I due pilastri della politica economica europea, il Patto di stabilita’ e l’agenda di Lisbona, necessitano di un’urgente opera di manutenzione. Il coordinamento delle politiche fiscali e’ pero’ essenziale al buon funzionamento di un’unione monetaria. Analogamente, il processo di riforme strutturali di Lisbona va attuato se si vuole rilanciare la crescita economica. Su questi temi gli economisti intervenuti su lavoce.info sono sostanzialmente d’accordo. Su molte altre cose – delegare il rigore fiscale ai Parlamenti nazionali o rafforzare i poteri della Commissione, integrare il Patto di stabilita’ con tutta l’agenda di Lisbona o riportare nel Patto solo alcuni elementi, in particolare le pensioni, di tale agenda – invece le opinioni divergono. Rimane irrisolto infine il problema della piena integrazione dei nuovi paesi membri nella politica economica europea.
Alla riunione dell’Ecofin di Scheveningen, i ministri economici si sono limitati a mostrare le carte. Sono davvero molte le questioni aperte al tavolo della trattativa sulla riforma del Patto di stabilità e crescita. Si deve, infatti, trovare un difficile equilibrio tra due diversi obiettivi: da una parte, il Patto deve continuare a prevenire un’accumulazione eccessiva del debito, dall’altra, ai governi deve essere concesso un più ampio spazio di manovra per mettere in atto riforme strutturali e ridare competitività all’Europa. Un ostacolo alle riforme Così com’è, il Patto ha un problema fondamentale: è un ostacolo alle riforme. I leader europei stanno sprecando tutte le loro energie e il capitale politico per rispettare i parametri di bilancio, mentre non fanno niente per affrontare le vere sfide: l’invecchiamento della popolazione, il peso dell’elevata imposizione fiscale, la perdita di competitività. Le riforme strutturali, infatti, “pagano” nel lungo periodo, e “costano” nel breve. Il Patto è nato per proteggere i cittadini europei dalla miopia dei governi, ma ha finito per determinare comportamenti ancor più miopi. Un esempio tipico è quello delle riforme pensionistiche. Pensiamo a una riforma che riduca il peso del pilastro pubblico a ripartizione ed espanda gli schemi a piena capitalizzazione. Per incoraggiare l’avvio di schemi pensionistici privati, è necessario ridurre i contributi obbligatori al sistema pubblico. Allo stesso tempo, si devono però continuare a pagare le pensioni a chi è già pensionato. Questo significa meno risorse per le pensioni pubbliche e, quindi, un aumento temporaneo del deficit corrente. Ma con la diminuzione delle pensioni future si avrà poi un miglioramento della sostenibilità del sistema. Le regole attuali del Patto scoraggiano questo tipo di riforme: l’aumento temporaneo del deficit di bilancio è proibito, anche se accompagnato da miglioramenti di lungo periodo. I politici europei sono divenuti consapevoli del problema. In quest’ultima riunione dell’Ecofin, la Commissione ha chiesto una maggiore discrezionalità e ha espresso la volontà di dare più enfasi al debito (esplicito): i paesi con un più basso rapporto fra debito pubblico e Pil avranno maggiore libertà nella politica fiscale. I ministri economici hanno, inoltre, proposto che riforma delle pensioni e sostenibilità di lungo periodo rientrino nei criteri di valutazione dei paesi. Per superare gli ostacoli che il Patto pone alle riforme strutturali, alcuni paesi hanno chiesto che il Patto sia legato agli obiettivi di Lisbona, per dare maggiore flessibilità di bilancio ai paesi che li stanno realizzando. Alcune di queste innovazioni potrebbero rivelarsi utili. Ma c’è il rischio di dare troppa discrezionalità alla Commissione o al Consiglio. Le regole del Patto Il Patto è basato su regole e perché possano essere applicate è necessario che possano essere definite con una certa precisione ex ante. Altrimenti, le regole diventano inapplicabili. Vediamo allora la proposta di legare il Patto agli obiettivi di Lisbona. Ci sono più di cento indicatori nella strategia di Lisbona: che succede se un paese fa progressi in una di queste direzioni, ma peggiora in un’altra? Se fosse la Commissione a decidere sulla rilevanza dei diversi indicatori, interferirebbe così nei processi politici nazionali, imponendo priorità in aree che non sono di sua competenza e nelle quali non ha nessuna legittimazione politica. Se invece questa discrezionalità incontrollata fosse lasciata al Consiglio, e non alla Commissione, è facile prevedere che la “pressione dei pari grado” per ristabilire l’equilibrio di bilancio finirebbe