La scuola italiana non funziona. Ma non è un problema di risorse: nei paesi che spendono quanto lItalia in formazione primaria e secondaria, la performance dei quindicenni è di gran lunga migliore che da noi. E’ un problema di qualità degli insegnanti? E’ difficile, ma non impossibile, misurarla e dovrebbe essere maggiormente incentivata. Ma per farlo bisogna affermare la cultura della valutazione, vincendo fortissime resistenze alle rilevazioni. La valutazione sulla base di parametri oggettivi è ancora più importante nel caso dei concorsi universitari. Apriamo il confronto su due proposte alternative. La prima propone di mantenere i concorsi per l’ingresso nella carriera universitaria a livello decentrato, attribuendo agli atenei locali anche la responsabilità finale (e lonere economico corrispondente) della conversione a tempo indeterminato dei contratti di docenza e/o ricerca. La seconda propone di tornare ai concorsi nazionali per combattere il malcostume dei concorsi fasulli. Ma non basta probabilmente riformare i concorsi. Perchè luniversità italiana incentivi la ricerca bisogna smettere di premiare solo (e troppo) lanzianità di servizio, rendendo il sistema impermeabile alla concorrenza esterna, come dimostrano i dati sui pochissimi docenti stranieri presenti in Italia. Mentre le risorse disponibili al sistema universitario italiano non sono cresciute in termini reali negli ultimi 5 anni, il governo ha scommesso sulle iniziative di eccellenza come l’Istituto italiano di tecnologia. Se ne è parlato più prima della sua nascita che adesso che sta per concludersi la fase di startup. Al commissario unico e al direttore scientifico dell’Iit abbiamo formulato alcune domande per capire lo stato di avanzamento di questo progetto. Ospitiamo le risposte di Vittorio Grilli, commissario unico dell’Iit e Roberto Cingolani, direttore scientifico dell’istituto.
Per il reclutamento dei professori universitari, fino alla riforma del 1998 la legge italiana prevedeva che si svolgesse un concorso unico nazionale ad anni alterni, un anno per quelli di prima fascia e nellaltro anno per quello degli associati. Quanto alla commissione giudicatrice, per la prima fascia, tutti i professori della materia erano chiamati a eleggere dieci possibili commissari, tra i quali venivano sorteggiati i cinque membri. Per gli associati, il sorteggio dei possibili commissari precedeva lelezione. Alle singole facoltà interessate era data poi la scelta tra i vincitori per la copertura delle cattedre messe a concorso. Il circolo vizioso del passato Perché quel sistema funzionasse bene (nei limiti consentiti dal contesto del sistema universitario italiano), mancava solo una regola: scioglimento automatico della commissione che non avesse esaurito i propri lavori entro tre o quattro mesi; ed elezione di una nuova, con esclusione dallelettorato passivo per i vecchi commissari. I gravi difetti dellattuale sistema Questa alluvione di ricorsi giudiziali è stata una ragione non secondaria della scelta del ministro Berlinguer di decentrare i concorsi: con la riforma del 1998 sono ora i singoli atenei a bandirli (e quindi a doversi eventualmente difendere davanti al Tar). Ma il nuovo sistema ha due difetti gravissimi. In primo luogo, garantisce un forte privilegio al candidato appartenente alluniversità che bandisce il concorso, alla quale compete la nomina di uno dei membri della commissione; è rarissimo, infatti, che il “candidato interno” risulti perdente; lunico dato incerto, quando è incerto, è il nome del secondo vincitore, destinato a essere chiamato altrove. Inoltre, il nuovo sistema prevede lelezione di tante commissioni quanti sono i concorsi banditi dagli atenei: ciò che comporta un gran numero di voti e di candidature, con corrispondente enorme lavorio elettorale (praticamente ininterrotto: le “tornate” elettorali sono due, tre, persino quattro allanno), seguito da giochi estremamente complessi tra le commissioni di concorsi diversi cui partecipano contemporaneamente gli stessi candidati. E poiché per questo lavorio elettorale e post-elettorale sono normalmente più disponibili i professori che si dedicano meno intensamente alla ricerca e allinsegnamento, il sistema presenta un alto rischio di favorire nettamente gli interessi di questi ultimi rispetto a quelli dei professori migliori. Una possibile soluzione Alla radice di questi mali del nostro sistema universitario sta, certo, il “valore legale” della laurea che toglie gran parte del significato alla concorrenza tra gli atenei; e a questo si accompagnano altri difetti strutturali che non si eliminano con la sola riforma per quanto ben congegnata – del reclutamento dei docenti (per un disegno di riforma organica vedi qui sotto l’articolo di Gagliarducci, Ichino, Peri, Perotti). Ma il sistema di reclutamento oggi in vigore fa troppi danni per essere lasciato sopravvivere anche solo per poco. Nel contesto attuale, forse la scelta migliore è quella di un ritorno al sistema precedente al 1998 per i professori di prima fascia, con il correttivo di cui si è detto sopra: i professori di ciascuna materia votano una volta allanno e una sola, per una commissione composta da membri non rieleggibili nella tornata successiva; la commissione designa ogni anno un piccolo numero di idonei alla cattedra; e se non lo fa entro tre mesi decade automaticamente. Libero poi ciascun ateneo di chiamare uno degli idonei, se concorda con la commissione nel ritenerlo tale, anche rispetto ai propri standard, alle proprie esigenze didattiche e ai propri programmi di ricerca.
Poiché questa regola non cera, i lavori delle commissioni erano sovente interminabili, essendo intralciati dai veti incrociati e dai complessi giochi di alleanze e contro-alleanze accademiche in cui i commissari venivano invischiati. I concorsi duravano anni. Così, a ogni nuovo concorso, il numero di posti in palio era molto elevato; il che contribuiva ulteriormente a rallentare i lavori. Lintervallo lungo tra un concorso e laltro e il numero abnorme dei posti in palio contribuivano a drammatizzare limportanza del concorso e a rallentarne lo svolgimento, in un evidente circolo vizioso. La drammatizzazione portava poi con sé un altissimo numero di ricorsi dei candidati perdenti al Tribunale amministrativo, dai quali il ministro dellIstruzione era letteralmente sommerso.
