Oggi alla Camera si vota per la riforma costituzionale del Polo. E’ il secondo passaggio. Dopo resta solo l’approvazione definitiva da parte del Senato. Ma non è chiaro se la riforma sarà mai applicata.

Sommario a cura di Massimo Bordignon

Oggi alla Camera si vota per la riforma costituzionale del Polo. E’ il secondo passaggio. Dopo resta solo l’approvazione definitiva da parte del Senato. Ma non è chiaro se la riforma sarà mai applicata. Pende il referendum, e i sondaggi non sono favorevoli al Polo. Per l’avversione dei cittadini alla devolution, principalmente. Ma la devolution è solo uno degli aspetti di novità, forse il minore, della riforma. Ci sono molti altri punti critici, dal complicato nuovo meccanismo di formazione delle leggi, all’improprio Senato Federale, al rafforzamento del ruolo del Primo ministro, alle nuove norme anti-ribaltone. Non è poi chiaro come il nuovo disegno costituzionale si concili con la nuova legge elettorale, dato che la reintroduzione del proporzionale prefigura un meccanismo di organizzazione dei partiti opposto a quello sottostante alla riforma. Ma di queste cose non si parlerà oggi alla Camera; alla maggioranza la riforma serve essenzialmente per compattarsi in vista delle elezioni. E se ne parlerà poco anche sulla stampa, per l’oggettiva complessità della materia. Ne parliamo dunque noi, ripubblicando alcuni degli interventi che nel corso del tempo lavoce.info ha dedicato al tema.

Il costo della devolution, di Massimo Bordignon

Il tema dei “costi del federalismo” è stato il tormentone giornalistico dell’estate italiana e rischia di diventare anche quello dell’autunno, con la ripresa del dibattito sulla riforma costituzionale alla Camera e il contemporaneo varo della legge Finanziaria per il 2005, che si preannuncia tutt’altro che tenera con Regioni e altri enti locali. Un problema generalmente relegato all’attenzione di pochi specialisti ha così improvvisamente guadagnato le prime pagine dei maggiori quotidiani, generando una feroce polemica, alimentata a colpi di statistiche e citazioni di studiosi.

I numeri del decentramento

Di per sé, questo fatto è solo positivo. Era ora che il dibattito sul federalismo fiscale italiano uscisse dall’ambito puramente ideologico degli scontri tra partiti per scendere sul terreno concreto dei numeri. Solo che il dibattito si è concentrato su aspetti tutto sommato secondari del problema, tralasciando quelli veramente importanti. Inoltre, gli stessi numeri sono stati usati un po’ a vanvera nei giornali. Vediamo perché. Cominciamo dal secondo punto. Di stime sulle risorse da decentrare agli enti locali a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione prima, e della devolution bossiana poi, ne sono state fatte tante nella letteratura. Io stesso, assieme a Floriana Cerniglia, sono responsabile di alcune, oltre che di una metodologia di calcolo che ha riscosso qualche successo nella letteratura. Ma tre cose devono essere chiare rispetto a questi numeri. Primo, si tratta di stime di larga massima. In termini di attribuzione di risorse tra diversi livelli di governo, nessuno sa veramente cosa significa il fatto che una funzione è a legislazione concorrente tra Stato e Regioni, oppure che è una funzione esclusiva delle Regioni. Funzioni di monitoraggio e controllo rimarrebbero comunque in mano allo Stato centrale, a cui resta la responsabilità esclusiva della determinazione degli standard per i servizi essenziali e delle norme generali, e non è dunque a priori ovvio come un certo capitolo di spesa debba essere ripartito tra i due livelli di governo. Si può fare qualche ipotesi ragionevole, ma si tratta appunto di questo: ipotesi. Secondo, la nuova Costituzione è complicata e si presta a più interpretazioni, non solo per quello che riguarda l’attribuzione di funzioni, ma ancora di più per quello che riguarda i nuovi sistemi di finanziamento, previsti dall’articolo 119. Tener conto anche di questi aspetti produce numeri ovviamente diversi, e nel confrontarli è importante considerare le diverse ipotesi che stanno dietro di essi, una cautela che è spesso mancata nel dibattito. Terzo, affermare che la spesa da delegare alle Regioni a seguito del decentramento costituzionale è di X milioni di euro, non significa affatto dire che la spesa delle amministrazioni pubbliche complessive aumenterebbe di X milioni di euro a seguito del decentramento.

