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Quattro conti sul ponte

La cordata Impregilo ha appena vinto la gara (due soli partecipanti) per costruire il Ponte sullo Stretto. Lasciando da parte la congruità dell’offerta, restano fortissimi dubbi sull’utilità dell’opera, sull’entità dei finanziamenti privati (se tali sono i soldi di FS) e sulle inevitabili esigenze di risorse pubbliche nel prossimo futuro, per tacere dell’incubo paesistico-ambientale di un mostro di cemento iniziato e non finito. Ma è tutto il disegno della “grandi opere” a lasciare perplessi: non sembra che esse siano le più urgenti per risolvere i problemi della logistica, che avrebbe bisogno molto più di “piccole opere”, mentre i meccanismi previsti dalla Legge Obiettivo per accelerare le opere non sembrano aver funzionato. Intanto il cattivo esempio del Ponte tende ad attecchire anche nelle piccole città…

Sommario, a cura di Andrea Boitani

La cordata Impregilo ha appena vinto la gara (due soli partecipanti) per costruire il Ponte sullo Stretto. Lasciando da parte la congruità dell’offerta, restano fortissimi dubbi sull’utilità dell’opera, sull’entità dei finanziamenti privati (se tali sono i soldi di FS) e sulle inevitabili esigenze di risorse pubbliche nel prossimo futuro, per tacere dell’incubo paesistico-ambientale di un mostro di cemento iniziato e non finito. Ma è tutto il disegno della “grandi opere” a lasciare perplessi: non sembra che esse siano le più urgenti per risolvere i problemi della logistica, che avrebbe bisogno molto più di “piccole opere”, mentre i meccanismi previsti dalla Legge Obiettivo per accelerare le opere non sembrano aver funzionato. Intanto il cattivo esempio del Ponte tende ad attecchire anche nelle piccole città…

Il punto sul ponte, di Salvatore Modica 11/10/2005

Il 12 ottobre la Stretto di Messina spa nomina, scegliendolo fra i due concorrenti rimasti in lizza nella gara d’appalto, il general contractor che si impegna a realizzare il ponte sullo Stretto.
Fra il dire e il fare c’è come sempre di mezzo il mare, ma qui oltre il mare ci sono di mezzo anche altri problemi.
Se tutto va bene problemi di governance; se qualcosa va storto il problema del completamento dell’opera, in pratica il problema di rimanere con Messina devastata, due piloni di quattrocento metri e niente ponte. Tra i due estremi, un ulteriore pesante carico per la finanza pubblica, senza che se ne sia discusso apertamente.
Alla luce della recente esperienza del Tunnel della Manica questi dovrebbero essere problemi ben noti: quello della governance è indicato in un recente editoriale sul Financial Times come il problema centrale del Tunnel. Quello del completamento è stato superato soltanto grazie alla determinazione di Margaret Thatcher. (1) Ma chissà, forse perché è sott’acqua e non si vede.

Costi e finanziamenti

Torniamo al nostro ponte. Il suo costo previsto è di 6 miliardi, di cui 2,5 (circa 40 per cento) già sottoscritti da società pubbliche azioniste della Stretto di Messina e 3,5 ancora da reperire sul mercato. Su questo l’amministratore delegato della Stretto di Messina spa, Pietro Ciucci, dichiara: “Per quanto riguarda l’aumento di capitale, sottoscritto dagli azionisti Fintecna, Anas, Rete Ferroviaria Italiana (di cui una prima tranche è già in esecuzione), coprirà le spese fino ai primi anni di cantiere. La società si rivolgerà solo a partire dal 2008 ai mercati”. (2)
Dunque, la società intende portare avanti i lavori con i 2,5 miliardi di cui dispone, per poi ricorrere al mercato per il reperimento degli altri 3,5 miliardi occorrenti a completare l’opera quando ciò si renderà necessario.
I dettagli sulle modalità di raccolta di questo ulteriore 60 per cento, e in particolare sulla possibilità di interventi a carico di risorse pubbliche che si potrebbero prospettare in conseguenza di eventi imprevisti, sono contenuti in una convenzione del dicembre 2003 che non è attualmente di dominio pubblico perché ritenuta “documentazione sensibile”. (3)
La società scrive che quel restante 60 per cento è da reperire sui mercati internazionali senza garanzie da parte dello Stato. (4) Nel sito www.messinasenzaponte.it si asserisce invece che nella convenzione il ministero garantisce “il 100 per cento dei costi imprevisti e la totalità dei rischi di gestione senza alcun tetto di spesa”.

Un percorso che porta solo guai

Sicché manca un pezzo di informazione importante; ma qualunque sia il suo contenuto, il corso di azioni che si sta seguendo è subottimale, se va bene. Se va male, molto peggio.
Gli scenari possibili sono tre: nel primo il mercato risponde bene e sottoscrive il capitale necessario; nel secondo non lo fa, ma subentra lo Stato attingendo a risorse pubbliche; nel terzo i fondi non si trovano e l’opera resta incompiuta. Se si verifica lo scenario più ottimistico, la società si trova comunque a operare dal 2004 al 2008 in assenza di azionariato di controllo (perché i 2,5 miliardi degli azionisti presenti costituiscono il 40 per cento del capitale, o ancora meno se i costi superano i 6 miliardi). Sarebbe allora meglio interpellare subito i mercati evitando questo problema di “blurred accountability”. Nel caso in cui il mercato non risponde, ma al suo posto risponde lo Stato (l’unico che razionalizza l’operato della società se anticipato con certezza), il piano d’azione è insoddisfacente dal punto di vista delle procedure decisionali democratiche: staremmo impegnando risorse pubbliche future, ma senza discuterne, perché formalmente stiamo approvando un progetto privato. In questo caso, sarebbe opportuno discutere delle possibili destinazioni alternative di tali risorse e organizzare, se si decidesse di procedere alla realizzazione del ponte, una struttura di management pubblico. Se infine il mercato non dovesse rispondere e il Governo di turno avesse altro a cui pensare, la situazione sarebbe ovviamente disastrosa. Si noti che questa non è un’ipotesi del tutto irrealistica: per completare il Tunnel c’è voluta la volontà di ferro della Thatcher; per il ponte tutto questo accanimento non lo si vede affatto, né a destra né a sinistra. (5)
Questo “Poi vedremo, intanto cominciamo”, dunque, può solo generare guai, l’unica incertezza è sulla loro entità. Il punto è che sono “guai accattati“, come si dice in siciliano: guai comprati, che si potrebbero ben evitare. Toccherebbe allo Stato – cioè al Parlamento, non al Governo che non dispone ovviamente dei fondi che si renderebbero necessari nelle legislature a venire – far chiarezza: se si vuol costruire il ponte con finanziamenti statali, si discuta di questa scelta; se si decide che o lo fa il mercato o niente, si renda nota l’indisponibilità dell’operatore pubblico e si proceda subito ad appurare se il mercato ci sta o no. Perché restando voltati dall’altra parte si rischia di cacciarsi in un brutto pasticcio.

