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L’Aids e il vaccino che non c’è

Debellare l’Aids è una priorità ed è considerato l’intervento dai maggiori benefici economici in termini assoluti. Eppure il vaccino ancora non c’è. Perché? Sicuramente ricerca e sviluppo sono estremamente costosi. Ma soprattutto è diversa la redditività di un farmaco post-contagio e di un vaccino. E dunque per le imprese farmaceutiche è più conveniente investire nella ricerca di cure. A questo fallimento del mercato potrebbe rimediare l’operatore pubblico. Un intervento giustificato anche dagli alti costi di prevenzione e cura della malattia.

Venticinque anni dopo la prima diagnosi ufficiale di Aids in un essere umano, le conseguenze umane, sociali ed economiche della malattia sono ancora drammatiche nei paesi in via di sviluppo, e in particolar modo nell’Africa Sub-Sahariana, dove vive la maggior parte dei quaranta milioni di persone malate di Hiv/Aids: ogni minuto muoiono sette persone, e ogni giorno diciassettemila contraggono il virus.
L’Aids distrugge capitale umano non solo mietendo vittime, ma anche riducendo la qualità della vita, l’energia e la produttività degli individui che lo contraggono, e scoraggiando, tra le altre cose, l’investimento in istruzione, essenziale per il progresso economico e sociale dei paesi poveri.
L’anno scorso, le conclusioni del
Copenhagen Consensus, un panel composto da alcuni dei più importanti economisti a livello internazionale, hanno messo la lotta all’Hiv/Aids al primo posto nella lista delle priorità, giudicando l’eradicazione della malattia come l’intervento dai maggiori benefici economici in termini assoluti.

Il “calo d’attenzione” in Occidente

In contrasto con il dramma dei paesi più poveri, in Occidente sono stati compiuti grandi progressi nella riduzione dei decessi per Aids, soprattutto grazie ai farmaci antiretrovirali, che si sono diffusi negli ultimi dieci anni. Chi si infetta oggi in un paese occidentale ha una prospettiva di vita di trenta anni, contro i dieci degli anni Ottanta.
Quali misure adottare per combattere l’Aids anche nei paesi più poveri? Da un lato, vi è chi vorrebbe che i farmaci anti-Aids venissero distribuiti gratuitamente o a basso costo; dall’altro vi è chi sostiene che una tale misura finirebbe con il disincentivare la ricerca di nuovi farmaci da parte delle compagnie farmaceutiche. Altri ancora sostengono che la via migliore per combattere l’Aids è la prevenzione attraverso l’uso di profilattici o l’abbandono di pratiche sessuali a rischio. È però un dibattito molto limitato, e non conduce a una soluzione di lungo periodo.
Accanto alla prevenzione, nel lungo periodo la strategia più efficace contro l’Aids sarebbe la ricerca e la scoperta di un vaccino che renda immuni dal virus.
Sebbene possa sembrare paradossale, la presenza di migliori cure, in assenza di una serie di altri interventi correttivi, può avere effetti “perversi”. Quando esiste una cura contrarre una malattia diventa meno “costoso”, cosicché diventano più frequenti comportamenti individuali che aumentano la probabilità di ammalarsi. Nel caso dell’Aids, comportamenti a rischio includono l’utilizzo di siringhe usate da parte di tossicodipendenti o rapporti sessuali senza protezione. L’Aids può venir vissuto come una malattia cronica, ad esempio come il diabete, per la quale esistono cure ragionevolmente efficaci e contrarla può non avere effetti devastanti sulla salute e lo stile di vita.
Questo “razionale” calo d’attenzione può generare una serie di conseguenze negative. Un soggetto a rischio che tiene comportamenti meno controllati si espone non solo a contrarre la malattia, ma anche a diventarne un vettore verso altri individui, che diventano a loro volta vettori, e così via. Inoltre, con una speranza di vita maggiore, le persone affette da Aids possono fungere da vettori per un tempo più lungo. Infine, un uso molto esteso dei farmaci e una maggiore diffusione del virus può portare alla mutazione del virus stesso, verso forme più resistenti (o ‘immuni’) alle cure. Un soggetto a rischio che diviene meno attento nei suoi comportamenti, con la speranza di poter usufruire di cure migliore e di una migliore qualità della vita, crea dunque un’esternalità negativa, cioè produce costi per la collettività. Oltre che di natura umana e sociale, i costi sono anche economici, poiché le risorse necessarie per le terapie sono elevate.
Queste considerazioni sono purtroppo coerenti con una serie di dati e fatti osservati nel mondo occidentale.
In Italia, ad esempio, alla sensibile riduzione nel numero di morti per Aids dall’introduzione delle cure antiretrovirali non si è accompagnato un proporzionale calo delle infezioni. Un recente rapporto pubblicato sul settimanale americano
The New Yorker offre informazioni interessanti sulla comunità gay di San Francisco, profondamente colpita e provata dall’epidemia di Aids negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta. Molti omosessuali, anche per la disponibilità di cure più efficaci, sembrano aver allentato la “vigilanza”. Le infezioni di Hiv a New York e San Francisco sono infatti in crescita, e una crescita ancora maggiore registrano le infezioni di altre malattie sessualmente trasmissibili come la sifilide.
Tutto ciò mostra non solo che cure e prevenzione non sono sostituti, ma, specialmente nel caso di malattie trasmissibili e letali, sono fortemente complementari: un effetto netto positivo dell’introduzione di cure più efficaci, dipende strettamente dalla presenza di massicce campagne di prevenzione, altrimenti potrebbe generare effetti opposti a quelli desiderati.
Le campagne di prevenzione si dimostrano poco efficaci nei paesi occidentali, ma sono ancora più difficili nei paesi in via di sviluppo dove a rischio non sono, come negli Usa o in Italia, piccole minoranze, ma una considerevole frazione della popolazione. In Africa meridionale e orientale, ad esempio, alcune abitudini sessuali e sociali, come rapporti non protetti e per gli uomini relazioni con più donne, sono diffuse e radicate in tutte le fasce della popolazione. Non solo, ma in molti paesi, come ad esempio l’
India, il sesso è un argomento ‘tabù’. Inoltre, il ricorso ai farmaci è molto più oneroso per l’assenza di infrastrutture mediche. Il vaccino, invece, rende la popolazione immune al virus prima del contagio ed elimina così la componente di esternalità perché annulla il ruolo di vettore dei singoli individui, mentre riduce i costi per la prevenzione e per i farmaci.