presto per trasformarsi in una “protezione dei pari”. È possibile utilizzare il Patto a favore e non contro le riforme strutturali senza rendere le regole inapplicabili? Noi crediamo di sì. L’idea è individuare alcuni parametri ampi, ma precisi dal punto di vista operativo, e applicare a questi indicatori la stessa idea suggerita dalla Commissione per il debito pubblico: i paesi che fanno progressi su questi indicatori possono avere maggiore libertà d’azione sul deficit di bilancio. Un indicatore che risponde a questo criterio è il debito implicito dei sistemi pensionistici pubblici, cioè il valore attuale scontato delle prestazioni pensionistiche future, a legislazione vigente. Le prestazioni pensionistiche promesse ai lavoratori e ai pensionati sono più importanti dei deficit futuri dei sistemi previdenziali. I deficit possono essere ridotti con contributi più alti, ma non è nostra intenzione spingere i governi in questa direzione: i contributi per la sicurezza sociale sono già fin troppo alti in Europa e l’unico modo per riavviare la crescita senza compromettere il futuro, è attraverso una riforma delle pensioni che riduca il peso della componente previdenziale pubblica. Ovviamente, ogni stima del debito pensionistico implicito richiede cautele e assunzioni arbitrarie. Ma altrettanto arbitraria è l’attuale applicazione del Patto. Per esempio, sono convenzionali i criteri con cui si misurano i deficit di bilancio e si definisce che cosa è e che cosa non è un’entrata pubblica. Inoltre, la Commissione ha già fatto passi importanti nell’armonizzare le ipotesi utilizzate nelle proiezioni della spesa previdenziale nei diversi paesi. Ai fini del Patto, poi, il punto di riferimento dovrebbero essere le variazioni nello stock di debito pensionistico (date certe ipotesi economico/demografiche) piuttosto che il livello stesso. Le variazioni sono più semplici da confrontare dei livelli, perché è meno probabile che riflettano ipotesi arbitrarie. Informare i cittadini Ma c’è un motivo ancor più importante per concentrare l’attenzione sulle variazioni che avverranno da qui in poi nel debito pensionistico, a seguito di riforme previdenziali. Non c’è nessuna ragione perché l’Europa intervenga nei sistemi pensionistici dei singoli Stati membri. Dopotutto, qual è l’esternalità negativa per gli altri paesi europei se, per dire, la Spagna mantiene un sistema pensionistico generoso? Il problema è che la formulazione attuale del Patto è un ostacolo alle riforme. E d’ora in poi non deve essere più così. Una maggiore attenzione ai debiti pensionistici impliciti servirebbe anche per informare i cittadini. I sondaggi dicono che la maggior parte dei cittadini europei non è pienamente consapevole dell’entità della redistribuzione fra generazioni implicita nel funzionamento dei sistemi previdenziali pubblici. Molti ritengono che i loro contributi pensionistici vadano in un conto individuale, a capitalizzazione. Ignorano che invece stanno pagando le pensioni degli attuali pensionati. Questi sondaggi (
Il quadro della politica economica in Europa è desolante. Tralasciando la politica monetaria, entrambi i pilastri su cui doveva poggiare la politica economica del nostro continente il Patto di stabilità e crescita e l’agenda di Lisbona di riforme strutturali necessitano di un’urgente e radicale opera di manutenzione. Il Patto di stabilità e crescita Cominciamo dal Patto di stabilità. L’obiettivo di rigore fiscale che avrebbe dovuto portare i paesi membri a conseguire il pareggio di bilancio entro il 2004 preparando i conti pubblici alle ricadute del processo di invecchiamento e consentendo alla politica fiscale di svolgere pienamente il suo ruolo di stabilizzatore del ciclo, è stato presto dimenticato, prima ancora che il rallentamento economico esercitasse i suoi effetti sui conti pubblici. Il Patto di stabilità rimane però uno strumento essenziale di coordinamento delle politiche fiscali in un’unione monetaria. In tale contesto, infatti, il mercato dei cambi non disciplina più le scelte di politica fiscale. Si appiattiscono quindi gli spread fra paesi e si indebolisce la sanzione di mercato nei confronti dei paesi meno virtuosi. Di conseguenza, politiche fiscali insostenibili in un paese membro si ripercuoteranno sui tassi di interesse di tutta l’area monetaria più che sui differenziali fra paesi. È un’esternalità negativa che la politica fiscale in un paese esercita sugli altri membri dell’area monetaria. Al Patto di stabilità era nei fatti assegnato il