(1) L’editoriale è di John Kay, 13 settembre (leggibile anche su www.johnkay.com). Per la cronaca, nel caso del Tunnel non andò affatto tutto bene: i costi di realizzazione furono quasi doppi del previsto, e i flussi di traffico, a dispetto delle stime iniziali, non consentirono successivamente di coprire neanche le spese di gestione. Ulteriori approfondimenti sul caso sono contenuti nello “in depth” dedicato del FT.

(2) In P. Busetta, Un collegamento per lo sviluppo, Liguori 2005, p. 144.

(3) Questa convenzione, firmata dalla Stretto di Messina e dal ministero delle Infrastrutture e dei trasporti il 30 dicembre 2003, regola svariati aspetti della realizzazione e gestione del ponte, come prescritto dal Dl n. 114 del 24 aprile 2003. Io ho chiesto, per telefono, una copia sia alla società che al ministero: la prima mi ha risposto che avrei dovuto avere una motivazione giuridicamente rilevante, il secondo che si trattava di documentazione sensibile.

(4) Di questo “prende atto” il Cipe nell’agosto 2003, nell’approvare il programma preliminare della società (delibera n. 66). La società parla di project finance nel suo sito, www.strettodimessina.it.

(5) Per inciso, ho cercato documenti sul perché la sinistra ha cambiato idea sul ponte, ma non ne ho trovati. Ho chiesto per email al responsabile Mezzogiorno dei Ds se ce ne fossero, ma non ho ricevuto risposta.

Il metrò a Parma: il piccolo ponte sullo stretto, di Andrea Boitani e Carlo Scarpa 13/06/2005

Il Governo ha dato il “la” al finanziamento del metropolitana di Parma; nella riunione del Cipe del 27 maggio scorso è stato deciso che il paese regalerà alla città di Parma 210 milioni di euro per costruirla. Per la cronaca, in Italia le città che già hanno il metrò sono Milano, Roma e Napoli (una linea, che corre quasi interamente su linee Ffss). Ora, anche Parma con i suoi 170mila abitanti avrà il suo metrò. Ha senso? Ci sarebbero alternative meno onerose (e forse più efficaci)? E se sì, perché non vengono considerate?

Il progetto e i costi

Il progetto originale prevedeva tre linee di metropolitana leggera, delle quali una è stata accantonata. Le due che invece sono state approvate collegano rispettivamente il casello autostradale al campus universitario (linea A) e la stazione ferroviaria all’aeroporto e alla fiera (linea C). Mentre la prima attraversa da nord a sud il centro cittadino (e quindi serve in modo importante la popolazione residente a Parma), la seconda sembra più destinata a collegare la città e le grandi infrastrutture pubbliche (polo fieristico, aeroporto) e può quindi essere compresa anche nel quadro della decisione che ha portato a Parma l’Autorità europea per la sicurezza alimentare. (1)
Il costo complessivo per le linee A e C non dovrà superare i 306.836.642 euro, di cui quasi 269 milioni per l’infrastruttura e il resto per i rotabili. Il finanziamento sarà per il 68,5 per cento a carico dello Stato e per il 31,5 per cento a carico del comune di Parma, attraverso una società all’uopo costituita, che dovrebbe anche coinvolgere capitali privati. I costi di gestione a regime dovrebbero essere di circa 15 milioni di euro annui, circa metà dei quali da coprire con sostanziosi tagli al trasporto pubblico di superficie, e il resto tramite aumenti tariffari. Concentriamoci sulla linea A, stante il differente ruolo che la C dovrebbe ricoprire, e cerchiamo di capire se un progetto del genere ha senso per una città delle dimensioni di Parma. Si tratta di una linea di 12 chilometri , di cui poco meno di 5,5 in superficie, 4,4 in galleria superficiale e 2,1 chilometri in galleria profonda. Le fermate dovrebbero essere ventisei, circa una ogni 450 metri, mentre normalmente le fermate dei metro distano 7-800 metri. Un metrò lentino, in ogni caso… Le previsioni di traffico per questa linea sono di 55mila passeggeri al giorno con 6.600 nell’ora di punta: bastano per sostenere economicamente il progetto? Una metropolitana leggera con costi di costruzione non eccezionalmente elevati, in genere, risulta accettabile quando si possono prevedere – per ogni senso di marcia – circa 15mila passeggeri nell’ora di punta (30mila per una metropolitana tradizionale). (3) Nel caso della linea A di Parma (circa 3.300 presenze per senso di marcia nell’ora di punta) siamo, dunque, a un quinto dei passeggeri di solito stimati necessari per prendere in considerazione il progetto. Inoltre, queste previsioni di traffico sembrano perfino ottimistiche. Oggi infatti – secondo i dati della Tep, l’azienda trasporti di Parma – in media ogni abitante effettua circa centocinquanta viaggi all’anno sui mezzi pubblici di superficie; la stima effettuata a sostegno del progetto indica 16.800.000 passeggeri l’anno, ovvero circa cento viaggi l’anno a testa (con riferimento all’intera popolazione cittadina), solo sulla linea A della metropolitana. Se poi si considera che lo studio di fattibilità quantifica in 35mila abitanti il bacino di attrazione per la linea A, si tratterebbe di 490 viaggi in media per ciascuno di essi. Si prevede quindi che il parmigiano medio abbia un entusiasmo davvero straordinario per questo nuovo mezzo? O si pensa veramente che l’Autorità porterà a Parma più visitatori del Parlamento europeo a Strasburgo? Qualche dubbio pare legittimo.

