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Le molte conferme sulla povertà in Italia

Dall’indagine campionaria Istat 2004 sui consumi emerge l’aumento di quasi un punto della quota di famiglie povere, che arriva all’11,7 per cento. Cresce anche il divario tra Nord e Sud. Il confine tra benessere e povertà è spesso molto labile. Il rischio povertà è più alto per le famiglie con bambini piccoli, si abbassa quando il capofamiglia raggiunge l’apice della carriera e torna a salire per i pensionati. Colpa anche di un sistema di welfare tra i più inefficaci in Europa. Così come deludenti sono stati i tentativi di aumentare i redditi familiari con i tagli all’Irpef.

Il quadro della povertà nel nostro paese che emerge dai dati diffusi la scorsa settimana dall’Istat, relativi al 2004, presenta qualche novità, ma soprattutto molte conferme.

L’indagine Istat

L’Istat stima il numero dei poveri sulla base dell’indagine campionaria sui consumi, che ogni anno intervista circa 28mila famiglie. La linea di povertà, per una famiglia di due persone, è pari al consumo medio pro-capite. Per famiglie di diversa composizione, la soglia viene individuata applicando una scala di equivalenza. Poiché la povertà viene valutata sulla base del consumo, e non del reddito disponibile, questo criterio può sovrastimare la povertà delle famiglie molto parsimoniose, ad esempio di molti nuclei con capofamiglia anziano, e sottovalutare invece le condizioni di disagio delle famiglie che spendono tutto il proprio reddito o si sono indebitate. Accanto all’indagine sui consumi dell’Istat, l’altra fonte statistica di base per la stima della povertà nel nostro paese è costituita dall’indagine Banca d’Italia, che fornisce informazioni complementari perché valuta la povertà in termini di scarsità di reddito, e non di consumi. Nel prossimo futuro, a queste due indagini si aggiungerà anche il contributo della nuova rilevazione sui redditi e sulle condizioni di vita, che l’Istat ha appena presentato in un convegno. I suoi primi risultati saranno diffusi tra pochi mesi.

Aumenta il divario fra Nord e Sud

La figura presenta l’andamento della quota di famiglie povere nelle varie aree del paese, negli ultimi otto anni. Si nota una sostanziale stabilità della misura aggregata, con una incidenza oscillante attorno all’11 per cento.

Quota di famiglie povere per area di residenza

Fonte: Istat, “La povertà relativa in Italia nel 2003”, Statistiche in breve del 13 ottobre 2004; “La povertà relativa in Italia nel 2004”, Statistiche in breve del 6 ottobre 2005.

Il risultato principale dell’indagine relativa al 2004 è l’aumento di quasi un punto della quota di famiglie povere, che passa dal 10,8 per cento del 2003 all’11,7 per cento.
È vero che il margine di errore campionario rende la differenza tra i due valori al limite della significatività statistica, comunque un aumento secco di quasi un punto non è cosa da poco.
Questo incremento sembra dovuto a un forte peggioramento delle regioni meridionali, e a un rilevante miglioramento del Nord. In realtà, l’unico dato davvero nuovo che emerge da queste stime è la crisi dei consumi del Meridione, mentre sarebbe sbagliato leggervi anche un aumento del benessere delle famiglie residenti nel Nord.
La ragione è semplice: la linea di povertà è unica su tutto il territorio nazionale, e dipende dall’evoluzione dei consumi in tutte le aree del paese. Se al Sud i consumi crollano e al Nord aumentano, allora la linea, che si applica a tutti, cresce meno che proporzionalmente rispetto ai consumi medi delle famiglie del Nord, e quindi alcune di queste ultime, che prima erano sotto la linea di povertà, ora possono non risultare più povere. Ma è evidente che il tenore di vita delle famiglie milanesi a basso reddito non aumenta per il solo fatto che i consumi delle famiglie di Catania diminuiscono.
Per verificare se al Nord vi sono davvero meno famiglie indigenti avremmo bisogno di linee locali della povertà, ad esempio una linea calcolata solo con riferimento ai consumi delle famiglie del centro-nord, e una relativa solo al meridione. La linea nazionale unica rimane importante perché siamo comunque cittadini di una medesima nazione, ma senza linee locali non possiamo sapere come la povertà stia davvero evolvendo nelle aree caratterizzate da andamenti divergenti dei consumi medi. Paradossalmente, se usassimo linee locali potremmo anche scoprire che la povertà è diminuita al Sud, ed è invece aumentata al Nord.
L’unica vera novità che è contenuta nei dati Istat è quindi che il gap tra le due Italie si sta ampliando, come già in parte sapevamo sulla base di una ampia batteria di indicatori congiunturali, dalla produzione industriale all’andamento dell’occupazione, o a quello delle vendite al dettaglio.