compito di internalizzare il più possibile questo effetto. Ma vi è un’altra esternalità, di segno opposto, che pesa non poco nel giudizio dei critici del Patto. È vero infatti che un miglioramento dei conti pubblici conseguito esclusivamente attraverso riduzioni di spesa o aumenti di imposte deprime l’economia e riduce la domanda di importazioni, con inevitabili effetti recessivi anche sulle altre economie dell’area. Oggi, in una situazione di forte rallentamento economico, è questo secondo effetto a prevalere. L’agenda di Lisbona Passiamo all’agenda di Lisbona. L’obiettivo era di favorire l’adozione di misure volte ad accrescere il potenziale di crescita delle economie dei paesi europei. L’attuazione delle riforme di Lisbona è però in gravissimo ritardo, come denunciato non solo dalla Commissione, ma anche dal Comitato di politica economica dell’Ecofin. Progressi più significativi avrebbero prodotto benefici di rilievo. Una crescita più rapida infatti non solo migliora i saldi di bilancio nel paese in questione, ma stimola i flussi di importazione e si ripercuote favorevolmente sui livelli di attività economica in tutta l’area. È un’esternalità positiva, a differenza del Patto di stabilità: l’adozione di politiche virtuose da parte di un paese ha ricadute favorevoli sui livelli di attività e sui conti pubblici di tutti i paesi dell’area. A ostacolare l’adozione dell’agenda di Lisbona hanno però contribuito i costi, anche di bilancio, delle riforme, le conseguenti resistenze politiche all’interno di ciascun paese, la riluttanza dei paesi membri a conferire ulteriori poteri alla Commissione e, di riflesso, la scelta di un metodo, quello del coordinamento aperto, in cui i paesi si limitano a confrontare le proprie esperienze di riforma nell’improbabile ricerca di una “best practice”. A differenza del Patto di stabilità, questo metodo non fornisce nessun incentivo, in positivo o in negativo, ad attuare le riforme per le quali, a parole, i governi si erano impegnati. Il possibile rimedio Un ovvio rimedio alla situazione di stallo che caratterizza sia il Patto di stabilità sia l’agenda di Lisbona consiste nel legare più strettamente i due programmi. Più che scorporare alcune voci “virtuose” di bilancio, ad esempio gli investimenti pubblici, dal computo del saldo di bilancio a fini dell’applicazione del Patto (anche molte voci di spesa corrente hanno effetti positivi sulla crescita, troppo spesso gli investimenti pubblici sono totalmente improduttivi), si dovrebbe consentire ai paesi che procedono più speditamente sulla strada delle riforme di struttura margini più generosi (ma limitati, nell’ordine dello 0,2-0,3 per cento del Pil) nella valutazione delle politiche di bilancio. I vantaggi sarebbero ovvii. Si stempererebbero le esternalità negative di una politica di mera restrizione fiscale che riduce la domanda aggregata anche nel resto dell’area. Si fornirebbe un incentivo ad attuare politiche di riforma, consentendo in particolare ai governi di compensare, nel breve periodo, i gruppi sfavoriti dalle riforme. L’obiettivo di crescita diverrebbe finalmente parte integrante del Patto di stabilità e l’agenda di Lisbona si vedrebbe dotata di strumenti operativi. Non mancheranno inevitabilmente le obiezioni a questa proposta. Valutare un programma di riforme strutturali è un esercizio intrinsecamente difficile,ma non impossibile. Non ci dovrebbero essere dubbi ad esempio che la liberalizzazione degli ordini professionali o lo smantellamento di un monopolio nel settore delle industrie a rete costituiscono un progresso anche se è difficile misurarne gli effetti. Ogni anno, sia la Commissione attraverso l’Implementation Report, sia il Comitato di politica economica dell’Ecofin, attraverso l’Annual Report, forniscono una valutazione dettagliata delle nuove politiche di riforma del mercato dei beni, dei servizi, del lavoro e dei capitali adottate dagli stati membri. Rimane ancora da definire a chi verrebbe affidata la valutazione delle politiche di riforme di un paese membro. All’Ecofin? No di certo. L’incentivo a un accordo collusivo in cui le riforme di tutti i paesi ricevono una valutazione favorevole sarebbe troppo forte. Una ragionevole soluzione di compromesso sarebbe di delegare alla Commissione tale valutazione, con l’obbligo però di sentire il Comitato di politica economica. Si eviterebbe così di conferire poteri giudicati eccessivi alla Commissione, si preserverebbe il metodo comunitario e si utilizzerebbero al meglio le competenze esistenti.