Ci sono alternative alla metropolitana?

In assenza di una dettagliata e attendibile analisi costi benefici è difficile esprimere un giudizio sull’efficienza sociale dell’opera. Si noti per altro che la previsione ufficiale di riduzione del traffico privato su gomma è di circa il 2,7 per cento con una riduzione attesa delle emissioni inquinanti di circa il 2,5 per cento (dati che si commentano da soli).
A noi fa estremo piacere che si riduca il traffico e l’inquinamento, anche se di poco. Ci chiediamo però se questo sia il modo migliore di impiegare il denaro pubblico per ridurre l’inquinamento (sempre assumendo che si voglia spendere a Parma e per questo fine). Esistono infatti alternative meno costose e forse più adatte a città di questa dimensione. In ordine crescente di costo, gli autobus ecologici (con propulsione mista elettrica e a gasolio o metano), con sede protetta dove necessario; i filobus dotati di un’autonomia che consente modeste deviazioni rispetto al percorso elettrificato; i tram con sede propria. Va notato che l’ordine crescente di costo è anche un ordine decrescente di flessibilità. È ovvio che gli autobus sono il mezzo più flessibile, che più consente di far fronte a cambiamenti dell’assetto urbano e dei flussi di traffico, che meglio permette di “inseguire” la popolazione nei suoi cambiamenti di insediamento verso la campagna, e di minimizzare le rotture di carico e quindi le perdite di tempo.
Tra l’altro, il passaggio dal trasporto di superficie alla metropolitana a Parma non diminuirebbe di molto i costi di esercizio. Si consideri che oggi a Parma il costo per vettura-km del servizio di superficie è di 3,54 euro: tenendo conto di tutti gli overheads, una situazione invidiabile rispetto alle grandi città. Avanziamo un quesito un po’ paradossale. Il grosso dell’inquinamento cittadino da traffico viene dai camion e furgoni diesel di vecchia generazione che ogni giorno distribuiscono le merci nella città. Quanto costerebbe finanziare la sostituzione dell’intera flotta? Certo una frazione molto ridotta dei 300 milioni di euro della struttura di metrò. E con i soldi rimanenti si potrebbe sostituire il parco autobus odierno con mezzi che hanno un secondo motore (elettrico) e hanno quindi emissioni prossime allo zero. E così via.

Dunque, perché?

Le risposte vanno cercate nei comportamenti messi in moto dalla cosiddetta finanza derivata (finanza locale alimentata da soldi statali). Per mettere le mani sui fondi nazionali, il comune di Parma deve progettare di costruire una metropolitana, non di rinnovare gli autobus. Niente progetto, niente soldi. Oggi, infatti, lo Stato vara una legge per le opere infrastrutturali “strategiche”, non vara un programma di spesa per la mobilità sostenibile. E questo a dispetto delle reali esigenze di mobilità del territorio governato dai singoli comuni. Esigenze che, ovviamente sono molto diverse per una città di 170mila abitanti e per una città di un milione e trecentomila, con un’area metropolitana di quasi 5 milioni come Milano (per esempio). Poiché i soldi non conquistati dalla città X andranno a qualcuna delle altre pretendenti, tutte le città si affannano a presentare progetti anche se di utilità molto dubbia. Questo meccanismo deve essere interrotto. Distribuire denaro statale con un vincolo di impiego così stringente non sta dando buoni risultati; sta semplicemente riducendo il costo che le comunità locali sostengono per alcuni progetti importanti, ma anche per altri, che altrimenti nessuno prenderebbe sul serio. Oltre tutto, avere quel denaro a portata di mano fa sì che alcuni gruppi di interesse locali pongano una grande pressione sui comuni – di nuovo, a prescindere dalla vera utilità sociale del progetto finanziabile.
Sarebbe interessante vedere cosa succederebbe se lo Stato mettesse a disposizione lo stesso importo senza vincolo di impiego: la città di Parma troverebbe utile spendere tutto per un metrò? Lo dubitiamo.

Leggi anche:  Un Ponte che impoverisce l’Italia

(1) Si noti che per altro non si sa ancora dove esattamente saranno gli uffici della Authority: i siti a oggi considerati più probabili non sono neppure sfiorati dal percorso delle linee di metrò.

(2) Una serie di informazioni e documenti sono disponibili sul sito www.polisquotidiano.it.

(3) Il costo previsto è inferiore a quello di strutture simili: se questa previsione si rivelasse indebitamente ottimista, chiaramente le cose sarebbero anche peggiori.

Se alle grandi operano mancano le fondamenta. Della valutazione, di Claudio Virno 23/05/2005

A distanza di oltre tre anni dall’approvazione delle legge 443/2001, nota come Legge obiettivo, che ha dato avvio al programma delle infrastrutture strategiche, è possibile tracciare un primo bilancio.