I costi della transizione

Questo è il punto che più è stato frainteso sui giornali, ed è quindi opportuno cercare di spiegarlo nel modo più chiaro possibile. In linea di principio, i costi del decentramento costituzionale sono sempre identici a zero. A fronte dei nuovi tributi o dei nuovi trasferimenti che lo Stato dovrebbe attribuire alle Regioni e alle altre autonomie per far fronte alle nuove funzioni devolute, scomparirebbero dal bilancio dello Stato spese per un ammontare esattamente uguale. Per esempio, se l’istruzione passa alle Regioni, gli stipendi dei professori vengono pagati dalle Regioni e non più dallo Stato; dunque, l’effetto contabile per il complesso delle amministrazioni pubbliche è zero. Nei fatti, le cose non sono così semplici. Delegare funzioni significa in pratica spostare personale e uffici dal centro alla periferia. Ma mentre un edificio può essere “devoluto” a piacimento, le persone non possono essere spostate contro la propria volontà. C’è dunque il rischio di una moltiplicazione della burocrazie: un ufficio si apre a livello regionale, ma il corrispondente ufficio statale non chiude, almeno non nell’immediato. Inoltre, il regime contrattuale dei dipendenti regionali è spesso più generoso di quello statale: spostare un funzionario dallo Stato alle Regioni può comportare un aggravio di costi per la finanza pubblica. Le esperienze di decentramento del passato suggeriscono che questi “costi della transizione” possono essere assai sostanziosi (vedi per esempio, il Rapporto Isae del 2004 sulle Leggi Bassanini). Ma assumere che tutta la spesa decentrata rappresenterebbe un aggravio di pari ammontare sulla finanza pubblica, come spesso si è sbrigativamente fatto sulla stampa, è una chiara assurdità. Sarebbe come dire che delegando l’istruzione alle Regioni gli stipendi dei professori verrebbero pagati due volte, una volta dallo Stato e un’altra volta dalle Regioni. Questo, chiaramente, non avverrebbe.

I costi economici del decentramento

Ma forse il problema più serio del dibattito estivo è che si è concentrato sul tema del costo immediato del trasferimento delle funzioni, che per quanto rilevante, è sostanzialmente marginale rispetto all’enormità del processo di decentramento in corso. I costi (come pure i benefici) derivanti dal decentramento costituzionale sono essenzialmente costi e benefici economici; i costi e i benefici derivanti dal fatto che decisioni una volta statali vengono ora prese a livello locale; il fatto che il dualismo economico del paese rende difficile costruire un sistema fiscale che consenta a tutti gli enti locali di sostenere la nuova spesa, ed è dunque necessario ipotizzare un sistema perequativo efficiente; i rischi, che in assenza di un quadro di responsabilità condivise tra centro e periferia, si possano generare fenomeni di irresponsabilità finanziaria. Converrà che su questi temi si concentri d’ora in avanti l’attenzione.

Il paradosso della legge elettorale, di Guido Tabellini

Passato lo scoglio delle elezioni europee e il voto per le amministrative, forse l’orizzonte politico tornerà ad allungarsi e a concentrarsi sulle questioni più importanti da affrontare nella seconda parte della legislatura. Tra queste, la più importante di tutte è la riforma della Costituzione.

Una doppia competizione

L’opinione prevalente, sia nella maggioranza che nell’opposizione, è che oggi in Italia la questione istituzionale riguardi soprattutto due aspetti: la forma dello Stato (unitario o federale) e le regole di governo (poteri del primo ministro, sfiducia costruttiva, scioglimento anticipato delle camere). Pochi accenni, invece, alla riformare della legge elettorale. Eppure, il risultato delle elezioni europee ha mostrato ancora una volta quanto sia importante questa riforma.
In una democrazia che funziona bene, le elezioni sono il momento in cui gli elettori giudicano l’operato del governo in carica. Se contenti, lo votano di nuovo. Altrimenti, votano per l’opposizione. La competizione tra governo e opposizione stimola entrambi a perseguire gli interessi della maggioranza dei cittadini.