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Incentivi alla ricerca

Eppure, alla ricerca sui vaccini è destinata solo una miserrima parte rispetto alle spese dedicate alla ricerca sui farmaci post-contagio: circa un decimo nel settore privato. (1) Perché?
Sicuramente, ricerca e sviluppo di un vaccino sono enormemente costosi. Tuttavia, alcuni recenti studi si concentrano su aspetti più sottili del problema. Michael Kremer e Christopher Snyder notano una importante differenza tra la redditività di un farmaco post-contagio e di un vaccino. Un vaccino è venduto prima che un individuo abbia contratto la malattia. Di conseguenza, individui con una minor probabilità di contrarla potrebbero scegliere di non vaccinarsi, a meno che il prezzo del vaccino non sia molto basso. Ma a quel punto, l’investimento in ricerca non sarebbe più redditizio per l’impresa. Al contrario, una volta che un individuo ha contratto il virus, indipendentemente dalla sua probabilità di contrarlo a priori, sarà disposto a pagare lo stesso (alto) ammontare per ottenere il farmaco. Di conseguenza, una impresa può trovare vantaggioso un investimento iniziale in ricerca.
È interessante notare che, anche qualora il farmaco fosse meno efficace del vaccino, e quindi socialmente meno desiderabile, un’impresa potrebbe avere comunque incentivi a investire in ricerca sul farmaco. Nel caso dell’Aids, queste dinamiche sono particolarmente rilevanti, perché il rischio di infezione è molto eterogeneo nella popolazione. In più, il vaccino, oltre a immunizzare un individuo, riduce anche la diffusione della malattia, e quindi deprime la domanda di cure, diminuendo ulteriormente gli incentivi di imprese private a produrre vaccini.
Siamo dunque di fronte a un caso di fallimento del mercato a cui potrebbe rimediare l’operatore pubblico. A fronte dei costi della malattia, dei potenziali alti costi per la prevenzione e la cura, e degli effetti perversi dalla scarsa coordinazione fra interventi di prevenzione e di cura, specie nelle aree più povere e colpite dalla malattia, potrebbe risultare complessivamente efficiente un ingente impegno pubblico nel campo dei vaccini.