Che cosa è e che cosa non è la Legge obiettivo

La Legge obiettivo non è una procedura concorsuale o selettiva tra progetti, ma uno “sportello” per il finanziamento di iniziative già stabilite tramite accordi politici tra l’amministrazione centrale e le amministrazioni locali. Dunque, nessuna valutazione economica degli effetti degli investimenti pubblici e finanziamenti vincolati unicamente agli stanziamenti disponibili sul bilancio dello Stato. (1)

Il Cipe assegna così i singoli finanziamenti con un occhio attento alla platea complessiva degli interventi ammissibili (spesso artificiosamente frazionati in lotti e stralci per avere più probabilità di accesso ai finanziamenti). E ripartisce le somme non solo in funzione dei costi da sostenere e della disponibilità di altre fonti di finanziamento, ma facendo in modo che possano avviarsi contemporaneamente il maggior numero di progetti (alcuni, malevoli, lo chiamano “finanziamento a pioggia”). Per altri progetti il Cipe effettua solo un vaglio preliminare, con una promessa futura di finanziamento (oppure del finanziamento di spese per la progettazione). Infine, un ristretto numero di progetti è sottoposto al Cipe solo per fruire dei benefici di natura procedurale che la legge consente.

Il totale delle somme assegnate dal Cipe rappresenta una parte di un più ampio insieme di finanziamenti necessari per completare i lavori che vengono prenotati senza alcuna certezza sui tempi di assegnazione. Naturalmente, questo aspetto non si verificherebbe se vi fosse un’attenta programmazione finanziaria e se il completamento degli interventi iniziati non fosse in gran parte previsto a carico della finanza pubblica.

Infine, va osservato che l’incertezza sulla disponibilità dei finanziamenti si accompagna all’approvazione di iniziative con progettazione incompleta o con costi sottostimati, innescando così un pericoloso fenomeno di cost overrun di proporzioni imprevedibili, ma di cui si sono già intravisti i contorni. (2)

Quanti investimenti in più?

Studi recenti di Ance-Agi (www.igitalia.it) e della Corte dei conti (www.cortedeiconti.it) hanno messo in discussione gli effetti positivi del provvedimento, mentre il ministero delle Infrastrutture ha strenuamente difeso la sua creatura.

La querelle finanziaria non è tanto dovuta a fonti e calcoli diversi, quanto a questioni di carattere definitorio: cosa considerare come “stanziato”, “finanziato”, “cantierato”, “attivato”. Se ci si attiene alla terminologia e alle convenzioni utilizzate in contabilità pubblica, si possono comunque stabilire alcuni punti fermi.
Per gli anni 2002-2006 sono state stanziati limiti di impegno equivalenti a un volume di investimenti attivabili dell’ordine di 10,5 miliardi di euro. Di tali risorse (integralmente impegnabili), risultano assegnate per gli scopi propri della Legge obiettivo circa 9 miliardi, ma le somme impegnate e pagate rappresentavano solo una quota trascurabile del totale (rispettivamente 2,7 e 0,4 miliardi, secondo valutazioni ancora provvisorie e riferite alla fine del 2004). Questi dunque i dati nudi e crudi dal punto di vista del bilancio dello Stato: negli anni 2002-2004 i maggiori impegni rispetto a una situazione senza Legge obiettivo sarebbero stati mediamente pari a 0,9 miliardi l’anno e quindi ben poca cosa.
Il ministero delle Infrastrutture ha sostenuto che questi dati andavano integrati con quelli relativi all’”attivazione” di altre fonti di finanziamento. Il ragionamento può risultare non del tutto corretto perché non è possibile stabilire se quelle risorse sarebbero o meno state utilizzate anche in assenza delle procedure proprie della Legge obiettivo. Anche accettando questo concetto di “attivazione”, l’ammontare totale dei finanziamenti sale a 24 miliardi. (3)
Ma il valore delle opere per le quali risultava avvenuta la consegna dei lavori e il relativo impianto di cantiere ammonta, a fine 2004 a un ordine di grandezza di appena 4,5-5 miliardi, secondo le stime della Corte dei conti. (4)
Con l’uso di un concetto di “attivazione” complementare a quello di stanziamento aumenta significatamene il totale delle risorse disponibili, ma resta invariata o addirittura si riduce la proporzione tra somme impegnate e risorse stanziate. L’effettiva realizzazione della spesa resta infatti scandita dagli impegni assunti nei bilanci pubblici e dai pagamenti effettuati alle imprese.

Se non si affrontano i problemi

Il principale difetto delle legislazioni speciali è di agire sugli effetti e di occultare le cause che ostacolano determinati processi. La Legge obiettivo non affronta e non risolve le problematiche chiave che riguardano le modalità di selezione degli interventi (programmazione) e la progettazione degli stessi. Eppure, alla fine degli anni Novanta era iniziato un lento e faticoso cammino (anche normativo) che aveva reso possibile, e in certi casi obbligatoria, la redazione degli studi di fattibilità e aveva al tempo stesso favorito il finanziamento della progettazione indipendentemente dal finanziamento dell’intervento (in modo da rendere il più possibile definitivo e assestato il piano economico finanziario del progetto). I meccanismi “accelerativi” della Legge obiettivo rendono possibile l’ammissione al finanziamento, o la sua prenotazione, di iniziative non ben delineate negli effetti e prive di progettazione. Ed è inutile scaricare le colpe della lentezza e dei ritardi sulla scarsità di risorse disponibili. L’assenza di un avanzato livello di progettazione è dovuta al fatto che le amministrazioni continuano a non assumersi il rischio di finanziare la progettazione se non hanno anche la garanzia del finanziamento dell’opera, anche per perversi meccanismi della nostra contabilità pubblica. Ciò ovviamente complica le cose anche dal punto di vista della Legge obiettivo.
Resta in ultimo la domanda del perché non si è riusciti a mobilitare capitali privati nel finanziamento delle grandi infrastrutture, e che doveva essere uno degli effetti più significativi della Legge obiettivo. Le ragioni sono molte e non c’è qui lo spazio per riassumerle tutte. La principale probabilmente consiste nel fatto che la maggior parte dei progetti proposti, presenta incertezze e rischi sia sul costo definitivo sia sui ricavi futuri. Tale incertezza è accresciuta dall’assenza di valutazioni economiche attendibili, cioè proprio da uno dei più significativi “marchi di fabbrica” della Legge obiettivo. Tali rischi rendono aleatoria la redditività per gli investitori privati, per loro natura e tradizione già poco propensi a investire in progetti di infrastruttura dalla redditività molto differita nel tempo. La vicenda di questi giorni con il progressivo ritiro di tutti i partecipanti stranieri alla gara per i general contractor del Ponte sullo stretto sembra un altro pessimo segnale.

