intenzioni, le commissioni dagli esiti ecumenici, molto spesso servono per non decidere, o per decidere di non fare nulla. Per il software Os, con i ritardi già accumulati e dopo decenni di decadenza dellindustria italiana del software, sono invece necessarie iniziative, magari di portata ridotta, ma concrete.
Un obiettivo ragionevole consiste nel promuovere il software Os
lato server, dove gli effetti di rete non sono avversi. Servirebbe un misto di prescrizioni e di incentivi verso quei tecnici e quelle amministrazioni che si comportano virtuosamente, e un servizio di consulenza e di formazione, allinterno di strutture già presenti, che permetta ai tecnici di adeguarsi e renda ingiustificabili le eventuali resistenze. Si otterrebbero risparmi, si incoraggerebbe lutilizzo di tecnologie avanzate, si creerebbe un primo presupposto per un maggiore controllo delle tecnologie e si valorizzerebbero le competenze tecniche migliori dentro lamministrazione. Esistono però obiettivi più ambiziosi, che il Governo farebbe bene a considerare con attenzione maggiore di quanto non abbia fatto sino ad ora, e senza timore reverenziale verso Microsoft. Lamministrazione pubblica spende per il software circa 700 milioni di euro allanno. C’è spazio per una politica che promuova linsieme della produzione Os, tanto più che uno spostamento della domanda dellamministrazione pubblica sarebbe di grande beneficio per lindustria italiana del software, in un certo senso la reinventerebbe. Ma sarebbero necessari interventi veramente incisivi e una notevole capacità di gestire una strategia coraggiosa e innovativa.
Il primo, più
modesto, obiettivo, può essere considerato intermedio rispetto al secondo: lanalisi dei primi risultati ottenuti potrebbe servire per decidere se allungare il passo.
In ogni caso, però
, il Governo dovrebbe dichiarare che cosa vuole fare e con quali strumenti. Tenendo presente che le scelte, o le non scelte, del passato, hanno già danneggiato la diffusione del software Os nell’amministrazione pubblica.

(1) I dati derivano da una rilevazione realizzata presso il corso di laurea in Economia di Internet dellUniversità di Bologna, e si riferiscono a un campione di siti dei soli comuni, province e regioni. Oltre alla diffusione del server web Apache, essi mostrano la diffusione degli analoghi prodotti Microsoft, utilizzati nel 58 per cento dei casi, contro il 27 per cento a livello mondiale (il confronto mondiale è reso possibile dalla rilevazione di Netcraft).

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