Per saperne di più

Kremer, M. e Snyder, C. “Why Is There No AIDS Vaccine?” BREAD Working Paper No. 088, October 2004. http://www.nber.org/~confer/2005/si2005/pripe/snyder.pdf

Leggi anche:  Tutti i rischi della cittadinanza a punti

Morris, M.: “Indian Women face Peril of HIV”, BBC News http://news.bbc.co.uk/1/hi/world/south_asia/4260314.stm

Specter, M. – Higher Risk: “Crystal meth, the Internet, and dangerous choices about AIDS”, The New Yorker, 23 maggio 2005. http://www.newyorker.com/fact/content/articles/050523fa_fact

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Sommario 13 ottobre 2005

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Una poltrona per due

  1. Andrea Zorzi

    Forse varrebbe la pena di prendere in considerazione l’ipotesi che il vaccino non sia ancora stato trovato perché – come si sostiene da parte di autorevoli ricercatori – l’AIDS non è di origine virale (v. http://www.duesberg.com/papers/chemical-bases.html).
    Cordiali saluti e complimenti, oltre che agli Autori, a lavoce.info
    Andrea Zorzi

  2. vincenzo denicolò

    L’articolo di Kremer e Snyder è certamente interessante, ma la sua rilevanza per il caso dei vaccini per l’AIDS è limitata. Infatti Kremer e Snyder assumono che vi sia monopolio nella ricerca e che il monopolista possa decidere se produrre il vaccino o in alternativa un farmaco antiretrovirale. Ma nella realtà l’industria farmaceutica non è un monopolio e un’impresa che realizzasse un vaccino “cannibalizzerebbe” il proprio mercato solo in misura molto limitata (cioè proporzionalmente alla propria quota del mercato dei farmaci antiretrovirali): le rendite che verrebbero distrutte sono quelle di altre imprese, con un effetto di business stealing che non riduce l’incentivo privato ad innovare, ma anzi tende a renderlo superiore all’incentivo sociale. Il ritardo nella produzione di un vaccino per l’AIDS deve quindi avere altre spiegazioni, per esempio semplicemente che è difficile trovarlo.

    • La redazione

      Se esiste una massa di persone gia’ affette da HIV/AIDS, queste non beneficeranno dalla produzione del vaccino, e continueranno ad essere disposte a pagare una prezzo elevato per il farmaco, il quale gode di un “monopolio temporaneo” ache rispetto ad altri farmaci. Al contrario, la
      prospettiva della presenza di competitori (che producano vaccini o farmaci) riduce il prezzo che i non affetti sarebbero disposti a pagare per un vaccino. Quindi, la presenza di competizione potrebbe amplificare la riluttanza a investire in vaccini. La presenza di uno stock iniziale di persone gia’ malate (quanto mai realistica nel caso in questione) e’
      importante per spiegare il risultato. Tale intuizione e’ ribadita e formalizzata nel lavoro di Kremer e Snyder sopra citato (Sezione 9). Sicuramente la questione degli alti costi e’ importante, come peraltro da noi sottolineato. D’altra parte, e’ importante considerare anche meccanismi che rimarrebbero all’opera anche qualora i costi si
      abbassassero, al fine di non affidarsi unicamente ad un progresso scientifico e tecnico esogeno.
      Grazie mille del commento.