(1) Per le infrastrutture a tariffa è stato fatto un timido tentativo di mettere a punto un piano economico-finanziario, che però non ha avuto alcun esito concreto. Si può sostenere che sono proprio alcune finalità della legge (velocizzazione delle procedure, creazione di una corsia preferenziale per l’approvazione dei progetti) tra le cause dell’espunzione della valutazione dai processi decisionali.

(2) Il costo complessivo del programma decennale è stato valutato inizialmente in 126 miliardi, ma recentemente ricalcolato dallo stesso ministero delle Infrastrutture in 196. Una stima del Cresme risalente al 2004 si attestava su valori più elevati (232 miliardi).

(3) Tutti i dati esposti relativi alle assegnazioni da parte del Cipe e agli altri finanziamenti disponibili sono stati calcolati da chi scrive e sono rilevabili dalle delibere Cipe. Il totale di 24 miliardi è ben distante dalla valutazione di progetti “attivati” dal Cipe data dal ministero delle Infrastrutture, pari a 52 miliardi (riferita ai costi complessivi da sostenere e non ai finanziamenti effettivamente disponibili).

(4) Tali opere sono definite “cantierate”, concetto in qualche modo simile all’impegno formale assunto nel bilancio dello Stato ma riferito a tutte le fonti di finanziamento disponibili.

Piccolo è bello per la logistica, di Pietro Spirito 23/05/2005

Nell’ultimo quinquennio, ma per la verità anche nei decenni precedenti, quando si è parlato del trasporto e della logistica si è puntato tutto sulla retorica delle “grandi opere”: si intendeva così recuperare il deficit infrastrutturale del sistema produttivo nazionale. Cosa è accaduto in realtà?

Molti proclami, pochi risultati

Molti proclami, tante cartine colorate, ma pochi risultati tangibili per il paese. Anche nel trasporto e nella logistica, l’Italia ha continuato a perdere posizioni competitive. La logistica, che è asse portante per lo sviluppo dell’economia nel suo insieme, non ha bisogno di retorica, bensì di fatti, e soprattutto di servizi. La retorica delle grandi opere sposta il focus sulla cementificazione del territorio e non sulla realizzazione di servizi che usino al meglio le infrastrutture. Ai proclami sulle grandi opere va sostituito un approccio pragmatico. “Cucire” il nostro territorio intervenendo nei colli di bottiglia, nelle interconnessioni che costituiscono oggi l’anello mancante per dare respiro logistico alle grandi correnti di traffico, è una priorità concreta.
Per diverse ragioni, nella selezione degli investimenti pubblici, la scelta dovrebbe cadere sulle “piccole opere“. In particolare, occorre tenere in conto due fattori: 1) la crucialità dei tempi in relazione alla logistica; 2) la tipicità della struttura industriale al cui servizio vanno poste le opere infrastrutturali.

Poche, piccole, utili e subito

Innanzitutto, è necessario dare risposte di breve-medio termine alla richiesta di qualità nei servizi di trasporto e di logistica a sostegno della competitività delle imprese insediate in Italia. In uno scenario economico che comporta movimentazioni di materie prime, di semilavorati e di prodotti finiti su scala mondiale, con gli stabilimenti che spesso assemblano componenti per giungere al confezionamento del prodotto finito, il costo della logistica è variabile strategica per le decisioni aziendali, per stabilire il mantenimento delle realtà produttive, il loro sviluppo oppure la delocalizzazione in siti maggiormente competitivi da questo punto di vista. Non è, insomma, solo il vantaggio competitivo sul costo del lavoro (che pure conta) a determinare l’impoverimento o l’arricchimento industriale dei territori. Se si continua a privilegiare la retorica delle grandi opere, si rischia solo di aprire cantieri, spesso molto onerosi per la finanza pubblica, senza dare risposta alla domanda concreta di miglioramento dei servizi logistici che viene dalle imprese. Il risultato sarebbe di impoverire ancora di più il tessuto industriale, e di fornire una spinta ulteriore alla delocalizzazione produttiva verso aree meglio attrezzate, oppure verso regioni che si stanno dotando di un sistema logistico adeguato.
La dilatazione dei tempi necessari per realizzare le grandi opere comporta, inoltre, un rischio di spiazzamento rispetto alle mutevoli necessità di un sistema industriale che è in continuo cambiamento. Ciò che è prioritario oggi, rischia di essere inutile, o ridondante, tra dieci anni. E purtroppo i tempi delle grandi opere nel nostro paese, sforano quasi sempre il decennio. Basti qui ricordare che la società Stretto di Messina è stata costituita all’inizio degli anni Settanta ed è già costata all’erario pubblico risorse che, impiegate altrimenti, avrebbero potuto condurre alla realizzazione di qualche piccola opera essenziale per la qualità reale dei servizi logistici. L’aleatorietà delle previsioni sui flussi di domanda per le infrastrutture future è altra variabile della quale tenere conto. In pochi anni si sviluppano fonti di traffico nuove. E si indeboliscono flussi di traffico che in precedenza erano previsti in forte aumento. Basti pensare ai rivolgimenti che sono in corso per effetto dei consistenti incrementi di traffico che sono attratti dalle strutture portuali, in Italia e nel mondo.
Infine, anche il riutilizzo e la rivitalizzazione di infrastrutture esistenti aiuta ad abbattere costi e tempi di realizzazione. Fino alla fine degli anni Ottanta sarebbe stato impensabile che i porti di Gioia Tauro e Taranto potessero diventare attori dello sviluppo logistico mediterraneo. Nel caso di Gioia Tauro si è riutilizzata una infrastruttura concepita per il gigantismo della siderurgia, per decenni rimasta del tutto inutilizzata e che poi è servita come piattaforma per realizzare un porto di transhipment che ha conquistato un suo posizionamento competitivo di livello almeno europeo.