Ma nel nostro sistema politico, le elezioni non decidono solo chi vince tra maggioranza e opposizione. Stabiliscono anche chi vince e chi perde all’interno dei due schieramenti.
Questa seconda forma di competizione elettorale, tutta interna ai due schieramenti, ha solo effetti deleteri: aumenta la paralisi decisionale del governo, accorcia l’orizzonte politico, rende più difficile valutare l’operato di governo e opposizione.
Cosa cambierà ora in seguito alla sconfitta elettorale alle europee di Forza Italia e alla vittoria dell’Udc o di altri partiti della coalizione? Qualche scambio di poltrone, ma nessuna svolta nelle politiche del governo. E tutti i partiti della coalizione governativa affileranno ancora di più le armi in vista delle prossime elezioni, non per contrastare l’opposizione, ma per superare i loro concorrenti più temibili, gli alleati.
Il permanere di una quota di seggi assegnati con il metodo proporzionale è la causa principale di questa distorsione atavica del nostro sistema politico, per due ragioni. Primo, la quota proporzionale favorisce la frammentazione dei partiti politici. Secondo, acuisce il conflitto all’interno della coalizione di governo, perché tutti i partiti che la compongono competono tra loro per la quota proporzionale.
Chi difende la legge elettorale proporzionale spesso lo fa anche in base all’argomento che comunque l’Italia non arriverebbe al bi-partitismo, neanche con un sistema interamente maggioritario. Questo è probabilmente vero, ma non coglie il punto.

Con una legge elettorale maggioritaria, i partiti di governo sarebbero costretti a spartirsi i seggi in cui presentare i loro candidati (e altrettanto farebbe l’opposizione). In ogni seggio sarebbe presente un solo candidato della coalizione di governo (e un solo candidato “serio” dell’opposizione).
Ciò renderebbe i partiti di governo alleati e non più concorrenti; il nemico comune sarebbe il candidato dello schieramento opposto. Un minor conflitto elettorale tra i partiti di governo aumenterebbe la capacità di decidere, rinforzerebbe comunque la tendenza verso il bipolarismo, e faciliterebbe il compito degli elettori nella scelta tra maggioranza e opposizione.

Un “comma 22” per la legge elettorale

Naturalmente tutto questo non basta. Anche se auspicabile , la riforma della legge elettorale resta quanto mai improbabile. La ragione è che qualunque ipotesi di riforma aprirebbe conflitti laceranti all’interno sia della coalizione di governo che dell’opposizione.
È quasi un paradosso. Bisognerebbe cambiare la legge elettorale per rendere i due schieramenti più compatti e capaci di governare. Ma poiché una nuova legge elettorale cambierebbe i rapporti di forza soprattutto all’interno dei due schieramenti, non si trova una maggioranza disposta a cambiarla.
Pertanto, se questa legislatura approverà una riforma della Costituzione, essa riguarderà aspetti più “neutri” e meno trasversali ai due schieramenti, come appunto le regole di governo. Ma non facciamoci illusioni che ciò serva davvero. Rafforzare i poteri del primo ministro o imporre la sfiducia costruttiva può aiutare ad alleviare i sintomi, ma non cura il male. Per curare davvero il male che blocca il nostro sistema politico, bisognerebbe intervenire sulla legge elettorale.

Compiti per un nuovo Senato, di Salvatore Vassallo

Se visti nell’ottica della analisi comparata delle istituzioni politiche, gli obiettivi di una revisione del “bicameralismo perfetto” emergono nitidamente: a) rendere più lineare il continuum governo-Parlamento, attribuendo alla sola Camera dei deputati il potere di conferire e ritirare la fiducia, e meno farraginoso il processo legislativo, per adeguarsi al modello maggioritario sul versante delle relazioni governo-partiti; b) costituire una sede di rappresentanza delle autonomie territoriali che possa fungere da elemento di garanzia ed equilibrio nelle relazioni tra governo centrale e istituzioni sub-statali di governo, per adeguarsi al modello federale sul versante delle relazioni centro-periferia.

Perché abbandonare il bicameralismo perfetto

L’esigenza di un Senato capace di svolgere la seconda funzione assicurando al contempo la prima, è già stata ripetutamente sottolineata evocata in passato, ma è divenuta ancora più urgente con la dalla riforma del Titolo V approvata dal centro-sinistra.
Quella riforma muoveva dall’intenzione generalmente condivisa di rafforzare le Regioni, restringendo l’area di competenza esclusiva dello Stato.