Questo spiega e in qualche misura giustifica la prassi, invalsa in numerosi comparti accademici, di affidare a uno o più professori anziani il compito di “dirigere il traffico” concorsuale, raccogliendo le candidature, valutandone il merito, stabilendo una sorta di graduatoria di precedenza ragionata e proponendo alla comunità accademica le corrispondenti indicazioni elettorali per la costituzione delle commissioni. Anche se comprensibile e, dove funziona in modo pulito, giustificabile come male minore questa prassi significa che, in realtà, i concorsi tendono a ridursi a una formalità vuota: la vera sede in cui si decidono i vincitori è lorgano informale di “coordinamento”. Quando poi il coordinatore rafforzato dagli alti costi di transazione che si impongono a chi tenti di scalzarlo dalla sua posizione si trasforma in dittatore, minacciando e applicando sanzioni contro chi disattende le sue indicazioni, si verifica la grave degenerazione del sistema denunciata da Gino Giugni due settimane or sono. Lordinamento statale, come ci ha insegnato Ronald Coase, serve essenzialmente per ridurre i costi di transazione. Quando esso, invece di ridurli, li moltiplica, tende a nascere spontaneamente qualche altro ordinamento finalizzato a ridurre quei costi, che si sovrappone allordinamento statale. Con risultati sovente pessimi: la spontaneità del fenomeno non costituisce affatto una garanzia di bontà del rimedio.
Questo scritto propone un sistema per il reclutamento dei docenti universitari che possa facilitare laccesso alla carriera accademica a chi è giovane e si dedica principalmente alla ricerca. Il nostro schema adotta la produzione scientifica come criterio fondamentale per lassunzione e lentrata in ruolo dei giovani ricercatori il cui lavoro verrebbe valutato dai dipartimenti di riferimento e da commissioni composte da ricercatori di “chiara fama” (come nel Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca). Tuttavia, il nostro schema ha il pregio di non proporre un meccanismo esclusivo rispetto ad altri sistemi di reclutamento. In particolare, riteniamo che debba affiancare un sistema concorsuale completamente decentrato regolato da incentivi e disincentivi pecuniari per il miglioramento della qualità (scientifica e didattica) degli atenei. Perché intervenire Nella seduta del 13 e 14 aprile del 2005, il Consiglio universitario nazionale ha approvato un parere sul riordino dello stato giuridico e del reclutamento dei professori universitari che, esprimendo contrarietà alla messa in esaurimento del ruolo dei “ricercatori”, propone larticolazione “della docenza universitaria in tre livelli, con precisa definizione delle funzioni specifiche di ognuno di essi”. (1) La nostra proposta Questi difetti non rendono inopportuno il principio meritocratico alla base del sistema liberista, ma richiedono lintroduzione di un meccanismo parallelo per il reclutamento dei docenti rivolti alla ricerca. Già oggi le unità di ricerca che si formano nei dipartimenti possono ottenere dal ministero il finanziamento di posizioni a contratto nellambito dei progetti di ricerca. Si tratta, in generale, di contributi inadeguati e limitati a un massimo di tre anni. I vantaggi Riassumiamo i principali vantaggi di questo sistema. Innanzitutto, è basato sul merito scientifico perché “incentiva” comportamenti virtuosi nella selezione dei ricercatori, condizionando la concessione dei fondi ai risultati della ricerca. È un obiettivo condiviso dal sistema “liberista”, che pensiamo debba essere introdotto come sistema principale per lassunzione e la promozione dei docenti universitari. Tuttavia, crediamo che il nostro meccanismo possa funzionare come “complemento” sia dellattuale ordinamento che di quello “liberista”. Il sistema da noi proposto interviene ex-ante, cioè allinizio del progetto quando i ricercatori vengono selezionati, garantendo un punto di partenza paritetico a tutti i dipartimenti in competizione. Inoltre, è maggiormente selettivo: concede premi o penalità ai singoli dipartimenti, evitando che “le politiche di ateneo” possano contrastare lefficacia degli incentivi ministeriali, mentre consente ai docenti più impegnati nella ricerca di acquisire un maggiore potere accademico. (1) Sessione 174, 13 e 14/4/2005
Chi ritiene che la qualità della ricerca e linserimento dei giovani nelluniversità italiana siano obiettivi fondamentali, non può che essere deluso dal documento del Cun. Non si capisce a cosa serva un terzo livello di docenza. Non si avverte lallarme per lautomatismo che caratterizza la progressione di carriera dei professori. Del resto, nemmeno il ministro Moratti offre proposte soddisfacenti. Il prospettato ritorno al “concorso nazionale” non risolve nessuno dei problemi principali. Alcuni sostengono giustamente lesigenza di “liberalizzare” il reclutamento per concentrarsi sui meccanismi di finanziamento degli atenei, incentivando così comportamenti virtuosi. Gli atenei che assumono ricercatori bravi dovrebbero avere più soldi, quelli che assumono parenti e amici dovrebbero essere penalizzati. Il criterio di ripartizione dei fondi dovrebbe essere affidato a una commissione composta da accademici di fama italiani e stranieri. Questa proposta, che chiameremo “liberista”, semplifica enormemente le procedure, cerca di premiare il merito scientifico, ma, secondo noi, soffre di alcuni difetti che la nostra prospettiva cerca di risolvere.
In base al sistema liberista, i dipartimenti hanno incentivi deboli: possono aspettarsi di conseguire solo vantaggi marginali da un comportamento virtuoso perché lassegnazione dei fondi avverrebbe sulla base degli atenei, non dei dipartimenti. Inoltre, la penalizzazione pecuniaria ex post ha due problemi. In primo luogo, non è facilmente praticabile perché sanziona, negando i finanziamenti, sulla base di criteri stabiliti posteriormente alle condotte.
In secondo luogo, ha il difetto di colpire tutti i dipartimenti e le facoltà compresi nellateneo, indipendentemente dal loro comportamento individuale. Infine, la proposta liberista sembra penalizzare gli atenei periferici e di recente formazione, generalmente caratterizzati da una breve serie di risultati scientifici e una scarsa capacità di attrazione.
Questo sistema dovrebbe essere potenziato e adeguato. Vogliamo fare in modo che i contratti di lavoro per i ricercatori così finanziati (1) siano retribuiti in modo adeguato, (2) abbiano maggiore durata riducendo lincertezza dei giovani ricercatori e, soprattutto, (3) permettano limmissione nellorganico di ruolo delluniversità, previo parere favorevole di una commissione ministeriale e degli organi accademici di riferimento. Il sistema che abbiamo in mente potrebbe essere facilmente organizzato. Ogni anno ciascun dipartimento può sottoporre al ministero alcuni progetti di ricerca di durata compresa tra tre e sei anni. La flessibilità è completa: ciascun progetto risponde a esigenze e caratteristiche della disciplina di riferimento, ma include sempre la richiesta dei fondi necessari al suo completamento e, in particolare, del finanziamento del numero di ricercatori desiderati. I rapporti di lavoro prodotti sono quindi motivati dal progetto di ricerca, e perciò di eguale durata. Le retribuzioni di ciascun ricercatore sono flessibili e decise in autonomia da ciascun dipartimento: soggette a un limite minimo, non ne hanno uno massimo. I dipartimenti possono essere incoraggiati, da incentivi fiscali ai donatori e premi ministeriali, a “cofinanziare” il progetto procurandosi finanziamenti aggiuntivi (privati, ateneo, eccetera). Il ministero costituisce un fondo per ciascuna disciplina e i dipartimenti che vi appartengono competono per lattribuzione delle risorse ministeriali. Naturalmente, questi fondi devono essere ben più consistenti di quelli oggi stanziati. Potrebbero essere aumentati anche prelevando denaro dal fondo per la gestione ordinaria degli atenei.