La tipicità della struttura industriale

L’economia italiana è costituita da un esteso tessuto di medie e piccole imprese, oltretutto caratterizzate ancora da una inadeguata cultura della logistica moderna. Spesso la logistica viene delegata al compratore della merce, e non si riesce a fare sistema nelle realtà distrettuali. Stentano a emergere poli logistici e piattaforme di dimensione coerente con la nuova strutturazione dei mercati, mentre continuano a prevalere localismi che spingono a costruire o a progettare interporti e strutture logistiche prive di quelle caratteristiche indispensabili per offrire alla business community vere opportunità di sviluppo e di servizio in una logica di mercato globale. Con l’aggravante di disperdere le risorse in mille rivoli, senza concentrare l’organizzazione dei flussi di merce in strutture della dimensione necessaria a realizzare economie di scala, e quindi servizi logistici a costi competitivi per il mercato.
Anche nei distretti industriali non si sono generati fenomeni di razionalizzazione della logistica, che avrebbero potuto favorire, per esempio, il ricorso alla modalità ferroviaria. In mancanza di distretti organizzati e di grandi industrie, il settore dell’autotrasporto ha offerto i propri servizi alla piccola-media impresa polverizzata sul territorio e dunque caratterizzata da esigenze gestionali e di servizio molto diverse fra loro.

Quali opere pubbliche

Insomma, stretti tra il gigantismo retorico delle grandi opere e il localismo esasperato, si tratterebbe ora finalmente di dare priorità e risorse alle opere necessarie, spesso di piccola dimensione, con l’obiettivo di generare un miglioramento tangibile nella qualità della offerta di servizi logistici, in un arco temporale che possa essere apprezzato dall’industria. In particolare, le priorità sono i completamenti degli spezzoni di reti che presentano carichi di traffico robusti, la scelta degli interventi in una logica non più solo nazionale ma europea, il rifiuto della dilatazione dei siti logistici, privilegiandogli insediamenti effettivamente strategici. Si può così avviare un percorso virtuoso che metta al centro delle scelte gli interessi dei clienti dei servizi logistici.

Esempi da evitare o esempi da imitare?, di Silvio Pancheri* 28/11/2002

Come si fanno le valutazioni dei grandi progetti infrastrutturali?
Al tema, Boitani e Ponti hanno dedicato un breve scritto, suggestivo per l’ottica rovesciata assunta dagli autori: al posto delle “buone pratiche” hanno illustrato quelli che secondo loro sono due “cattivi esempi”, casi emblematici di quel che non si deve fare, di approcci da evitare. I cattivi esempi corrispondono a due attraversamenti controversi: l’attraversamento di Mestre (il passante, il tunnel) e l’attraversamento dello Stretto (il ponte sì, il ponte no). Si tratta di lezioni negative perché manca “un’appropriata analisi costi benefici”.

Le ragioni di una presa di posizione così netta appaiono deboli: nei progetti complessi e stratificati nel tempo l’analisi costi benefici non può bastare, non è decisiva. Vediamo perché.

Il caso dell’attraversamento di Mestre
L’andirivieni delle proposte e delle decisioni prende il via negli anni settanta: inizia con le complanari alla tangenziale, poi il passante del PRT del 1989, cui venne contrapposto un passante più corto, poi lo studio di fattibilità Borruso con tre ipotesi, fra cui un tunnel, poi quello della Provincia con linea dei Bivi, poi la blue road sopraelevata, poi il riutilizzo della corsia di emergenza, il progetto di passante breve della Regione, gli accordi di Prodi, il tunnel e infine la querelle con Bolkenstein sulla gara e, recentissima, la decisione del CIPE.

L’iter tortuoso della decisione ha vissuto più momenti di sintesi (sempre provvisoria, sempre smentita) e in più occasioni le scelte (sempre smentite, sempre provvisorie) erano corroborate dagli esiti di “adeguate” analisi costi benefici. Ma le molte voci e i molti interessi dell’area metropolitana veneta sfuggono a una sintesi meramente tecnica, né una (sola) tecnica, l’analisi costi benefici, può bastare, da sola, a sorreggere una decisione non controvertibile. Anche ad essa sfugge la capacità di tenere i fili, da sola, di progetti complessi e stratificati (serve, ma forse serve di più dopo la decisione per spiegare chi ci guadagna e chi ci perde).

L’incertezza che ha accompagnato questa vicenda non è un cattivo esempio: non perlomeno per motivi attinenti la presenza o meno di analisi costi benefici. E’ illusorio credere che progetti complessi siano governabili attraverso una mèta tecnica risolutiva, decisiva, quasi un oracolo: servono molti strumenti, meglio l’esposizione paratattica dei pro e dei contro, degli esiti delle analisi di convenienza, dell’incertezza, dei rischi, delle misure di compensazione, e la pura decisione politica, cui va riconosciuto un ruolo insostituibile.

Il caso dell’attraversamento dello Stretto
La storia del ponte è altrettanto lunga, trent’anni, ma non parte (come il caso precedente) da una situazione di collasso della circolazione per eccesso di domanda o per miopia urbanistica, nasce semmai da una situazione di relativa disorganizzazione di un servizio, il traghetto, in reale crisi solo in periodi particolari. Dal primo concorso Anas (1970) alla fattibilità delle tipologie aereo, subalveo e alveo (1986), al progetto preliminare (1990), al progetto Musumeci del ponte sospeso a unica campata (1997), il collegamento stabile assume, fin da principio, valenza economica e valore di mito. Se ne deve tener conto: un’opera caricata fin da principio di valori extraeconomici (così come un tribunale può essere solo razionale o anche monumentale).