Il tentativo della Commissione europea di infondere nuova vita al moribondo Patto di stabilità e crescita è stato in larga parte accettato nell’incontro dell’Ecofin dello scorso week end, anche se resta qualche elemento di disaccordo. La strategia è quella di dichiarare che il Patto è vivo e vegeto, ma nello stesso tempo annacquarlo fino a renderlo irrilevante. Le ragioni della Commissione A prima vista, questo è un bene: il Patto doveva morire perché ha violato principi elementari di saggezza economica. Con l’estensione del concetto di circostanze eccezionali (l’oggetto del disaccordo all’Ecofin) per affrontare “condizioni specifiche” di un paese, la proposta della Commissione rompe quell’automaticità che era stata finora l’elemento fondamentale del Patto. Niente da festeggiare Dobbiamo dunque festeggiare? Sfortunatamente, no. Il vecchio Patto era così rigido da risultare inapplicabile. È probabile che il nuovo sia così flessibile da non essere mai applicato. Certo, ai ministri delle Finanze continueranno a essere consegnati i pesanti rapporti della Commissione, con la descrizione accurata di tutti i loro sbagli. E continueranno gli inviti a esercitare la “pressione dei pari” l’uno sull’altro. I peccatori prometteranno di diventare virtuosi, per poi tornare nelle loro capitali e continuare a peccare. Come il precedente, anche il Patto resuscitato premia l’ipocrisia e come sempre le vittime sono i contribuenti. Con poche brillanti eccezioni, nell’Eurozona i debiti pubblici ufficiali sono già elevati, quelli reali sono ancora più alti. Il costo di pensioni e assistenza sanitaria presto reclamati dalla generazione del baby boom porterà i debiti pubblici ben al di sopra del 100 per cento del Pil. I governi soffrono di una distorsione sul deficit: amano lasciare un grosso conto da pagare ai loro successori più o meno prossimi. La maggior parte di noi non vuole lasciare in eredità ai propri figli debiti pesanti, invece è proprio questo che fanno i governi. Ma i contribuenti e i loro figli vanno protetti da questa distorsione sul deficit. Dobbiamo tornare ai principi di base e ricordarci che impedire ai governi di comportarsi male è esattamente la ragione per cui è nata la democrazia. Questo non ha niente a che vedere con l’unione monetaria, ma il Patto esiste ed è difficile che sia abolito. È perciò meglio usarlo per spingere i paesi membri ad adottare procedure che riportino i debiti pubblici a livelli ragionevoli. Ma non è necessaria l’uniformità. Ogni paese ha i suoi metodi per combattere il crimine o per scegliere i suoi governanti. Allo stesso modo, ogni paese può darsi le sue istituzioni per prevenire la distorsione sul deficit. Quelli che imputano il fallimento del Patto alla debolezza della Commissione perdono di vista il semplice fatto che fin dall’inizio la Commissione non doveva neanche essere coinvolta nella questione. È stata capace di uscire dalla trappola in modo intelligente, ma avrebbe potuto fare un passo ulteriore: chiamare i parlamenti nazionali a farsi carico della distorsione sul deficit, come sono costituzionalmente obbligati a fare. Il Patto deve diventare un accordo formale per costruire istituzioni nazionali capaci di varare politiche di bilancio virtuose. Come guardiano del Trattato, la Commissione dovrebbe proporre un calendario, monitorare i progressi e, se necessario, portare i governi inadempienti davanti alla Corte di giustizia europea.
La Commissione ha ragione. Non solo mettere il pilota automatico alla politica fiscale è un non senso economico, ma è anche contrario al fondamentale principio democratico secondo il quale sono i parlamenti, e non le regole automatiche, a decidere sui bilanci. Alla Commissione deve inoltre essere riconosciuto il merito di aver respinto i suggerimenti dei tecnocrati che puntavano ad applicare il criterio del deficit del 3 per cento ai bilanci corretti per il ciclo. Il calcolo degli aggiustamenti per il ciclo è soggetto a tali difficoltà pratiche che potrebbe generare qualsiasi numero. Ma non solo. Perché mai cittadini e parlamenti dovrebbero imparare tali arcani concetti quando tutto quello che vogliono sapere è perché pagano le tasse? Infine, la Commissione ha giustamente riconosciuto che il metro corretto per misurare la virtù fiscale non è dato dall’equilibrio di bilancio annuale, ma dal fatto che i debiti pubblici, adeguatamente misurati, riescano a ridursi quando sono troppo alti.