Lapprovazione dei progetti e la conseguente assegnazione dei fondi viene quindi decisa sulla base del giudizio di una commissione nazionale composta da studiosi di chiara fama impegnati in Italia e all’estero, per ciascuna disciplina di riferimento. Non tutti i progetti presentati devono necessariamente essere finanziati: una preselezione esclude quelli non meritevoli. Come si vede, la caratteristica fondamentale del sistema fin qui proposto è quella di garantire un punto di partenza paritetico a ciascun dipartimento, tenendo fermo lobiettivo di incentivare comportamenti virtuosi, come nel sistema liberista, e fornendo un canale aggiuntivo per lassunzione dei giovani ricercatori.
Una volta attribuiti i fondi, i dipartimenti bandiscono con procedura pubblica e trasparente le posizioni a contratto coerenti col progetto approvato. Non hanno però alcun vincolo riguardo alle procedure di selezione, ai possibili vincitori e alle remunerazioni, eccetto lincompatibilità con altri incarichi di docenza a tempo pieno.
Infine, alla scadenza dei termini del progetto di ricerca, le commissioni nazionali valutano la coerenza tra obiettivi e risultati dei progetti finanziati (numero e qualità delle pubblicazioni scientifiche, risultati di esperimenti, brevetti, eccetera). Il risultato di queste valutazioni porta allassegnazione del finanziamento necessario a trasformare, presso il dipartimento ove si è svolta la ricerca, una o più posizioni a tempo determinato in posti di ruolo per professori di prima o seconda fascia (ad arbitrio della commissione). Oppure, alternativamente, alla negazione di tale finanziamento e alla conclusione del rapporto di lavoro degli assunti. Il numero delle posizioni di ruolo finanziate mediante questa procedura dipende dallammontare dei fondi ministeriali stanziati. Il sistema non subisce la pressione corporativa: da una parte la limitatezza dei fondi e dallaltra il doppio livello di controllo (commissione ministeriale e dipartimento afferente) garantiscono la selettività delle “conferme in ruolo”.
Quest’anno per la prima volta si è registrata nelle scuole una notevole opposizione alle rilevazioni del Servizio nazionale di valutazione degli apprendimenti, a diversi livelli e con diverse motivazioni. Alcune critiche sembrano francamente poco condivisibili, altre sono decisamente più fondate. Come l’obbligatorietà, l’oggetto e il campo delle rilevazioni e il periodo in cui vengono effettuate. Ma soprattutto la scarsa qualità delle prove. Si rischia così di bloccare la diffusione della cultura della valutazione nella scuola.
In aprile si sono svolte le rilevazioni del “Servizio nazionale di valutazione degli apprendimenti”, organizzate e gestite dallInvalsi.
Per la prima volta da quando sono stati organizzati i cosiddetti “Progetti pilota”, nel 2001-2002, si è registrata nelle scuole una notevole opposizione alle rilevazioni, a diversi livelli e con diverse motivazioni. Allo stesso tempo, prese di posizione critiche sono state assunte da parte di organizzazioni sindacali, di associazioni professionali e di genitori, di comitati spontanei che si sono formati in questi ultimi due anni in opposizione alla legge di riforma della scuola promossa dal ministro Moratti.
I motivi delle resistenze
Basta navigare un po in Internet per raccogliere un campionario dei motivi allorigine delle proteste che si sono manifestate nelle scuole. Alcuni di questi motivi sembrano francamente poco condivisibili, altri hanno ben diversa e più fondata motivazione. Tra i primi rientrano quelli che denunciano ipotetiche situazioni di stress a cui verrebbero sottoposti i “bambini” della scuola elementare; oppure quelli che sottolineano limpossibilità e lillegittimità di qualsiasi forma di rilevazione esterna, che non sia preventivamente negoziata e concordata con insegnanti e genitori. Altri motivi appaiono invece più fondati e più mirati.
Obbligatorietà delle prove Da questanno la partecipazione alle rilevazioni è obbligatoria per il primo ciclo dellistruzione (scuole elementari e medie). In realtà, non cè alcuna circolare ministeriale che sancisca questa obbligatorietà. La comunicazione alle scuole è arrivata dallInvalsi e sulla base della approvazione di alcuni provvedimenti normativi: la legge di riforma della scuola che prevede listituzione del Servizio nazionale di valutazione; il decreto legislativo con il quale è stato riordinato lInvalsi, trasformandolo definitivamente (per ora) in Istituto nazionale per la valutazione del sistema dellistruzione e della formazione; la pubblicazione delle Indicazioni nazionali, allegate al decreto legge 59/2004. Ma in nessuno di questi documenti è sancita esplicitamente la obbligatorietà della partecipazione alle rilevazioni. Il Miur ha interpretato in termini di obbligatorietà quanto nel decreto istitutivo del Servizio nazionale di valutazione viene presentato in termini di “concorrenza“: “(…) al conseguimento degli obiettivi di cui al comma 1 concorrono l’Istituto nazionale di valutazione di cui all’articolo 2 e le istituzioni scolastiche e formative“.
Loggetto della rilevazione. Per la costruzione delle prove si è fatto riferimento agli Osa (Obiettivi specifici di apprendimento) contenuti nelle Indicazioni nazionali. Le Indicazioni sono allegate al decreto 59/04 e di fatto non si possono ancora considerare obbligatorie (anche in riferimento alla normativa vigente sullautonomia delle istituzioni scolastiche).
Il campo della rilevazione. La rilevazione è limitata agli apprendimenti. Non viene utilizzato alcun questionario che consenta di interpretare i risultati conseguiti con le variabili socio-culturali di provenienza degli studenti. Il cosiddetto “questionario di sistema” a tutto aprile non era stato ancora inviato alle scuole e, comunque, non è prevista una sua utilizzazione per analizzare le variabili di contesto (scolastico) in rapporto ai risultati conseguiti dagli studenti nelle prove. Ulteriori critiche vengono rivolte allattendibilità e alla trasparenza delle procedure di rilevazione, alla valenza culturale delle prove, alluso dei risultati della rilevazione.