  3. Lorenzo Carbonari

    L’intervento di L. e M. pone una lucida enfasi sul problema cruciale degli incentivi alla ricerca per lo sviluppo del vaccino contro l’HIV. Pur condividendone la maggior parte dei contenuti mi permetto di muovere alcune osservazioni che spero possano risultare utili ai fini del dibattito attorno all’aids.Gli autori sostengono che «quando esiste una cura contrarre una malattia diventa meno costoso, cosicché diventano più frequenti comportamenti individuali che aumentano la probabilità di ammalarsi».Questa proposizione certamente impeccabile da un punto di vista teorico trova però a mio avviso un debole riscontro empirico nella realtà dei reparti di malattie infettive.La spiazzante eterogeneità della popolazione affetta da HIV e la straordinaria “ignoranza reale” che i pazienti dimostrano di avere dell’aids e delle sue modalità di contagio non consente infatti, a mio modo di vedere, di accettare un tale assioma di iper-razionalità.Il fatto incontestabile che nelle economie occidentali l’aids sia divenuta una malattia cronica temo abbia sfortunatamente poco a che vedere con la reale percezione che si ha di questa malattia.Nonostante le numerose campagne informative infatti, credo che l’idea di quanti non facciano uso di siringhe per il consumo di droga né pratichino sesso mercenario è che questa malattia sia molto semplicemente “un affare che non li riguarda”.Ecco perché si fatica a trovare correlazioni chiare tra la sieropositività e variabili come il reddito e/o l’istruzione ed ecco perché mi sento di dissentire con gli autori quando sostengono che il fenomeno in Italia o negli Stati Uniti riguarda «solo piccole minoranze».È infatti documentato (UNAIDS, 2004) come in 12 paesi dell’Europa Occidentale le diagnosi di infezione da HIV derivanti da rapporti eterosessuali siano cresciute tra il 1997 ed il 2002 del 122% e come questa tipologia di trasmissione del virus sia divenuta probabilmente la più frequente su scala mondiale.In un era in cui l’accettazione sociale passa anche se non soprattutto attraverso il codice della sessualità mi sembra francamente poco plausibile pensare che una malattia, che appunto attraverso il sesso si trasmette, sia un fenomeno riguardante solo pochi e che il binomio “aids-comportamento deviante” possa ancora avere un fondamento razionale.

    • La redazione

      Piu’ che di comportamenti “devianti”, riteniamo piu’ appropriato parlare di comportamenti “a rischio”, che riguardano tanto gli omosessuali quanto gli eterosessuali. Il fatto che le infezione da HIV derivanti da rapporti
      eterosessuali siano cresciute nell’ultimo decennio conferma l’argomento per cui gli individui hanno abbassato la guardia, esponendosi a rischi piu’ elevati che si traducono in maggiori infezioni. Il perche’ cio’ stia avvenendo, e’ oggetto di dibattito. Lei sottolinea la scarsa informazione sui meccanismi di trasmissione del virus e su cosa costituisca un comportamento a rischio. Tuttavia, per spiegare l’incremento delle infezioni occorre che questa ignoranza sia cresciuta nell’ultimo decennio rispetto al passato, il che non ci sembra plausibile viste le risorse spese in Italia e negli altri paesi avanzati in prevenzione e informazione, certo non inferiori oggi rispetto agli anni ottanta. Per quanto riguarda le
      “piccole minoranze” di individui a rischio nei paesi avanzati, intendevamo dire che si tratta di piccole minoranze rispetto alle ben piu’ consistenti frazioni a rischio nei paesi in via di sviluppo, non certo che si tratti di minoranze insignificanti. Grazie per il suo commento.

  4. marco santini

    Penso che in generale il servizio sanitario nazionale dovrebbe disporre di una propria struttura per la ricerca di vaccini. Se la malattia è rara e un investimento dei privati non è conveniente oppure si prevede un prezzo finale del farmaco brevettato troppo elevato(che il SS dovrà rimborsare trattandosi di un salvavita)può essere conveniente produrlo in house.
    Anche per la ssanità vale una forte tendenza all’outsourcing di processi e servizi.Anche per le aziende sanitarie dovrebbe valere il principio di non dismetere attività core come è appunto la ricerca.
    le imprese solitamente tengono dei macchinari per produrre da sè alcuni semilavorati nel caso in cui i fornitori pratichino un prezzo elevato.
    Avere una struttura che rende relativamente autonomi, qanche se non utilizzata pienamente, garantisce al servizio sanitario un maggior potere contrattule nei confronti delle case farmaceutiche.
    A parte questo discorso, vorrei fare anche un appunto sullo scetticismo nei confronti dell’AIDS.Fra i principali dubbi, ho colto che stranamente non si riesce a trovare in letteratura una foto al microscopio del virus.

  5. Tizio Tizi

    è dovuta al fatto che il virus HIV muta in continuazione il proprio involucro (il cosiddetto capside), quindi è difficile sviluppare un vaccino contro questo tipo di virus.

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