Il 3 settembre la Commissione europea ha presentato le sue idee sulla revisione del Patto di stabilità e crescita. Si tratta di un ulteriore passaggio, dopo la Comunicazione di novembre 2002 (Pubblicata su lavoce.info del 26.11.2002) e quella di giugno 2004 (File pdf), verso un Patto più “intelligente”. Non sono però ancora proposte definitive e formali, ma piuttosto idee da cui partire per la discussione delle prossime settimane con gli Stati membri. Le idee della Commissione In sostanza, le idee della Commissione si sviluppano lungo due assi. In primo luogo, si propone una maggiore attenzione alla sostenibilità delle finanze pubbliche. Ciò si otterrebbe attraverso alcune modifiche legislative all’attuale sistema di regole tale da enfatizzare l’importanza delle condizioni del debito pubblico nella sorveglianza fiscale. Il secondo asse riguarda il ruolo da assegnare alla congiuntura economica. Attualmente, le condizioni cicliche sono considerate nell’analisi dell’obiettivo di medio termine (che è misurato in termini aggiustati per il ciclo), ma non nella procedura di deficit eccessivo: il tempo a disposizione per correggere il deficit una volta avviata la procedura è sostanzialmente indipendente dalla crescita economica. Il Trattato resta valido Nel complesso, il Trattato rimane pienamente valido e l’impianto del Patto di stabilità non viene messo in discussione: i deficit eccessivi devono essere evitati, l’obiettivo di medio termine deve garantire finanze pubbliche sane e la sorveglianza fiscale rimane uno strumento essenziale di coordinamento delle politiche economiche. Le proposte della Commissione tendono piuttosto ad aumentare la razionalità economica del Patto stesso: maggiore attenzione alla sostenibilità, che in ultima analisi ha un effetto sulla stabilità dei prezzi, maggiore attenzione alle condizioni strutturali della finanza pubblica – in particolare lo stock e la dinamica del debito -, maggiore attenzione alle condizioni del ciclo economico nel fissare le scadenze della procedura di deficit eccessivo. * L’autore opera presso la Direzione Generale Affari Economici e Finanziari della Commissione Europea, dove si occupa di finanza pubblica dei paesi europei e della riforma del Patto di Stabilità.
Per quanto riguarda la sostenibilità, la Commissione propone che il percorso di rientro dal deficit eccessivo (quando cioè il deficit supera il 3 per cento del Pil) sia modulato in base allo stock del debito pubblico. In pratica, paesi a basso debito potrebbero beneficiare di un percorso d’aggiustamento più lento rispetto a quello attualmente previsto dal Patto (due anni. Cfr. http://europa.eu.int/). Anche l’obiettivo di medio termine – il cosiddetto bilancio prossimo al pareggio o in surplus – si differenzierebbe in base al debito e ai rischi di sostenibilità delle finanze pubbliche. Ancora una volta, paesi con posizioni di bilancio virtuose potrebbero avere obiettivi di medio termine meno stringenti del bilancio in pareggio, vale a dire un deficit.
Si tratterebbe poi di rendere operativo il criterio del debito previsto dal Trattato di Maastricht. Secondo il Trattato, un paese è soggetto alla procedura di deficit eccessivo sia se non rispetta il limite del 3 per cento nel rapporto deficit/Pil, sia se il suo debito è superiore al 60 per cento del Pil e il tasso di riduzione non è soddisfacente. Per mancanza di chiarezza su cosa debba intendersi per tasso di riduzione soddisfacente, la parte del Trattato relativa al debito non è stata di fatto mai applicata. La Commissione sembrerebbe intenzionata a dedicare maggiore attenzione alle condizioni cicliche anche nella procedura di deficit eccessivo, ammettendo ad esempio che la bassa crescita possa giustificare un aggiustamento più lento di quello normalmente richiesto. Inoltre, si avanza l’idea di rivedere la cosiddetta clausola di eccezionalità. Questa prevede che solo una caduta del Pil reale di almeno lo 0,75 per cento in un anno possa evitare la procedura a un paese che ha superato la soglia del 3 per cento nel rapporto deficit/Pil. La clausola di eccezionalità potrebbe invece verrebbe rivista per contemplare anche casi di riduzioni del Pil meno marcate. Così facendo, si potrebbero verificare più frequentemente casi di paesi con deficit superiori al 3 per cento, ma che – in base alle condizioni cicliche – non vengono sottoposti a procedura.
E’ necessario evitare che l’approccio proposto finisca per aumentare la discrezionalità degli agenti, in primo luogo del Consiglio, con il risultato di favorire un maggiore “opportunismo” piuttosto che una maggiore “intelligenza”. Per questo la Commissione sembra in favore di un sistema che preveda anche un tempo massimo per la correzione dei deficit eccessivi, oltre il quale un paese non può andare. Questo coniugherebbe la flessibilità necessaria per tenere conto delle diverse condizioni nei paesi membri, con il giusto rigore per dare certezza alle regole, anche a quella componente del Trattato che prevede sanzioni. L’applicazione del criterio del debito pubblico previsto dal Trattato andrebbe anch’essa in questa direzione.