Preso atto dell’impossibilità di trasformare, a fine legislatura, composizione e funzioni del Senato, ha preteso però di risolvere tutto con la ripartizione ex ante, per materie, delle competenze legislative del Parlamento nazionale e delle Regioni. Ma le dighe erette per prestabilire le rispettive prerogative, fanno inevitabilmente acqua da tutte le parti. Né si possono eliminare le competenze concorrenti, che sono il cuore degli Stati federali contemporanei, per rendere la divisione del lavoro più nitida.
Naturalmente, l’alternativa consiste nel creare un Senato rappresentativo degli interessi regionali, che possa intervenire nella puntuale disciplina dei confini, inevitabilmente mobili, tra governo centrale e sistemi regionali.

Dopo aver rimodulato la composizione del Senato, potrebbero essere affrontati alcuni dei principali problemi posti dalle inevitabili ambiguità del nuovo Titolo V.
A un “Senato delle Regioni” potrebbe essere innanzitutto attribuito il potere di eleggere una quota dei componenti della Corte costituzionale, a garanzia della equidistanza della Consulta tra il legislatore nazionale e quelli regionali. Esso potrebbe vagliare gli interventi legislativi che dovessero limitare le prerogative delle Regioni in nome dell’interesse nazionale e stabilire i “principi fondamentali” nelle materie a competenza legislativa concorrente.

Leggi anche:  Appalti ben gestiti dalle unioni di comuni

Il Senato sarebbe anche la sede naturalmente votata a disciplinare le modalità per l’attivazione delle competenze legislative esclusive in materia di sanità, scuola e polizia locale: qualsiasi cosa effettivamente implichino, difficilmente il governo potrà ormai rinunciarvi.

Come raggiungere gli obiettivi

Per ottenere questi obiettivi, deve però essere chiaro ciò che si chiede specificamente ai componenti della seconda Camera: non tanto di difendere gli interessi dei territori (e certamente non di intromettersi nei rapporti tra maggioranza e opposizione), quanto di tutelare l’autonomia delle unità politiche territoriali e delle istituzioni che la rendono possibile. E l’intensità con la quale i senatori faranno proprio questo punto di vista, dipende in larga misura dal modo in cui saranno eletti, dai “principali” di cui saranno “agenti” e a cui dovranno dar conto, oltre che dai poteri che potranno esercitare mentre sono in carica.

Se continueranno a essere eletti lungo linee di partito e se le loro competenze non saranno chiaramente focalizzate sulle relazioni centro-periferia, non si vede perché i loro comportamenti (e quindi una funzione rappresentativa) dovrebbero essere dissimili da quelli che caratterizzano i senatori oggi.
L’analisi comparata mostra che se si vuole una Camera di raccordo tra centro e periferia, il modello più efficace è il Bundesrat tedesco.

Nel caso della transizione italiana questa strada è tuttavia impraticabile per tre ragioni: il prestigio degli amministratori locali e la capacità di pressione delle loro associazioni; le preoccupazioni del ceto politico nazionale e locale, oltre che dei consiglieri regionali, per i crescenti poteri che si vanno concentrando nelle mani dei presidenti di Regione; l’aperta resistenza dei senatori in carica verso qualsiasi progetto che azzeri le loro possibilità di rielezione.

Anomalie possibili

La proposta della maggioranza aggira questi vincoli politici, collegando l’elezione diretta dei senatori a quella degli organi regionali. Può essere un buon compromesso, ma ad alcune condizioni.
Innanzitutto, non deve essere approvata la cosiddetta contestualità “affievolita”, prevista dal testo licenziato dal Senato, che snaturerebbe in radice la ratio della proposta.
L’unico obiettivo che si intravede dietro questa ipotesi è quello di non ridurre il mandato dei senatori, al prezzo di piegare a tale scopo il funzionamento delle istituzioni regionali.