Le ambiguità e le contraddizioni
Queste critiche sarebbero già di per sé abbastanza rilevanti. In realtà la situazione è ancora peggiore, gli elementi di ambiguità e di contraddizione sono più numerosi.
Innanzitutto, permane lambiguità sulloggetto delle rilevazioni. Leggendo i vari documenti normativi e i materiali pubblicati sul sito dellInvalsi, di volta in volta si parla di Osa, di conoscenze e abilità, di competenze. Su questo punto specifico va ricordato che la legge di riforma riserva esplicitamente alle rilevazioni nazionali il compito di individuare soltanto le conoscenze e le abilità, ma non le competenze, la cui valutazione è spetta in modo esclusivo degli insegnanti.
In secondo luogo, anche se lobiettivo dichiarato sembra essere quello di contribuire alla valutazione del sistema scolastico, la decisione di condurre una rilevazione non campionaria, ma censimentaria farebbe pensare alla volontà di utilizzare i risultati delle rilevazioni per valutare le singole scuole. Del resto, il ministro Moratti ha più volte affermato che, grazie al Servizio nazionale di valutazione, i genitori avranno utili elementi di giudizio per decidere a quale scuola iscrivere i propri figli.
In terzo luogo, il periodo dellanno scolastico in cui vengono effettuate le rilevazioni è quanto meno singolare. Non siamo ancora alla fine dellanno scolastico e quindi le rilevazioni non possono riferirsi a quanto gli studenti hanno acquisito nelle classi che stanno frequentando. Daltro canto, sono passati ormai troppi mesi perché le rilevazioni possano essere destinate a misurare i risultati conseguiti nel precedente anno scolastico. È chiaro quindi che, da questo punto di vista, la rilevazione non è né carne, né pesce. Ma dopo tre progetti pilota non è più accettabile che ancora si parli di una prova volta a “testare la macchina organizzativa”. La riforma prevede che queste rilevazioni debbano in futuro essere effettuate allinizio dellanno scolastico per poter essere utilizzate in funzione diagnostica da parte degli insegnanti e delle scuole. Chi abbia un minimo di consuetudine con i problemi connessi alla realizzazione di rilevazioni su scala così larga e con i problemi legati alla elaborazione e alla analisi dei dati, sa bene che tutto ciò richiede alcuni mesi di lavoro e che quindi tale obiettivo è chiaramente non perseguibile.
Un quarto motivo di ambiguità, anzi di forte critica, è relativo alla qualità delle prove utilizzate e delle modalità con cui sono state elaborate. Fino ad ora non un solo dato è stato reso pubblico sulle caratteristiche metriche delle prove.
Preoccupa anche il fatto che tali prove non sono accompagnate come è prassi normale in tutte le indagini da questionari volti ad acquisire informazioni sulle variabili di contesto. In che modo interpretare, quindi, i dati raccolti? Lassenza di informazioni su tali variabili sarebbe giustificabile solo se la rilevazione avesse per obiettivo la certificazione di livelli di prestazione predefiniti. Ma questo non accade nelle “valutazioni di sistema” e, comunque, presuppone la definizione di standard di prestazione, articolati per ciascun anno scolastico, che nessuno ha provveduto a predisporre.
I rischi e i danni in prospettiva futura
Purtroppo, le reazioni negative determinate dal modo in cui le rilevazioni vengono impostate e realizzate stanno trasformandosi in un rifiuto generalizzato nei confronti della valutazione tout court. Il rischio è che sarà sempre più difficile distinguere tra posizioni di conservazione, contrarie a qualsiasi introduzione di momenti seri di valutazione nel nostro sistema scolastico, e posizioni che giustamente individuano le ambiguità e le caratteristiche negative delle rilevazioni in atto. Per anni, si è parlato della necessità di lavorare per la diffusione di una cultura della valutazione nella scuola, tra gli insegnanti e anche tra studenti e genitori.
Limpressione è che la (scarsissima) qualità delle rilevazioni proposte dallInvalsi nellambito del nuovo sistema di valutazione vadano in direzione opposta, con il rischio di buttare il “bambino” della valutazione insieme allacqua sporca delle rilevazioni di questanno.
È da poco apparsa su Econometrica una importante ricerca sulla qualità della scuola, alla quale hanno lavorato studiosi che si occupano di scuola da trent’anni. Le due questioni che l’articolo affronta sono queste: quanto contano gli insegnanti nel determinare la qualità dell’apprendimento? E cosa determina la qualità degli insegnanti? Un insegnante vale laltro? A giudicare dall’alacrità con cui i genitori si informano sui possibili insegnanti dei figli, e da tutto quello che sono disposti a fare per ottenere che i figli entrino nelle classi degli insegnanti che vengono giudicati bravi, sembrerebbe del tutto evidente che la risposta alla prima domanda non possa che essere: “gli insegnanti contano quasi più di tutto il resto”.
Il problema è che quando per la prima volta, negli Stati Uniti con il Coleman Report del 1966 si cominciarono a misurare gli effetti delle caratteristiche principali degli insegnanti, quali per esempio la loro esperienza di insegnamento e il loro livello di istruzione, sui risultati degli alunni, si trovò che risultavano sorprendentemente deboli. Da allora, le ricerche si sono ovviamente moltiplicate, gli strumenti di misurazione raffinati, sono poi cominciati ad arrivare risultati dei test sulla qualità dell’apprendimento, si sono evolute le tecniche econometriche di analisi dei dati, e così via. Tutte queste ricerche non hanno fatto altro che riconfermare quelle strane conclusioni del Coleman Report: le caratteristiche che comunemente si pensa stiano alla base della qualità degli insegnanti non influenzano più di tanto la qualità dell’apprendimento. Pochi credo abbiano pensato di potersi basare su questa pur schiacciante evidenza per dire convinti a un genitore “Rilassati, in fin dei conti un insegnante vale l’altro”. Ma come dimostrare il contrario?
La svolta è arrivata con lidea di un gruppo di ricerca della University of Texas, guidato da
Il principale risultato osservato è che la correlazione era alta fra i rendimenti scolastici di due coorti esposte allo stesso insegnante (entrambe buone o entrambe scarse), mentre nello stesso anno solare la correlazione era praticamente zero (il risultato di una coorte non diceva nulla su quello dell’altra). (2)
Questa era finalmente un’evidenza forte, anche se indiretta: i dati erano perfettamente compatibili con una realtà sottostante in cui l’elemento che fa la differenza è l’insegnante. Tuttavia, fino a questo punto, avrebbe potuto trattarsi di correlazione spuria, ovvero di un legame solo apparente tra fenomeni, in realtà spiegabili da eventi esterni non osservabili.