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La linea di povertà a 1.500 euro

È istruttivo anche considerare il valore monetario della linea di povertà, cioè della soglia di spesa mensile al di sotto della quale si è considerati poveri: per una famiglia di quattro persone essa vale 1.500 euro. Ciò significa che tutti i nuclei di quattro componenti in cui solo il padre lavora, ma guadagna meno di questa cifra, sono poveri. Insomma, per molte famiglie si pone la scelta obbligata tra la sicurezza economica e avere il secondo bambino. Si tratta di una situazione molto frequente, non solo nel lavoro manuale, ma anche tra impiegati e insegnanti. Non è quindi un caso che il tasso di fertilità nel nostro paese sia così basso. Il confine tra benessere e povertà è dunque spesso molto labile: può bastare un evento straordinario, come la nascita del secondo o del terzo figlio, o il licenziamento del coniuge, per precipitare al di sotto della soglia.

L’andamento ad U della povertà nel ciclo di vita

Dai dati Istat ci viene un’altra conferma: l’incidenza della povertà nel ciclo di vita delle famiglie presenta un tipico andamento ad U. Il rischio di povertà è alto quando si hanno in famiglia bambini piccoli, si abbassa quando il capofamiglia raggiunge l’apice della carriera lavorativa e i figli escono (lentamente) di casa, cioè verso i 50-60 anni, e aumenta tra i pensionati. Come detto, l’incidenza della povertà tra gli anziani potrebbe essere esagerata dalla considerazione del consumo e non del reddito; l’indagine Banca d’Italia sui redditi mostra infatti una maggiore diffusione della povertà tra i bambini. Comunque, è certo che vi sono molti anziani che hanno tenori di vita bassissimi.
Questo profilo della povertà è noto da tempo, così come le sue cause. La principale consiste nei tanti difetti strutturali del nostro sistema di protezione sociale. Il welfare state italiano è troppo sbilanciato sulle pensioni, e destina risorse molto scarse a tutela degli altri principali rischi sociali, in particolare la disoccupazione e i carichi familiari.
Mentre nei paesi europei la spesa per la famiglia raggiunge in media l’8 per cento della spesa sociale, questa percentuale si dimezza in Italia. Ancora peggio va per gli ammortizzatori sociali, a cui il nostro paese riserva solo l’1,6 per cento della spesa sociale, contro il 6 per cento medio in Europa. Le pensioni, infine, proteggono bene gli ex lavoratori del centro-nord, ma sono basse per gli altri, soprattutto per le donne molto anziane. Tra tutti i 25 paesi dell’Unione Europea, solo Spagna e Grecia hanno sistemi di welfare meno efficaci del nostro nel ridurre il rischio di povertà.
A quando le riforme? Negli ultimi anni per aumentare i redditi familiari si è puntato soprattutto sui tagli all’Irpef, con risultati deludenti. Gli interventi “sociali” a cui si sta pensando in questi giorni per la nuova Finanziaria, se ci saranno, avranno solo una validità transitoria, come il bonus per il secondo figlio del 2004, quindi con effetti strutturali nulli. Se, come molti temono, il deficit del bilancio pubblico viaggia ormai verso il 5-6 per cento del Pil, allora c’è poco da sperare nelle riforme, e i futuri rapporti sulla povertà dell’Istat ci forniranno una fotografia dei poveri molto simile a quella di oggi.

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11 commenti

  1. Michele Leone

    Buonasera alla redazione di la Voce.
    Ho letto l’articolo di Baldini che commenta i dati Istat sulla povertà.
    Penso che le analisi effettuate dall’economista siano esatte e soprattutto quando si accenna al deludente risultato dei tagli fiscali del governo nella finanziaria 2005 si dice una cosa corretta.
    Infatti ,come già documentato dallo stesso autore dell’articolo e da altri economisti de La”Voce” nelle pagine dello scorso anno, la terza pare del piano di riforma dell’imposta sui redditi delle persone fisiche ha privilegiato gli scaglioni di reddito alti a scapito di scaglioni di reddito modesti che hanno visto aumentare di meno la loro capacità di consumo e quindi in sostanza hanno visto aumentare la disuguaglianza relativa. Nei primi moduli si dirà gli effetti erano invertiti ma il risultato forse facendo la somma del piano di riforma fiscale alla lunga premia i percettori di redditi alti che avranno più benefici nei maggiori guadagni.Concordo sul piano di riforma della spesa sociale ma se si tagliavano le tasse ai più ricchi contribuenti era ovvio che le risorse rimaste non potevano redistribuire benefici ed infatti il danno della riforma si è visto anche in questo ambito.La povertà non poteva non aumentare anche perchè se non si crea ricchezza, non aumentando la base imponibile per contribuente (anzi diminuendola), chi è in difficoltà vede aumentare le distanze non ridurle.Vorrei sapere dal prof. Baldini se scriverà un altro articolo su questi temi di parlare dell’economia sommersa e di come considerando le economie in nero si possa parlare di povertà in Italia alla luce anche di quello non dichiarato al fisco anche per capire meglio la situazione del meridione dove sono molti quelli che ammortizzano in proprio le risorse e dove nonostante questo le disuguaglianze possono essere maggiori.
    Saluti