La contestualità va semmai rafforzata con un qualche meccanismo che renda effettivo il collegamento tra l’elezione delle maggioranze di governo al livello regionale e la scelta dei senatori.
La seconda condizione è che l’attività dei senatori sia effettivamente focalizzata sulle sole materie attinenti all’equilibrio centro-periferia, sia per incentivare la loro specializzazione sia per evitare interferenze con il legame fiduciario tra la Camera dei deputati e il governo. (1)

Una trasformazione incisiva del bicameralismo, coerente con l’impianto del Titolo V, è necessaria, altrimenti il processo legislativo italiano è destinato ad andare dritto verso una nuova, eccentrica e disfunzionale anomalia.
Se il Senato non diverrà un luogo effettivo di raccordo e concertazione tra governo centrale e Regioni, questa funzione sarà svolta in altre sedi: le Conferenze Stato-Regioni e Unificata, in primo luogo, di cui non a caso gli amministratori regionali e locali chiedono la costituzionalizzazione.
Pur di garantire una occupazione ai senatori, saremo così passati dall’anomalia del bicameralismo perfetto a un sistema tricamerale.

(1) I componenti della seconda Camera dovrebbero essere dunque chiamati a esprimersi esclusivamente su a) definizione dei “principi fondamentali” negli ambiti a legislazione concorrente (attualmente enumerati al terzo comma dell’articolo 117 della Costituzione); b) autonomia finanziaria degli enti territoriali e meccanismi di perequazione; c) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni da garantire su tutto il territorio nazionale; d) ordinamento e funzioni fondamentali degli enti locali; e) eventuali limitazioni alla autonomia legislativa regionale in nome dell’interesse nazionale; f) revisione costituzionale.

Sbadigli pericolosi, di Massimo Bordignon

Nel sostanziale disinteresse dei media e dell’intera opinione pubblica nazionale, venerdì 26 marzo il Senato ha approvato, in prima lettura, e dopo due mesi di serrati dibattiti in commissione e in aula, una proposta di legge di revisione della nostra carta costituzionale di dimensioni ciclopiche.
Se fosse attuata, la riforma avrebbe enormi effetti sul funzionamento delle nostre istituzioni. Verrebbe modificata la forma dello Stato e quella di Governo, mutati i rapporti di forza tra le diverse istituzioni e i diversi poteri dello Stato, radicalmente cambiato il rapporto tra la maggioranza politica e il suo leader: più che di una riforma, si tratterebbe della proposizione di un modello politico del tutto diverso da quello finora conosciuto.

Una sfiducia diffusa

Il gigantesco sbadiglio collettivo che ha accompagnato la notizia — che in altri tempi avrebbe suscitato discussioni accese e forse moti di piazza– non è privo di giustificazioni.

Intanto, si tratta solo della prima delle quattro votazioni necessarie (due alla Camera e due al Senato) per la approvazione definitiva, e ci sarà comunque senz’altro un referendum confermativo. Inutile dunque preoccuparsi adesso, oltretutto i numerosi e dichiarati mal di pancia nella stessa maggioranza fanno presagire modifiche importanti nei successivi lavori parlamentari. E non è neppure chiaro se si tratti davvero di una proposta seria o non piuttosto di un gigantesco cartellone pubblicitario, da ripiegare una volta finita la febbre elettorale. In effetti, la riforma è una sorta di patchwork di bandierine elettorali, una per ciascuna componente politica della maggioranza (il premieriato per Forza Italia, la devolution per la Lega, “Roma capitale” e l’interesse nazionale per An).
Ma al di là di queste considerazioni contingenti, la noia nasconde probabilmente anche una sfiducia ormai diffusa nell’opinione pubblica e nei commentatori sulla capacità delle riforme istituzionali di cambiare effettivamente il nostro sistema politico e istituzionale.
Si tratta di una sfiducia nutrita di fatti concreti.

Nel 1993, gli italiani votarono in massa per una modifica del sistema elettorale, da proporzionale a maggioritario, nella convinzione che questa riforma avrebbe aumentato la capacità decisionale degli esecutivi, prima bloccati dalle estenuanti contrattazioni tra i partiti nei governi di coalizione generati dal proporzionale. Nei fatti, abbiamo avuto sì una maggiore stabilità delle legislature, ma non dei Governi (tre solo nella legislatura precedente). Il maggioritario non ha eliminato né i piccoli partiti né la loro capacità di veto. Al contrario, in questa come nella passata legislatura, partiti con una forza elettorale dell’ordine di poche centinaia di migliaia di voti hanno finito con il determinare l’evoluzione dell’intera politica nazionale.
Nel 2001, lo scenario si è ripetuto. Un po’ meno in massa, ma pur sempre volenterosamente, gli italiani sono andati a votare a favore di una riforma costituzionale che avrebbe dovuto accrescere i poteri degli enti locali e rendere la politica più vicina agli interessi dei cittadini.
Dopo un triennio, di questo famoso federalismo non si è però visto traccia. A parte un po’ di lavoro in più per i giudici costituzionali, chiamati a mediare i conflitti tra Regioni e Stato determinati da diverse interpretazioni della nuova carta costituzionale, le cose vanno avanti esattamente come prima. O addirittura peggio di prima, perché la politica nazionale, nei fatti, ha ridotto lo spazio di autonomia degli enti locali.