Le tecniche econometriche correntemente utilizzate permettono però l’identificazione diretta dell’effetto dell’insegnante sull’apprendimento, grazie allutilizzo di modelli a effetti fissi, che tengano conto delle regolarità ricorrenti associate ai fattori familiari, a quelli della scuola e per lappunto quelli relativi allinsegnante. In un modello di questo tipo, in pratica, si riesce a misurare quanto sistematicamente migliora lapprendimento di uno studente esposto allattività didattica di un insegnante, al netto delle caratteristiche ricorrenti sia nella famiglia dello studente che nelle caratteristiche della scuola frequentata. Solo così ci si pone al riparo della classica obiezione che dice “non si può confrontare il contributo allapprendimento dovuto a diversi insegnanti, perché gli insegnanti operano in contesti socio-culturali molto diversificati”. È evidente che uno studente del liceo in media possiede più competenze di uno studente della scuola professionale, ma è meno evidente che le sue competenze crescano relativamente di più quando viene esposto a un buon insegnante, di quanto non possa per esempio accadere allo studente delle scuole professionali.
Con questa metodologia i risultati attesi sono emersi: l’insegnante risulta influenzare il rendimento dello studente in misura apprezzabile. È difficile ottenere misure precise, ma il paragone con la numerosità delle classi rende l’idea: un incremento del dieci per cento nella qualità dell’insegnante equivarrebbe all’effetto quasi di un dimezzamento del numero di alunni per classe.
Risultato addizionale, anche quello non inatteso, e che l’effetto insegnante va scemando con l’età dello studente.
La qualità della classe docente
Allora tutto a posto? Purtroppo niente affatto. Perché siamo rimasti che la qualità dell’insegnante è certamente importante, ma non dipende dalle variabili che si possono influenzare più facilmente, tipo il suo livello di istruzione. L’insegnante brava è brava perché è brava, punto e basta; ognuno può dire la sua (la mia è che è brava quando ci mette il cuore), ma niente che sia facile da tradurre in misure concrete di intervento pubblico.
Cosa suggerisce il gruppo di Hanushek? Testualmente, loro osservano che “the substantial differences in quality among those with similar observable backgrounds highlight the importance of effective hiring, firing, mentoring and promotion practices”. Elegantemente, “segnalano l’importanza di” una politica del personale di tipo privatistico. I termini usati sono molto americani, ma in sostanza vogliono solo suggerire che “un più stretto legame fra rendimenti e premi alzerebbe alla lunga il livello della classe insegnante”. Questo piaccia o no è difficile da contestare, sicché sembrerebbe più utile cominciare subito a pensare come farlo meglio, piuttosto che discutere se sia giusto farlo o meno. Il che non è una faccenda da poco, perché la “azienda scuola” ha centinaia di migliaia di dipendenti, non una dozzina.
Resta la legittima aspirazione dell’insegnante a far bene, che è fra l’altro completamente in linea con gli interessi dei beneficiari del servizio da loro fornito. E a questa non si può semplicemente rispondere “Se ce la fai bene, altrimenti a casa”.
Come migliorare la qualità dell’insegnante è l’altro tema su cui potrebbe essere utile (ri)focalizzare la discussione alla luce della nuova evidenza empirica. Anche qui la strada è lunga e sarà inevitabile procedere in modo sperimentale. Giusto per dirne una, se qualcosa di impalpabile sta sotto la capacità di insegnare, cioè di trasmettere, comunicare nuova conoscenza, allora potrebbe essere utile mandare i giovani insegnanti a vedere da vicino, cioè da dentro la classe, cosa/come fanno i docenti più bravi, non per dieci ore, ma per mille (due al giorno per due anni).
(1) In pratica, negli esperimenti cui i dati si riferiscono c’è un insegnante per anno (per eliminare l’effetto scuola i dati utilizzati riguardano solo scuole nelle quali esistono osservazioni per entrambi gli anni), e si procede così: si registrano i risultati di N classi “prime” ed N “seconde”, in N scuole, per esempio nellanno 2000, siano essi P(1), P(N) ed S(1), S(N). Poi nel 2001 si registrano i risultati delle ex-prime diventate seconde, diciamo SS(1), SS(N). Si noti che essendoci un insegnante per anno in ogni scuola, P ed S non hanno lo stesso insegnante, mentre S ed SS sì. Le correlazioni misurate sono fra P ed S e fra S ed SS.
(2) In termini delle variabili sopra definite, la correlazione fra S ed SS è alta (cioè in genere S(n) e SS(n) sono entrambe alte — possibilmente linsegnante della scuola è bravo — o entrambe basse — possibilmente linsegnante è scarso; mentre la correlazione è bassa fra P e S (la relazione fra P(n) e S(n) non è regolare possibilmente perché in alcune scuole è più bravo linsegnante di P, in altre quello di S).
In molti paesi sviluppati, dagli Stati Uniti alla Germania, è in corso un dibattito profondo sul futuro della scuola. In Italia, invece, si parla molto di alcune vicende specifiche, come i buoni per la scuola privata decisi da alcune Regioni, ma manca un dibattito a tutto campo su come vogliamo che listruzione evolva nei prossimi decenni. Anche lavoce.info ne ha parlato poco, ad eccezione di alcuni interventi molto interessanti di Solomon Gursky e Daniele Checchi. I miti da sfatare In questo intervento vorrei fare un confronto, molto rozzo, tra la scuola italiana e quella di altri paesi sviluppati e non. Cominciamo sfatando alcuni miti: Tabella 1
Tutto sommato, la scuola italiana non è male. Un confronto internazionale tra sistemi scolastici è svolto dal Programme for International Student Assessment dellOcse. Invito i lettori de lavoce.info a consultare i rapporti del 2000 e del 2003, disponibili sul sito Pisa. Tali rapporti, basati su test svolti da 4.500/10mila quindicenni per paese, indicano senza ombra di dubbio che gli italiani hanno risultati peggiori dei loro coetanei degli altri paesi dellEuropa occidentale (con la possibile eccezione, ma solo in alcuni casi, della Grecia e del Portogallo). Questo vale per tutte e tre le aree considerate: scienze, lettura e matematica. I nostri risultati sono peggiori anche di quelli di paesi con un Pil pro capite più basso del nostro, come Spagna, Corea del Sud e molti paesi dellEuropa dellEst. (1)
Il problema è che mancano le risorse. Al contrario, lItalia è uno dei paesi al mondo con la spesa per studente più alta (vedi Tabella 1). Solo lAustria, la Svizzera e gli Stati Uniti spendono di più. Spendiamo il 50 per cento in più della Germania, che ci batte sistematicamente in tutte le materie. (2)
Spesa cumulativa per studente (dai 6 ai 15 anni) in dollari PPP adjusted | |
Australia | 58 480 |
Austria | 77 255 |
Belgio | 63 571 |
Canada | 59 810 |
R. Ceca | 26 000 |
Danimarca | 72 934 |
Finlandia | 54 373 |
Francia | 62 731 |
Germania | 49 145 |
Grecia | 32 990 |
Ungheria | 25 631 |
Islanda | 65 977 |
Irlanda | 41 845 |
Italia | 75 693 |
Giappone | 60 004 |
Corea | 41 802 |
Messico | 15 312 |
Olanda | 55 416 |
Norvegia | 74 040 |
Polonia | 23 387 |
Portogallo | 48 811 |
Slovacchia | 14 874 |
Spagna | 46 774 |
Svezia | 60 130 |
Svizzera | 79 691 |
Stati Uniti | 79 716 |
Il problema è la Moratti. Al di là dellopinione che si può avere sulloperato di Letizia Moratti (la mia è molto negativa), la situazione era più o meno la stessa nel rapporto Pisa 2000.