Un approccio come quello abbozzato dalla Commissione non è maggiormente punitivo rispetto al sistema di regole attualmente in vigore per i paesi ad alto debito, ma piuttosto offre certezza che tutti i paesi si impegnino al risanamento fiscale per assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche nel lungo periodo. È un sistema che crea incentivi per politiche fiscali sane in periodi di alta crescita: la riduzione del debito pubblico infatti potrebbe portare in dote una maggiore flessibilità sul bilancio da usare in periodi di bassa crescita o per intraprendere costose riforme strutturali.
L’agenda di Lisbona
Tra i dossier che attendono il presidente Durão Barroso sulla scrivania, quello più impegnativo riguarda l’agenda di Lisbona, un ambizioso programma di riforme economiche approvato a Lisbona dai Capi di Stato e di Governo dell’Unione nel 2000, con l’obiettivo di fare dell’Unione “la più competitiva e dinamica economia della conoscenza entro il 2010”. Tutti i campi della politica economica sono coperti: innovazione e imprenditorialità, riforma del welfare e inclusione sociale, capitale umano e riqualificazione del lavoro, uguali opportunità per il lavoro femminile, liberalizzazione dei mercati del lavoro e dei prodotti, sviluppo sostenibile. Gli obiettivi sono condivisibili: ma essi appartengono perlopiù alla sfera delle decisioni nazionali. Nella maggior parte di quelle materie l’Unione non ha né competenze, né poteri d’intervento.
e il coordinamento aperto delle politiche economiche
Tuttavia, il Consiglio europeo, dietro impulso della Commissione, ha utilizzato un nuovo metodo il coordinamento aperto delle politiche economiche, già previsto dal Trattato per le politiche dell’occupazione per giocare un ruolo crescente in questi campi. Il coordinamento aperto contempla la definizione d’obiettivi comuni a livello dell’Unione, l’adesione volontaria a tali obiettivi da parte dei paesi membri, e la verifica dei progressi compiuti da parte del Consiglio europeo attraverso meccanismi di benchmarking e “pressione dei pari”. Com’era inevitabile, il coordinamento aperto non ha mantenuto la promessa di facili realizzazioni. Inoltre, l’illusione di poter ottenere dal Consiglio europeo la ripresa della crescita e della produttività è diventata un diversivo per quei governi nazionali che non avevano la forza di decidere da soli. Per rimediare a tali mancanze, sono state proposte due vie d’uscita. La prima consiste nel far discutere ai parlamenti nazionali lo stato d’attuazione del programma di Lisbona, che in tal modo dovrebbero assumersene la responsabilità; la seconda, di accrescere la flessibilità del vincolo di bilancio del Patto di stabilità in funzione della realizzazione di certi obiettivi di Lisbona (ad esempio, le liberalizzazioni). Il mio suggerimento al presidente Barroso è di trovare il coraggio di gettare alle ortiche l’agenda di Lisbona. Ciò chiarirà, oltre ogni dubbio, che la responsabilità per la crescita, la disoccupazione e l’innovazione appartiene ai governi e ai parlamenti nazionali.
Il coordinamento delle politiche macro-economiche
Il mio secondo suggerimento riguarda il coordinamento delle politiche macro-economiche nazionali. Il Trattato di Maastricht aveva prefigurato uno schema semplice per la fase dell’unione economica e monetaria. La politica monetaria fu centralizzata e affidata ad una banca centrale indipendente, mentre la politica di bilancio fu lasciata agli stati membri, ma con il duplice vincolo fissato dalla procedura dei disavanzi eccessivi del Trattato del 3 percento sul rapporto tra il disavanzo (indebitamento netto) del settore pubblico e il pil e del 60 percento sul rapporto tra il debito e il pil (o almeno della tendenza a convergere verso tale valore). In seguito, il Patto di stabilità e crescita ha aggiunto l’ulteriore requisito dell’equilibrio “tendenziale”, nel medio termine, del saldo del bilancio pubblico. Ciò rispose all’obiettivo di prevenire il ritorno a politiche di bilancio destabilizzanti dopo l’ingresso nell’euro, creando al contempo lo spazio per oscillazioni adeguate del disavanzo, in funzione anticiclica, all’interno del limite del 3 percento.