Per garantire coerenza al sistema

Dunque, a che pro nuove riforme? Non conviene lasciar perdere e occuparsi di cose più serie?
La risposta è negativa, per una ragione molto semplice.
Il sistema politico precedente, con tutti i suoi limiti, aveva una sua coerenza interna, costruita a tavolino dai padri costituenti del 1947. Il nuovo sistema, dopo queste riforme, non ce l’ha più.
La modifica del sistema elettorale, da proporzionale a maggioritario, richiede di ripensare tutto il sistema dei checks and balances tra poteri e istituzioni dello Stato. Altrimenti, il rischio è che una minoranza nel paese, in grado però di esprimere grazie al maggioritario una maggioranza in Parlamento, si mangi tutto e controlli tutto, perfino le riforme della stessa Costituzione, come rischia di avvenire con questa proposta di legge e come è avvenuto per la riforma del Titolo V nella passata legislatura.
E naturalmente questo è tanto più necessario quanto più si immaginasse di intervenire ulteriormente sulla forma di Governo o sul sistema elettorale, come probabilmente auspicabile, per rafforzare i poteri dell’esecutivo e eliminare il potere di veto dei piccoli partiti.
Allo stesso modo, il nuovo Titolo V ha introdotto una modifica nei rapporti politici e finanziari tra livelli di governo che il nostro attuale sistema istituzionale non è in grado di gestire efficientemente. Per garantire la coerenza del sistema e anche la sua sostenibilità finanziaria, è necessario immaginare nuove istituzioni che rappresentino le esigenze degli enti territoriali direttamente in Parlamento e che svolgano una importante funzione di coordinamento delle politiche e di mediazione dei conflitti tra governi.
La legge di riforma costituzionale approvato dal Senato rappresenta a suo modo una risposta a queste esigenze. Una risposta per molti aspetti sbagliata e contraddittoria. Ma le esigenze sono reali. Ricominciamo a discuterne.

La devolution tra mito e realtà, di Enzo Balboni

Alla fine dello scorso anno il Senato ha approvato in prima lettura il disegno di legge costituzionale sottoscritto dal Presidente del Consiglio su proposta dei ministri Bossi e La Loggia, più noto al pubblico come riforma Bossi sulla devolution.

Alla base di tutto sta il fatto che l’attuale Governo non solo considera inadeguata e incompleta la riforma regionalista approvata dall’Ulivo con la legge costituzionale n. 3/2001, ma anzi la avversa accusandola di essere una riforma fittizia e una indebita invasione di un campo, quello del cosiddetto federalismo, che è sempre stato rivendicato come proprio dal centro-destra, sin dal riavvicinamento della Lega Nord alla coalizione.

La riforma del 2001 già prevede forme di regionalismo differenziato. L articolo 116, III comma Costituzione, infatti, prevede che in tutte le materie di competenza concorrente e addirittura in alcune di quelle di competenza esclusiva statale, possano essere attribuite a talune Regioni ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia , previa intesa con lo Stato. Da un punto di vista puramente giuridico, il contenuto materiale del Ddlc Bossi avrebbe anche potuto transitare attraverso queste intese.

L’esigenza della Lega Nord
Ma rispetto a questi dati ha avuto peso preponderante l’esigenza politica della Lega Nord di dimostrarsi capace di ottenere dai propri alleati il pagamento della cambiale ricevuta in pegno del patto elettorale, con la conseguenza che nell’iniziativa di devolution gli effetti di annuncio prevalgono in modo sproporzionato rispetto all’effettivo e concreto contenuto giuridico.