I fatti
E adesso passiamo ai tre fatti.
In Italia ci sono tanti insegnanti. Secondo dati Ocse 2002, il numero di studenti per insegnante in Italia è ai minimi mondiali. La Tabella 2 riporta i dati per le quattro maggiori nazioni europee. Questo spiega perché in Italia la spesa per studente è così alta.
Tabella 2
Germania | Francia | GB | Italia | |
Primaria | 18,9 | 19,4 | 19,9 | 10,6 |
Secondaria inferiore | 15,7 | 13,7 | 17,6 | 9,9 |
Secondaria superiore | 13,7 | 10,6 | 12,5 | 10,3 |
Manca un meccanismo di valutazione esterna degli studenti. Le commissioni esaminatrici ai vari livelli sono composte unicamente o in maggioranza da membri interni. Questa situazione è stata peggiorata dal ministro attuale, ma esisteva già prima. Nella maggior parte degli altri paesi europei esistono meccanismi di valutazione esterni, che cercano di offrire un giudizio imparziale e standardizzato. (3)
Manca un meccanismo di valutazione esterna degli insegnanti e delle scuole. La valutazione esterna degli studenti non serve solo per valutare gli studenti, ma permette anche di formare unopinione, seppure imperfetta, sulla qualità dei singoli insegnanti e delle singole scuole. In Italia, ciò è impossibile. Lesperienza di altri paesi soprattutto della Gran Bretagna e degli Stati Uniti dimostra che quando ci si rende conto che un sistema scolastico non funziona non esistono soluzioni facili, e soprattutto non esistono soluzioni rapide. I sistemi di valutazione presentano problemi enormi e in alcuni casi possono essere controproducenti. (4)
Altre opzioni, come lautonomia scolastica, gli incentivi per gli insegnanti o la libertà di scelta della scuola da parte dei genitori, sono controverse. Non esiste consenso su quale sia il sistema ideale. Però non possiamo continuare a nascondere la testa sotto la sabbia. La scuola italiana è in crisi. E non possiamo dire che non ci sono i soldi o che è tutta colpa di questo Governo. I mali della nostra scuola hanno radici profonde. È ora di aprire un dibattito a tutto campo, senza escludere a priori alcuna alternativa.
(1) Il rapporto Pisa mostra come, a parità di scuola, i risultati del singolo studente dipendano dalla situazione socio-economica della sua famiglia. Quindi gli studenti italiani potrebbero andare peggio di quelli tedeschi perché in media le famiglie italiane sono meno ricche ed istruite di quelle tedesche. Però, questo ragionamento non spiega perché gli studenti italiani vadano peggio di tutta una serie di paesi con condizioni socio-economiche meno avanzate. Su lavoce.info Salvatore
Modica nellarticolo “Leducazione di Zu Vice” ha messo in evidenza unimportante differenza tra i risultati dei ragazzi del Nord e di quelli del Sud. Sarebbe interessante capire quanta parte di questo divario è dovuta alleterogeneità delle condizioni socio-economiche piuttosto che a differenze nel sistema scolastico.(2) Non è neanche vero che gli insegnanti italiani siano necessariamente sottopagati. È vero che alcuni paesi, come la Germania e la Svizzera offrono stipendi nettamente più alti. Però i dati Ocse (2002) mostrano che un insegnante di secondaria superiore italiano di prima nomina guadagna come il suo collega francese o inglese (circa 25mila dollari allanno).
(3) Anche negli Stati Uniti manca, per tradizione, un sistema nazionale di valutazione. Per unanalisi del costo di introdurre tale sistema si veda Caroline Hoxby,
The cost of accountability.(4) Si veda ad esempio il lavoro di Jacob e Levitt,
Catching Cheating Teachers: The Results of an Unusual Experiment in Implementing Theory.La “fuga dei cervelli” dallItalia ha recentemente trovato spazio nelle prime pagine dei quotidiani ed è stata ampiamente confermata da numerose analisi statistiche. Tuttavia, ciò che forse dovrebbe fare riflettere maggiormente è che quasi nessun ricercatore straniero è attratto dal nostro paese. Nei corsi di Dottorato Italiani soltanto il 2% degli studenti proviene dallestero e, in tutto, meno di 3,500 persone provenienti da altri paesi dell’Unione Europea lavorano nel settore scientifico-tecnologico in Italia. Nel Regno Unito (e risultati simili valgono per altri paesi europei) il 35% degli studenti nei corsi di Ph.D. sono stranieri e piu di 42,000 cittadini della U.E. (non Britannici) lavorano come ricercatori in quel paese. Produttivita Scientifica dei Ricercatori Italiani La prima e la seconda colonna della Tavola 1 mostrano il numero medio di pubblicazioni e di citazioni per ricercatore (nei settori di Scienza e Ingegneria) durante il periodo 1997-2001 (i dati sul numero dei ricercatori si riferiscono al 1999). LItalia risulterebbe avere un rapporto “pubblicazioni / ricercatore” e “citazioni / ricercatore” tra i piu alti in assoluto (si vedano le colonne 1 e 2 della Tavola 1). Questi risultati, apparentemente incoraggianti, sono stati ampiamente citati nella stampa italiana, in particolare nella risposta del ministro Moratti ad un articolo di Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera del 22 Novembre 2004. Cè tuttavia qualcosa di strano in questi dati: gli Stati Uniti appaiono agli ultimi posti di questa classifica un risultato assai implausibile. Il mistero è facilmente svelato: la definizione di ricercatore include una varietà di figure professionali, ma le pubblicazioni scientifiche provengono per la maggior parte da una sola di queste figure: i ricercatori accademici. Essi sono una maggioranza nei paesi sud europei inclusa l Italia, ma sono una minoranza (e molto piccola negli Stati Uniti) in quasi tutti gli altri paesi. Quando al denominatore usiamo i ricercatori accademici lItalia ha rapporti “pubblicazioni / ricercatore” (colonna 4) e “citazione / ricercatore” (colonna 5) ben inferiori agli USA, ma anche a Regno Unito, Olanda e Danimarca. Retribuzioni Il sistema retributivo italiano ha tre caratteristiche. Primo, la progressione retributiva dipende quasi esclusivamente dall anzianità di servizio: all’interno di ciascuna categoria di docenza (Ricercatore, Associato, Ordinario), la produttività