    • La redazione

      Sono d’accordo, con la riforma fiscale si sono sprecate risorse che potevano essere utilizzate molto meglio.
      A proposito dell’economia sommersa, bisogna sottolineare che le stime della povertà provengono da indagini campionarie che forse riescono a cogliere anche alcuni comportamenti ignoti alle statistiche amministrative.
      Anche un welfare state “povero” o una amministrazione inefficiente possono indurre all’evasione: se comunque riceverò poco in cambio, o se gli altri evadono, perché dovrei pagare tasse e contributi? Il risultato è un fai da
      te molto rischioso, che non può efficacemente assicurare nessuno dal pericolo di cadere in povertà.
      Cordiali saluti

  2. Massimo Sainati

    Caro Dott. Baldini,

    La ringrazio del contributo, denso di informazioni ma allo stesso tempo di facile comprensibilità.
    Una piccola notazione di cui spero vorrà cogliere il sottostante amaro sorriso.
    Dove parla di linea di povertà, assimilare ad eventi straordinari un licenziamento ed una nascita (del secondo, poi !) è tecnicamente ineccepibile.
    Umanamente è segno di un cambiamento radicale nello stile e nelle necessità di vita che farebbe molto divertire i nostri genitori, quando le famiglie con 4, 5, 6 figli non erano proprio la rarità.
    Forse erano tutti fenomeni …
    In modo meno divertito, siamo ridotti proprio male se un secondo figlio è fonte di cambiamenti tanto epocali da portare una famiglia dalla serenità alla povertà.
    Con simpatia e grazie ancora
    Massimo Sainati

    • La redazione

      Grazie per il commento, sono d’accordo con le sue osservazioni.
      Il rischio di cadere in povertà dopo la nascita di un secondo figlio riguarda le famiglie monoreddito. Sarebbe molto interessante approfondire quanto i bambini stiano diventando nella nostra società, un “bene di lusso”.
      In molti paesi, tra cui credo proprio anche il nostro, l’aumento della quota di donne che lavorano, tipico degli ultimi 30 anni, si spiega non solo con il desiderio di emancipazione e realizzazione personale, ma anche con la necessità di un sostegno aggiuntivo al bilancio familiare.
      Cordiali saluti

  3. Claudio Resentini

    Alcune veloci annotazioni sull’articolo del prof. Baldini:
    1) Il welfare italiano è un welfare sottosviluppato soprattutto perché la spesa sociale è insufficiente a coprire i rischi sociali e non tanto per la distribuzione delle risorse; tanto è vero che anche la spesa previdenziale non riesce neppure a coprire adeguatamente il rischio povertà nella popolazione anziana nonostante.
    2)I tagli dell’IRPEF promossi dal governo Berlusconi hanno come primo evidente obiettivo, attraverso il graduale abbandono della progressività delle imposte, l’ulteriore arricchimento dei “contribuenti” (si scrive così ma si legge “evasori”) ricchi e non certo l’incremento dei consumi.
    3)Il problema (politico) non è spostare le risorse, ma incrementarle. Togliere ai poveri (pensionati) per dare ad altri poveri (disoccupati e “working poors”) non è una soluzione né giusta, né equa e di fatto non sposta il problema. Bisogna aumentare la spesa sociale attingendo risorse laddove ci sono, cioè dai capitali privati. Cercare i modi per farlo (tassare le rendite o le transazioni finanziarie, individuare modi per combattere efficacemente l’evasione, ecc.) all’interno di uno scenario “globalizzato” come quello attuale, è materia squisitamente tecnica, cioè economica, e quindi, ad esempio, del prof. Baldini.
    Buon lavoro e cordiali saluti.