Il testo del Ddlc Bossi è assai scarno (1) e si riferisce a porzioni tutto sommato modeste di competenza: l’organizzazione sanitaria, già quasi per intero regionalizzata; l’organizzazione delle scuole, con limitati poteri di determinazione dei programmi di istruzione; la polizia locale, che – per ragioni sistematiche – si dovrebbe identificare nella polizia amministrativa locale di cui all’articolo 117, II comma, lett. h, anch’essa da sempre di competenza regionale. Se però si scorrono le pagine della relazione di accompagnamento del Ddlc, si vede come le intenzioni politiche del Governo si riferiscono a temi ben più corposi e di maggior presa sull’opinione pubblica, alludendo a una competenza della polizia locale nella lotta alla microcriminalità.

Ambiguità interpretative
L’equivoco di fondo si gioca tutto sull’ambiguità delle laconiche formule testuali. E in effetti, già oggi si possono scorgere due interpretazioni opposte del Ddlc Bossi. Da un lato stanno i continuisti , secondo i quali la devoluzione ben poco aggiunge al quadro attuale. Questo schieramento comprende sia alcuni sostenitori della riforma, come Francesco D’Onofrio, sia alcuni critici come Francesco Cossiga, che ha definito il Ddlc Bossi una truffa (sic). Sul fronte opposto si trovano invece coloro che ritengono che la devoluzione comporterà radicali cambiamenti. Positivi per il ministro Bossi, deleteri e tali da mettere in pericolo i diritti costituzionali dei cittadini, per l’opposizione.

In effetti, individuare l’esatto contenuto normativo del Ddlc Bossi non è facile. A titolo di esempio, si consideri una questione già accennata: l’attuale articolo 117, II comma, lett. h riserva allo Stato la competenza legislativa in materia di ordine pubblico e sicurezza, a eccezione della polizia amministrativa locale . Il Ddlc Bossi assegna alle Regioni la polizia locale: ebbene, si tratta della funzione di tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza locale, o della vecchia polizia amministrativa locale, un tempo denominata urbana e rurale? Il problema non ha forse una soluzione giuridica univoca e lineare.


C è poi un altro profilo metodologico da considerare. L’attuale articolo 116, III comma Costituzione prevede, come si è detto, che le Regioni possano acquisire maggiori spazi di autonomia previa intesa con lo Stato: il Ddlc Bossi consente invece alle Regioni di annettersi nuove competenze mediante un atto esclusivamente regionale. Questo carattere è del tutto anomalo e costituisce un punto di tensione forte con il principio di unità nazionale.


(1) Lo scarno testo del Ddlc Bossi (art. 1) merita di essere integralmente trascritto, prima del commento: Dopo il quarto comma dell’articolo 117 della Costituzione è inserito il seguente “Le Regioni attivano la competenza legislativa esclusiva per le seguenti materie: a) assistenza e organizzazione sanitaria; b) organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche; c) definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione; d) polizia locale” . Si tenga presente che il riferimento all autonomia scolastica è frutto di un emendamento proposto dal senatore Bassanini, estraneo al testo originario: questa è stata l’unica apertura verso l’opposizione.

Leggi anche:  Un quorum grande così

Competenze esclusive: non vi sono buone ragioni a favore, di Giuseppe Pisauro

La riforma costituzionale sulla devolution ha certamente un merito: quello di aver suscitato per la prima volta una riflessione approfondita e un contrasto di opinioni sui temi del decentramento e del federalismo. A ben vedere, il progetto di Bossi, che attribuisce alle Regioni la competenza legislativa esclusiva in tre materie non è un’assoluta novità. Con la riforma approvata nella precedente legislatura, infatti, è possibile (art. 116 della Costituzione) che singole Regioni ottengano (previa ratifica, a maggioranza assoluta, del Parlamento nazionale) “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” nelle materie a legislazione concorrente, tra le quali sono comprese l’istruzione e la sanità (non la polizia locale). In pratica, già oggi è previsto che una Regione possa esercitare una potestà legislativa esclusiva, che le consentirebbe cioè di legiferare in materia di sanità o di istruzione senza doversi conformare ai principi fondamentali fissati nella legislazione dello Stato. Sorprende quindi che l’acceso dibattito di questi giorni non sia stato avviato già in occasione della precedente riforma costituzionale.