Sbagliano Boitani e Ponti quando sostengono che per quest’opera non è stata fatta un’ analisi costi benefici: c’è ed è stata vagliata dal Consiglio superiore dei lavori pubblici (1997) che attraverso essa ha accertato la convenienza alla realizzazione. Perché negarla e non riconoscere che l’organo tecnico supremo l’ha riconosciuta valida? Forse perché non basta la presenza di un’analisi costi benefici positiva per legittimare un’opera tanto complessa ed eccezionale? Appunto. Non basta.

Per Boitani e Ponti il cattivo esempio, l’emblema di come non si fa valutazione è offerto dallo studio più recente, promosso dal CIPE nel 2000 e affidato ad un advisor, riguardante le prospettive dei collegamenti Sicilia-continente (aerei, via mare, con i traghetti lungo lo Stretto) da qui al 2010 e da lì in avanti: lo spartiacque è dato dall’anno di (eventuale) avvio d’esercizio del ponte. Scenari con e senza ponte: mantenendo sempre comunque i servizi di traghetto, insostituibili.

Lo studio è un buon esempio, un esempio da imitare: non ha chiuso la focale sul ponte ma ha letto e risolto correttamente due periodi e due problemi distinti.

Il primo con l’obiettivo di evitare l’insorgere di vincoli di offerta nei trasporti da qui al 2010 (nel pieno dello sforzo per ridurre il divario strutturale del Mezzogiorno, che è il fine del programma di sviluppo cofinanziato dalla UE) quando gli scambi della Sicilia non potrebbero comunque avvalersi del ponte, che semmai sarebbe d’intralcio (fase di cantiere).

Il secondo con l’obiettivo di non forzare la capacità di prefigurazione di scenari appartenenti a un futuro lontano, oltre il 2010: più cresce l’incertezza delle previsioni, più deve essere la cautela nel loro impiego. Incertezza e rischio sono assorbite dall’analisi finanziaria (il rischio si paga, il denaro costa di più per iniziative lontane e rischiose, il contributo pubblico cresce) meno dall’analisi costi benefici. Se ne potrebbe discutere a lungo, certo l’analisi costi benefici non sarebbe stata risolutiva (forse fuorviante, se l’enfasi in essa fosse stata riposta in via prioritaria sugli esiti quantitativi). Futuro lontano, mito e utilità sono parti costitutive di un progetto complesso, non comune, proiettato oltre il 2010.

Spetta all’amministrazione tenere i fili dei progetti complessi: ecco perché dal rapporto finale dell’advisor l’amministrazione ha tratto autonomamente conclusioni e raccomandazioni, interpretando il servizio chiesto, evidenziandone pregi e punti deboli, indicando ciò che andava fatto comunque, descrivendo le incertezze, ottimizzando così tutte le informazioni disponibili ai fini della decisione finale, che resta decisione del Governo. Vogliamo riaprire la discussione sull’egemonia della tecnica o della politica? Sarebbe fuorviante.

* Responsabile dell’unità di valutazione degli investimenti pubblici, Ministero dell’Economia e delle Finanze, Dipartimento per lo Sviluppo.

Grandi infrastrutture e granitiche certezze, di Andrea Boitani e Marco Ponti 28/10/2002

È proprio vero (si veda Picci) che gli investimenti infrastrutturali devono essere portati a termine e non solo programmati e finanziati. Ma sarebbe altamente raccomandabile che, prima di tutto, i vari progetti venissero valutati con appropriate analisi costi-benefici. Probabilmente si eviterebbe così che, dopo anni di assurdi rinvii, il Cipe(Comitato interministeriale programmazione economica) decida di varare simultaneamente il passante autostradale e il tunnel di Mestre. Un sovrappiù di opere pubbliche in una singola area – giudicato eccessivo anche dagli industriali del Veneto – quando ci sono altre gravi carenze infrastrutturali nella stessa regione. Allo stesso modo, la discussione sul completamento dell’autostrada tirrenica avviene in assenza di una valutazione tanto della soluzione caldeggiata dalla regione Toscana quanto di quella (assai più costosa) sostenuta dal Ministro Lunardi.

La valutazione del ponte sullo Stretto

Anche sulle valutazioni, però, bisogna intendersi. Quella effettuata, nella scorsa legislatura, per il ponte sullo Stretto di Messina non è un esempio da seguire. Cercheremo, qui di seguito, di spiegare perché. La tradizionale analisi costi-benefici non è stata fatta dall’advisor, perché il bando con cui l’advisor (1) è stato scelto non lo richiedeva esplicitamente. Questo tipo di analisi è tra l’altro la più semplice e di gran lunga la più diffusa a livello internazionale. La decisione del governo precedente (1999) di non richiederla nel bando aveva suscitato perplessità all’interno dell’allora ministero dei Lavori Pubblici, anche perchè, dai dati di traffico, sembrava evidente che quell’analisi non avrebbe dato risultati positivi.

Il traffico previsto
Il traffico previsto per il ponte, infatti, anche nelle ipotesi più favorevoli, è modesto: il traffico “interurbano” di breve distanza (tra Messina e Reggio) sarebbe più rapido con un sistema di traghetti veloci; il traffico merci di lunga distanza ha nelle “autostrade del mare” un concorrente molto più economico, e il traffico passeggeri di lunga distanza viaggia già in gran parte in aereo. Al crescere del reddito (e al decrescere delle tariffe aeree, grazie all’auspicabile sviluppo della concorrenza) il traffico di superficie si ridurrà nonostante il ponte.