è completamente irrilevante per la determinazione del salario. Le analisi di Daniele Checchi (1999) di Roberto Perotti (2002) mostrano chiaramente che il numero di pubblicazioni ha uninfluenza marginale nelle decisioni di promozione di categoria. Secondo, il profilo temporale della progressione salariale è molto “ripido”: si guadagna poco a inizio carriera, ma l anzianità viene remunerata molto bene. Consideriamo un giovane che diventi ricercatore a 25 anni, associato a 35 anni e ordinario a 45 anni: tra inizio e fine carriera il suo salario aumenta di un fattore pari a 5, sostanzialmente per effetto della sola anzianita (vedi Tabella 2). Proposte per una Riforma La causa principale dei problemi dell università italiana non è dunque la mancanza di fondi, bensì lesistenza di meccanismi sbagliati di distribuzione delle risorse. Le nostre proposte sono quindi volte a modificare il sistema di incentivi in modo che, a parità di risorse, nell’accademia italiana venga premiata l’eccellenza scientifica secondo parametri condivisi dalla comunità internazionale. Il nostro lavoro “Lo Splendido Isolamento dell Università Italiana” discute queste proposte in maggiore dettaglio. Tabella 1. La produttività e la qualità dei ricercatori italiani
Il nostro obiettivo in questo contributo (che si basa su Gagliarducci, Ichino, Peri e Perotti, 2005) e di illustrare tre punti fondamentali. Primo, mostrare che contrariamente ad una interpretazione diffusa – un analisi corretta dei dati bibliometrici rivela che la qualita della produzione scientifica Italiana e modesta. Secondo, discutere come lattuale sistema di remunerazioni e carriere induca incentivi sbagliati e allontani i “talenti”. Terzo, formulare una proposta di riforma a costo zero che modifichi profondamente il sistema di incentivi attuali.
Una misura della qualità, anziché della quantità, di pubblicazioni è data dal loro fattore di impatto, cioè dal numero di citazioni che essa riceve. La colonna 6 della Tabella 1 mostra il numero medio di citazioni per lavoro pubblicato nel periodo 1997-2001. LItalia ha un valore simile alla Francia, e superiore solo a Spagna e Portogallo.
Terzo, per effetto di questa progressione, e contrariamente ad una credenza assai diffusa, un ordinario italiano con 35 annni di anzianità è ben pagato anche rispetto ai suoi colleghi statunitensi. Come si vede confrontando la Tabella 2 con la Tabella 3, egli riceve un salario superiore a quello dell 80 percento dei professori ordinari nelle migliori università statunitensi (quelle con un programma di PhD), e superiore a quello del 95 percento degli ordinari nelle università con al più un corso di master (la stragrande maggiornaza delle università americane).
Il sistema retributivo dei docenti universitari negli Stati Uniti segue regole assai diverse. Il salario è negoziato individualmente, ed è quindi funzione delle opportunità di lavoro alternative, cioè, essenzialmente, dalla produttività di un professore. In conseguenza, a qualsiasi livello di anzianità la dispersione salariale è molto elevata (mentre in Italia è nulla). Ad esempio il rapporto tra i salario massimo (113,636 euro nelle piu prestigiose università con corsi di Ph.D.) e minimo (27,273 euro in un community college) di un assistant professor (ricercatore) è pari a circa 4.2. E un assistant professor di 25 anni molto produttivo e promettente può benissimo guadagnare ben più di un ordinario a fine carriera ma poco produttivo. Daltro canto, la progressione salariale in carriera è sempre ancorata alla produttività scientifica e non così accentuata come in Italia: a fine carriera un ottimo professore guadagna tra 1.5 e 2 volte il suo salario iniziale.
Questa è esattamente la struttura salariale che ci si apetterebbe se il salario fosse usato come strumento per incentivare la produttività e per premiare gli anni di ricerca più produttivi, che tipicamente sono quelli da inizio fino a metà carriera.
1. Liberalizzare le retribuzioni del personale accademico.
2. Liberalizzare le assunzioni: ogni università assume chi vuole e come vuole; di conseguenza, è abolito l’attuale sistema concorsuale.
3. Liberalizzare i percorsi di carriera: ogni università promuove chi e come vuole.
4. Liberalizzare completamente la didattica: ogni università è libera di organizzare i corsi come vuole e di offrire i titoli che preferisce.
5. Liberalizzare le tasse universitarie: ogni università si appropria delle tasse pagate da i propri studenti.
6. In alternativa alla proposta precedente, mantenere il controllo pubblico sulle tasse universitarie aumentandole però considerevolmente.
7. Utilizzare i risparmi statali così ottenuti per istituire un sistema di vouchers, borse di studio e prestiti con restituzione graduata in base al reddito ottenuto dopo la laurea.
8. Allocare ogni eventuale altro finanziamento statale alle università in modo fortemente selettivo sulla base di indicatori di produttività scientifica condivisi dalla comunità internazionale.
9. Consentire l’accesso a finanziamenti privati senza limitazioni.
10. Abolire il valore legale del titolo di studio.
pubblicazioni / ricercatori tot | citazioni / ricercatori tot | Ricercatori accademici / ricercatori tot | pubblicazioni / ricercatori accademici | citazioni / ricercatori accademici | impact factor medio | impact factor standardizzato | |
1 | 2 | 3 | 4 | 5 | 6 | 7 | |
USA | 1.00 | 8.60 | 0.15 | 6.80 | 58.33 | 8.57 | 1.48 |
Germania | 1.25 | 8.64 | 0.26 | 4.77 | 32.98 | 6.91 | 1.33 |
Regno Unito | 2.17 | 15.86 | 0.31 | 6.99 | 51.00 | 7.30 | 1.39 |
Francia | 1.45 | 9.43 | 0.35 | 4.09 | 26.68 | 6.52 | 1.12 |
Italia | 2.26 | 14.81 | 0.38 | 5.88 | 38.57 | 6.56 | 1.12 |
Spagna | 1.68 | 9.09 | 0.55 | 3.06 | 16.54 | 5.41 | .97 |
Portogallo | 0.86 | 3.99 | 0.52 | 1.65 | 7.62 | 4.62 | .82 |
Danimarca | 1.96 | 15.57 | 0.30 | 6.50 | 51.56 | 7.93 | 1.48 |
Olanda | 2.29 | 18.79 | 0.31 | 7.41 | 59.58 | 8.20 | 1.39 |
Canada | 1.68 | 11.79 | 0.33 | 5.04 | 35.28 | 7.00 | 1.18 |
Da Gagliarducci, Ichino, Peri e Perotti (2005).