Nonostante la sua credibilità sia danneggiata
La credibilità di quest’apparato è stata malamente danneggiata oltre che dalle difficoltà dei paesi membri a rispettare quei vincolo in un periodo prolungato di bassa crescita – dalla controversia pubblica tra il Consiglio Ecofin e la Commissione europea, nel novembre 2003, sull’applicazione della procedura dei disavanzi eccessivi alla Francia e alla Germania. Ciò non implica che l’apparato debba essere abbandonato.
un vincolo esterno sulle politiche di bilancio dei paesi dell’Unione è necessario
…come assicurazione collettiva contro il rischio di un’accumulazione esplosiva di debito pubblico in uno stato membro un rischio accresciuto dall’impatto dell’invecchiamento della popolazione sulle spese per l’assistenza e le pensioni la quale potrebbe danneggiare la stabilità finanziaria dell’Unione. Inoltre, tale vincolo fornisce un’ancora alle politiche di bilancio dei paesi membri con deboli sistemi politici e istituzionali.
ma esso dovrebbe essere riferito alla sostenibilità del debito pubblico
Ma l’apparato deve essere rivisto. Non condivido la posizione di coloro che chiedono di escludere le spese d’investimento dal disavanzo pubblico consentito: ciò fornirebbe nuovo stimolo agli accorgimenti contabili “creativi” e alimenterebbe il rischio d’accumulazione eccessiva di debito pubblico. Piuttosto, mi sembra che si dovrebbe spostare l’enfasi dei meccanismi di sorveglianza collettivi dal disavanzo allo stock del debito e alla sua stabilità intertemporale.
e a contenere la crescita della spesa pubblica
Inoltre, il criterio di sostenibilità del debito pubblico dovrebbe essere integrato da un vincolo sul tasso di crescita tendenziale della spesa pubblica, che dovrebbe essere mantenuto sotto a quello del pil (nominale). La ragione è semplice: se le spese aumentano più del pil, alla fine si dovranno aumentare le imposte per sostenerne l’onere; e questo, abbassando il tasso di crescita potenziale del pil, finirà per ripercuotersi negativamente sullo stato di sostenibilità del debito pubblico.
Si dovrebbero anche aumentare i poteri della Commissione nell’iniziare la procedura dei disavanzi eccessivi, come da molte parti è stato proposto. Purché mai più essa dimentichi che la sorveglianza sulle politiche di bilancio degli stati membri è un compito che richiede nel massimo grado giudizio politico, e non può essere lasciato nelle mani di avvocati e meccanici esecutori.
Soprattutto, occorre concentrarsi sul completamento del mercato interno
Infine, la nuova Commissione dovrebbe assegnare priorità assoluta al completamento del mercato interno dell’Unione, un campo nel quale essa dispone di incisivi poteri legislativi e di esecuzione. Quest’obiettivo è ben lontano dall’essere realizzato, come risulta evidente dalla diffusione degli aiuti di stato e dalla mancata applicazione di direttive chiave quali quelle su appalti e forniture pubbliche e sulla liberalizzazione dell’energia. Inoltre, le norme comuni di liberalizzazione ancora mancano per molti servizi, dalla distribuzione ai servizi professionali ai servizi pubblici locali. L’evidenza empirica indica che la bassa produttività in questi servizi spiega largamente il divario di produttività dell’Unione rispetto agli Stati Uniti.
Il
Il primo maggio dieci nuovi paesi entreranno nell’Unione europea in un contesto di crescente scetticismo sul futuro della Ue.
Una barca senza timoniere
È sempre più evidente che si è messa in mare una barca senza timoniere. Gli atteggiamenti dei nuovi paesi membri sono altrettanto preoccupanti. Citiamo due esempi emblematici.
Il primo è il referendum tenutosi a Cipro, che ha visto la popolazione greca opporsi al piano dell’Onu per una riunificazione del paese.
Il secondo è dato dai consensi crescenti in Polonia per il partito populista di Lepper. Secondo il quotidiano Rzeczpolita, se si tenessero elezioni oggi, Lepper risulterebbe vincitore.
Questi non sono casi isolati. Con l’eccezione della Slovenia, i partiti di governo che hanno accompagnato i paesi nella Ue hanno consensi molto bassi (vedi tabella).
È difficile giudicare la dinamica politica nei vari paesi e le ragioni del netto calo di consensi verso i partiti pro-europeisti. È peraltro indubbio che qualcosa non abbia funzionato nel processo di allargamento, se si considera che l’ingresso nella Ue è stato uno dei principali motori del cambiamento e delle riforme in quei paesi.
Responsabilità equamente divise
A nostro avviso le responsabilità sono da attribuire, in parti uguali, ai vecchi paesi membri e alle istituzioni della Ue.
Si pensi a come è stato affrontato il problema dell’apertura delle frontiere ai cittadini dei nuovi paesi membri.
L’immigrazione è il principale beneficio economico per i vecchi paesi della Ue, che sono paesi maturi con una popolazione stagnante. L’immigrazione di cittadini dei nuovi paesi, molto più poveri, porterebbe significativi benefici al funzionamento del mercato del lavoro e contribuirebbe a migliorare le prospettive di sostenibilità dei piani pensionistici in molti paesi della Ue.