L’impatto della spesa
L’analisi fatta dall’advisor appartiene alla famiglia delle analisi “di valore aggiunto”. Con tale analisi si misurano gli impatti della spesa per l’opera sull’economia dell’area, che sono, per definizione, tanto più positivi quanto più elevata è la spesa stessa. Ma perché l’analisi abbia senso, si dovrebbero almeno confrontare destinazioni alternative della stessa spesa. Il confronto non andrebbe cioè fatto solo con la “soluzione senza ponte”: per i motivi sopra detti, infatti, quest’ultima richiede meno fondi, anche se le spese previste per migliorare i collegamenti esistenti sono tutt’altro che trascurabili. Per il ponte si prevede una spesa di € 4,84 miliardi, mentre la “soluzione senza ponte” richiederebbe una spesa di € 1,035 miliardi. Vi sono, inoltre, importanti lacune logiche nell’approccio del valore aggiunto, poiché con esso si assume come implicitamente nullo tanto il costo-opportunità dei fondi pubblici che quello del lavoro. Quest’ultimo potrà forse essere basso nel Mezzogiorno, ma certamente non è nullo. Inoltre non poca manodopera addizionale (circa il 50% dell’incremento occupazionale secondo le stime del Certet) dovrà essere impiegata nelle forniture di materiale al Centro-nord, in regioni in cui siamo vicini alla piena occupazione.

La questione finanziaria e gli elevati rischi per il bilancio pubblico
Quando l’analisi dell’advisor s’è resa disponibile, i ministeri competenti (Tesoro e Lavori pubblici) hanno spostato l’attenzione dalla valutazione economica alla questione finanziaria, al fine di stabilire la quota di finanziamento che i privati erano disposti ad accollarsi. L’autofinanziamento – date le previsioni di traffico – non appare verosimile, e altre esperienze di infrastrutture di trasporto (tunnel sotto la Manica, Ponte sull’Oresund) danno indicazioni negative. Ma purtroppo gli schemi di “project financing” si prestano benissimo a meccanismi di finanziamento pubblico occulto e rimandato nel tempo (come è emerso chiaramente nel caso dell’Alta Velocità ferroviaria). Sono poi emerse delle “condizioni” per la finanziabilità dell’opera – come la chiusura dei servizi di traghetto – lesive della libertà di impresa, o – come l’assunzione del rischio commerciale da parte dello Stato – lesive della decenza.

La crescita economica?
Quanto all’effetto sulla crescita economica della costruzione del ponte (come di altre opere pubbliche), è bene ricordare il caso giapponese. Per un decennio il Giappone ha puntato su grandi piani di opere infrastrutturali, al fine di rilanciare un’economia in recessione. Ne è risultato un elevatissimo livello di indebitamento pubblico e delle maggiori banche; nessuno sviluppo economico; rilevanti danni ambientali e livelli di corruzione giudicati preoccupanti da molte fonti (come, per esempio, “The Economist”). Si può inoltre osservare che per lo sviluppo del Mezzogiorno sembrano esserci priorità assai più urgenti, legate al buon funzionamento dell’esistente (operazione comunque difficile e costosa) e ai settori turistici vocazionali per l’area. Questi richiedono importanti investimenti pubblici, anche solo per distruggere (compensando i proprietari) gli scempi edilizi che riducono il valore ambientale e paesistico di alcune aree, ripristinare un migliore assetto del territorio, garantire l’accesso. Tutte attività, tra l’altro, in cui il coinvolgimento finanziario e imprenditoriale dei privati appare meno rischioso e, quindi, più probabile che in grandi opere dalla redditività incerta e, comunque, molto differita.

È auspicabile che la negativa lezione del ponte sullo Stretto serva al Governo per impostare più correttamente l’imponente piano di nuove opere previsto dalla legge obiettivo.

(1) Un’associazione temporanea di imprese, costituita da Pricewaterhouse Coopers Consulting. Pricewaterhouse Coopers UK, Certet-Bocconi (Centro di Economia Regionale dei Trasporti e del Turismo), Sintra e Net Engineering.

Per saperne di più:

A. Boitani e M. Ponti, La spesa pubblica per investimenti nel settore dei trasporti, CTSP, Ministero dell’Economia, Raccomandazione n.9, 2000, Roma.

M. Ponti, L’analisi che non fu fatta, in Meridiana, n.41, pp.153-163.

F. Petrina e C.Virno, Procedure e organismi si valutazione degli investimenti pubblici, CTSP, Ministero dell’Economia, luglio 2002, Roma.

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  1. oalongo

    L’elenco delle città con metropolitana di Andrea Boitani non contempla Genova (la terza in Italia, prima di Napoli) che a piccoli passi sta costruendo una linea, una sola, di difficile realizzazione, ma molto utile in una città dove la circolazione è complicata per via della sua conformazione. Al momento ha 4 fermate più i capolinea e non utilizza preesistenti linee RFI (già FFSS). Queste ultime sono invece percorse da numerosi treni metropolitani, in particolare da Ponente al centro. Altri mezzi di trasporto sono gli ascensori, le funicolari e, per ora solo in occasioni particolari, i battelli. Credo che la soluzione per la mobilità urbana stia nel mix di sistemi adeguato non solo alla popolazione, ma anche (forse soprattutto) alla conformazione fisica della città. I costi di una infrastruttura vanno poi valutati sul lungo termine mettendo in conto quanto incide sulle abitudini quotidiane della gente, e di conseguenza sulla vivibilità di una città, la disponibilità di mezzi pubblici che siano anche “tecnologicamente” visibili.

  2. pietro maturi

    In un precedente messaggio si fa riferimento alla metropolitana di Napoli con informazioni non aggiornate. Per la precisione, Napoli ha una vecchia linea metropolitana su tracciato FS (oggi linea 2) e dal 1990 una nuova linea metropolitana che oggi ha raggiunto quota 15 stazioni su percorso proprio (linea 1). La linea 1 sarà prolungata nelle due direzioni fino a formare un anello con circa 30 stazioni che includerà tra l’altro aeroporto, stazione centrale, porto e centro storico.
    Inoltre Napoli dispone di altre linee metropolitane gestite da società private, che collegano il centro all’area occidentale (Linee 5 e 7) e orientale (linee 3 e 4). Per informazioni più complete si può consultare il sito non ufficiale http://web.tiscali.it/defalco_ivanoe/trasporti/neti/indexi.html

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