    • La redazione

      Lo scopo principale della spesa previdenziale non è il contrasto della povertà, ma il trasferimento di risorse dagli anni di lavoro a quelli di riposo. E’ la spesa assistenziale, sganciata da meccanismi assicurativi, che deve garantire i cittadini dal rischio della povertà, e questa è bassa
      a tutte le fasce di età, anche quelle più avanzate.
      Se guardiamo agli altri paesi europei, la quota della nostra spesa sociale sul pil è più o meno in linea con la media europea, mentre è proprio la sua composizione interna ad essere molto squilibrata. Certo sarebbe opportuno
      un suo aumento complessivo, ma con il bilancio pubblico in condizioni disastrose sarebbe già un buon risultato ridefinire le priorità a favore delle aree del disagio.
      Cordiali saluti

  4. Bonzanini

    Prof.Baldini,
    il numero delle famiglie italiane povere è in continuo aumento, il rapporto fra salario e costo della vita è sicuramente sproporzionato; vorrei chiedere perchè non si permette alle famiglie di poter dedurre fiscalmente le spese “ordinarie” (scuola, asilo, bollette, piccoli lavori di manutenzione casa e altre fonti di spesa comune).
    Con tale provvedimento, oltre ad andare incontro alle esigenze delle famiglie, si ridurrebbe sicuramente una parte di evasione fiscale
    Non capisco perchè nessun governo, (destra o sinistra non fa differenza) pernde in esame questa eventualità.

    • La redazione

      la ragione principale è, mi sembra, la perdita di gettito, che in questo momento non ci possiamo permettere, e che quindi richiederebbe, anche scontando un recupero di evasione, un aumento delle aliquote.
      Qualcosa comunque si è fatto, in particolare la detrazione per spese di ristrutturazione degli immobili, che ha ancora un grande successo ad 8 anni dalla sua introduzione.
      La strada che lei propone è equivalente a quella di un aumento mirato della spesa sociale. Ad esempio: portare in detrazione le spese per il nido equivale a dare più soldi ai comuni che così possono ridurne la tariffa, ecc. . La spesa sociale avrebbe il vantaggio di raggiungere anche gli incapienti, cioè i più poveri.

  5. Claudio Resentini

    Mi dispiace, ma devo dissentire dalla sua replica: lo scopo principale della spesa previdenziale è sempre stato storicamente il contrasto delle difficoltà economiche (leggi povertà) delle persone che non hanno più un lavoro perchè ritirati, a prescindere dall’attuarialità o meno del sistema. Ed è proprio perchè il sistema ha almeno in una certa misura funzionato che lo si dimentica! I pensionati non sono sempre poveri proprio perchè hanno la pensione …o no? Non vorremmo riaprire dopo più di un secolo da Bismarck una nuova “questione sociale”, vero?
    La spesa assistenziale, poi, in un welfare “lavoristico” come il nostro dovrebbe coprire i rischi sociali (povertà inclusa) di chi non gode della protezione fornita dal mercato del lavoro (o dai mercati in generale) durante la vita attiva o dopo.
    Inoltre se la spesa sociale italiana si sta avvicinando alle medie europee non lo si deve tanto al virtuosismo italiano, ma perchè la scure sul welfare si è abbattuta un po’ ovunque.
    Quanto al dissesto dei conti pubblici non credo che si debba risparmiare sulla pelle dei più deboli…
    Di nuovo, cordiali saluti.

    • La redazione

      Mi sembra che lei stia esagerando la distanza tra le nostre opinioni, rendendo le mie un po’ caricaturali, quindi mi è difficile entrare in poco spazio nel merito, anche per evitare di creare una catena di repliche e controrepliche. Se vuole, mi puo’ contattare direttamente per email all’indirizzo che trova nel sito della mia facoltà di economia di Modena.
      Cordiali saluti.

  6. FRANCO BONACCHINI

    La definizione di 1500 euro per una famiglia di 4 persone quale soglia della povertà fatta dalla Banca d’Italia per una famiglia media italiana, è preoccupante. Resta comunque da stabilire quale sia l’effettivo valore dei beni che si consumano, viste le ultime polemiche insorte riguardo ad esempio i farmaci in Italia. E’ un bel problema da affrontare sicuramente per chi volesse governare come controllare i costi dei beni, sopratutto quelli di prima necessità e dei servizi essenziali, salute ecc.
    Io sono dell’idea che vada rivisto, dando maggiori poteri, il ruolo delle autorithy a livello europeo, ma sopratutto quello degli incentivi e delle provvidenze ai produttori. Ad esempio che senso ha sostenere l’agricoltura dei vari paesi, quando il surplus di prodotti viene eliminato e non immesso sul mercato e quando il guadagno principale non è del produttore, ma di chi lo commercializza?

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