Questo, e forse unico, chiaro beneficio economico per i vecchi paesi Ue non potrà essere sfruttato, perlomeno nei prossimi anni, poiché si è deciso di rinviare fino a sette anni l’applicazione della libera circolazione dei cittadini nei paesi Ue.
A tale mancanza di visione di lungo periodo si è poi aggiunto il discredito delle istituzioni europee, in primis della Commissione europea.
Le vicende sul Patto di stabilità ne sono l’esempio più rappresentativo. La disinvoltura con la quale l’Ecofin ha liquidato le raccomandazioni della Commissione sull’applicazione delle regole fiscali alla Germania e alla Francia, ha minato la credibilità delle istituzioni europee.
Il segnale nei confronti dei nuovi paesi è chiaro: entrare nella Ue non vuol dire entrare in un’Unione condotta sulla base di regole trasparenti e, soprattutto, da rispettare.
Fuori dall’euro
Come si può notare nella tabella qui sotto, i paesi dell’Europa centro-orientale entrano nella Ue con elevati deficit fiscali, nettamente al di sopra del tetto massimo consentito del 3 per cento.
Non si può certo affermare che tali deficit sono causati da una posizione ciclica sfavorevole, poiché il tasso di crescita delle economie dei paesi entranti è sostenuto. Tali deficit sono il risultato di politiche economiche errate.
I paesi più piccoli (i paesi baltici e Slovenia) hanno seguito strategie diverse, probabilmente perché più consapevoli dei rischi che corrono paesi piccoli totalmente aperti ai movimenti di merci e di capitali se le politiche macroeconomiche non sono sostenibili.
Per i paesi più grandi non vi è stata alcuna pressione da parte della Commissione europea o della Banca centrale europea. Anzi, con l’obiettivo di ritardare i tempi dell’adozione dell’euro, la Commissione e la Bce hanno dato segnali evidenti di tolleranza per elevati deficit.
Si è diffusa l’opinione che finché resteranno fuori dall’euro i nuovi paesi membri non saranno soggetti ai vincoli fiscali della Ue. Questo fatto, scarsamente notato, è grave poiché i vincoli fiscali si applicano, secondo i Trattati dell’Unione, a tutti i paesi membri della Ue e non soltanto ai paesi della zona euro.
Fino a quando saranno fuori dall’euro i nuovi paesi membri rischiano crisi valutarie e finanziarie causate dal trinomio esplosivo di alti deficit pubblici, tassi di cambio più o meno controllati come prevede la Ue e perfetta mobilità dei capitali. L’esperienza dell’America Latina dimostra la vulnerabilità dei paesi emergenti a movimenti di capitali erratici, con boom seguiti da fughe repentine.
L’Ungheria ha già adottato il sistema di cambio previsto dalla Ue prima dell’ingresso nell’euro, ovvero quello di una banda (del 15 per cento sopra e sotto) attorno a una parità.
I risultati sono evidenti. Negli ultimi due anni il fiorino è stato sottoposto ad attacchi speculativi, prima verso l’apprezzamento poi verso il deprezzamento. La banca centrale ungherese ha tentato di scongiurare una crisi valutaria alzando drasticamente i tassi di interesse che sono saliti fino a toccare il 12 per cento, in un paese che ha un tasso di inflazione di poco superiore al 4 per cento.
Dopo che i mercati avevano scommesso su un rapido ingresso dei paesi entranti nell’euro, con una conseguente convergenza dei tassi di interesse ai livelli europei, ora le aspettative sono che l’ingresso nell’euro avverrà in un futuro remoto, con effetti negativi sui tassi di interesse interni anche per altri paesi, come ad esempio la Polonia. I nuovi paesi membri, in particolare quelli più grandi, sono avviati verso un periodo di forte instabilità economica che rischia di vanificare i grandi vantaggi del loro ingresso nella Ue. Al tempo stesso le tendenze politiche interne spingono in direzione di governi populisti e spesso anti-europeisti. Dall’euforia degli anni passati si sta passando a uno scetticismo generalizzato che prevede forti spinte nazionaliste.
Le responsabilità dei governi e delle istituzioni europee sono grandi. Un evento storico di portata straordinaria si sta trasformando in un processo caotico che accresce le spinte per un indebolimento del disegno di costruzione di una grande Europa.
La speranza è che i governi di tutti i paesi membri, vecchi e nuovi, comprendano la necessità di cambiare rotta per evitare che sfumi una grande opportunità.
Per saperne di più
Per una discussione più approfondita si veda Boeri, Tito e Fabrizio Coricelli, Europa: più grande o più unita?, Ed. Laterza, 2003.
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