Definizioni: Colonna 6: impact factor: definito come numero totale di citazioni / numero totale di pubblicazioni, entrambe per il periodo 1997-2001;. Colonna 7: impact factor standardizzato, 2002; vedi testo per la definizione.
Fonti: Pubblicazioni e citazioni: King (2004), dati riferiti agli anni 1997-2001; Impact factor standardizzato: King (2004), dati riferiti al 2002; Numero di ricercatori: OECD, Main Science and Technology Indicators database, dati 1999 (1998 per Regno Unito). Il numero di ricercatori è espresso in unità full time equivalent.
Tabella 2. Distribuzione dei salari accademici in Italia
Anzianità di servizio in anni | Professore Ordinario a tempo pieno | Professore Associato a tempo pieno | Ricercatore a tempo pieno |
0 (non conf.) | 47631 | 36053 | 20225 |
3 | 50412 | 37999 | 29244 |
5 | 54207 | 40684 | 31150 |
7 | 56900 | 42596 | 32516 |
9 | 60696 | 45280 | 34422 |
11 | 63388 | 47192 | 35788 |
13 | 67184 | 49876 | 37694 |
15 | 70979 | 52560 | 39601 |
17 | 73968 | 54683 | 41117 |
19 | 76957 | 56806 | 42633 |
21 | 79946 | 58928 | 44149 |
23 | 82935 | 61051 | 45665 |
25 | 85924 | 63174 | 47181 |
27 | 88913 | 65296 | 48698 |
29 | 91902 | 67419 | 50214 |
31 | 94891 | 69542 | 51730 |
33 | 96735 | 70851 | 52665 |
35 | 98578 | 72160 | 53600 |
37 | 100421 | 73469 | 54535 |
39 | 102264 | 74778 | 55470 |
Media | 77242 | 57020 | 42415 |
Da Gagliarducci, Ichino, Peri e Perotti (2005).
Nota: Dati aggiornati all’anno 2004. La tabella riporta il salario annuo in euro al lordo delle tasse per le tre categorie di docenti italiani al variare della anzianità di servizio, secondo la tabella elaborata dal CNU di Bari e pubblicata sul sito http://xoomer.virgilio.it/alpagli/. Poiché non disponiamo della distribuzione dei docenti italiani per anzianità, le retribuzioni medie nell’ultima riga sono calcolate ipotizzando una distribuzione uniforme.
Tabella 3. Distribuzione dei salari accademici negli Stati Uniti
Università con corsi undergraduate e corsi di dottorato | Università con corsi undergraduate e corsi di master | College senza corsi graduate | |||||||
Percentile | Full | Associate | Assistant | Full | Associate | Assistant | Full | Associate | Assistant |
1 | 49,091 | 38,182 | 30,909 | 41,818 | 34,545 | 29,091 | 36,364 | 29,091 | 27,273 |
5 | 56,364 | 43,636 | 36,364 | 47,273 | 40,000 | 32,727 | 41,818 | 34,545 | 32,727 |
10 | 68,969 | 52,678 | 44,994 | 53,526 | 44,728 | 38,386 | 42,749 | 37,871 | 32,906 |
20 | 73,139 | 55,133 | 46,742 | 56,721 | 47,005 | 40,217 | 47,956 | 40,698 | 35,404 |
30 | 77,091 | 57,091 | 48,378 | 59,075 | 48,733 | 41,338 | 51,109 | 42,951 | 37,047 |
40 | 79,738 | 58,875 | 50,493 | 61,465 | 50,515 | 42,336 | 53,589 | 44,857 | 38,552 |
50 | 83,820 | 61,747 | 51,825 | 63,913 | 51,879 | 43,435 | 56,944 | 46,835 | 39,592 |
60 | 89,466 | 63,622 | 54,266 | 66,523 | 53,535 | 44,788 | 59,843 | 48,796 | 40,931 |
70 | 94,616 | 65,989 | 55,896 | 70,540 | 55,623 | 46,265 | 63,037 | 50,730 | 42,147 |
80 | 98,730 | 69,816 | 58,476 | 75,203 | 58,567 | 48,661 | 67,198 | 53,529 | 44,383 |
90 | 108,003 | 73,599 | 63,804 | 81,060 | 63,645 | 51,465 | 78,941 | 59,007 | 48,832 |
95 | 119,212 | 79,177 | 65,953 | 86,323 | 66,372 | 53,279 | 86,854 | 64,672 | 51,373 |
99 | 195,455 | 122,727 | 113,636 | 122,727 | 92,727 | 80,000 | 122,727 | 83,636 | 69,091 |
Media | 91,529 | 62,400 | 53,251 | 69,193 | 54,555 | 45,417 | 65,293 | 50,392 | 41,901 |
Da Gagliarducci, Ichino, Peri e Perotti (2005).
Nota: Dati riferiti all’anno accademico 2003-04. La tabella riporta i percentili in euro della distribuzione del salario annuo al lordo delle tasse per i Full Professor, gli Associate Professor e gli Assistant Professor in tre categorie di università degli Stati Uniti. La fonte è il rapporto della AAUP (2004), in particolare le Tabelle 4, 8 e 9a. I dati si riferiscono a 1446 università per un totale di 1775 campus. Per la conversione della valuta abbiamo utilizzato il tasso di cambio corretto per Purchasing Power Parity pari a 1.11 dollari per euro.
Bibliografia:
Checchi, D., 1999, Tenure. An Appraisal of a National Selection Process for Associate Professorship, Giornale degli Economisti ed Annali di Economia, 58 (2), 137-181.
Gagliarducci S., A. Ichino , G.Peri e R. Perotti (2005) “Lo Splendido Isolamento dell Universita Italiana” Working Paper, Fondazione Rodolfo De Benedetti, Milano,
www.igier.uni-bocconi.it/perotti.Kalaitzidakis P., Stengos T. e Mamuneas T.P., 2003,
Rankings of Academic Journals and Institutions in Economics, Journal of the European Economic Association, 1 (6), 1346-1366.Perotti, R., 2002, The Italian University System: Rules vs. Incentives, www.igier.uni-bocconi.it/perotti
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