Gli argomenti a favore

Quali sono gli argomenti a favore dell’attribuzione di competenze e responsabilità per determinati programmi di spesa pubblica ai governi decentrati? Gli economisti di solito propongono ragioni di efficienza: la soluzione decentrata consente un miglior adattamento alle preferenze dei cittadini rispetto a quella centralizzata che per sua natura tenderà verso l’uniformità. Nel nostro caso non è chiaro cosa ciò significhi. Consideriamo, ad esempio, la sanità (per l’istruzione valgono considerazioni analoghe). L’unica differenziazione plausibile delle esigenze locali può riguardare aspetti – come la composizione per età della popolazione – perfettamente osservabili da chiunque, anche dal governo centrale, che può, quindi, corrispondentemente differenziare l’offerta (ad esempio, più pediatri o più case di riposo). Si tratta, comunque, di questioni organizzative e amministrative che possono trovare soluzioni diverse: venire attribuite ai governi locali o a un’articolazione territoriale del governo centrale (come avviene, rispettivamente, nei sistemi sanitari italiano e inglese, VEDI PETRETTO). La scelta a favore dei governi locali dipende soprattutto dalla capacità di far corrispondere responsabilità di spesa e di finanziamento, cosa non sempre facile come dimostra l’esperienza della sanità italiana.

L’argomento dell’adattamento a preferenze (o esigenze) locali diversificate non sembra, comunque, utilizzabile per sostenere l’opportunità di differenziare l’insieme di prestazioni finanziate (ricoveri, farmaci, ecc.) o le caratteristiche di fondo del sistema sanitario (privato o pubblico? mutue o servizio nazionale?); può giustificare una competenza amministrativa o, al massimo, una competenza legislativa concorrente delle Regioni, non certo una competenza esclusiva.

Un secondo argomento è la maggiore vicinanza ai cittadini e, quindi, il maggiore controllo democratico che si eserciterebbe sulle scelte dei governi locali. Anche qui bisogna distinguere. La partecipazione e il controllo dei cittadini sono maggiori se decisioni come la localizzazione dei presidi sanitari nel territorio o la nomina dell’amministratore di un grande ospedale sono attribuite alle scelte locali (in alcuni casi meglio se dei Comuni piuttosto che delle Regioni). Non è affatto detto che ciò valga per le questioni di fondo che verrebbero toccate dalla competenza legislativa esclusiva delle Regioni, anzi è probabile che sia vero il contrario. Nelle società moderne l’opinione pubblica si forma soprattutto attraverso mezzi di comunicazione nazionali. Sulle grandi questioni il governo centrale è più vicino ai cittadini e più “controllabile” di quelli regionali. Basta provare a chiederci se siamo più informati sull’attività legislativa del nostro Consiglio regionale o del Parlamento nazionale.

Le vere motivazioni della devolution

C’è soltanto un argomento di natura economica che può giustificare differenze di fondo nell’intervento pubblico nella sanità o nell’istruzione: il desiderio che questi programmi di spesa riflettano le differenze di reddito e, quindi, di capacità fiscale tra le varie Regioni. È probabile che questa – insieme con gli interessi del ceto politico locale, naturalmente favorevole a un’espansione del proprio business – sia la vera motivazione dell’irrompere nell’ultimo decennio del tema del federalismo nella scena politica italiana. È un obiettivo che potrebbe anche essere giustificato sulla base di considerazioni di efficienza: standard dei servizi uniformi su tutto il territorio nazionale comportano un sacrificio per le Regioni più ricche: in termini di una maggiore pressione tributaria per finanziare la spesa delle Regioni più povere e/o di livelli dei servizi più bassi di quelli che il grado di sviluppo dell’economia locale renderebbe possibile. Ma nessuno dice di voler perseguire questo obiettivo. Sarebbe forse meglio discuterne apertamente, piuttosto che recitare la litania del principio di sussidiarietà e del modello statalistico, autoritario e centralistico.

L’attribuzione alle Regioni di competenze esclusive per sanità e istruzione (per effetto della riforma Bossi o dell’articolo 116 della Costituzione), insomma, non è giustificata. Le ragioni di efficienza comunemente avanzate appaiono particolarmente deboli. Vi sono, invece, molte buone ragioni contrarie. Quelle basate su considerazioni di equità e di interesse nazionale sono ampiamente note, ma vale la pena ricordarne un’altra. Il nostro sistema è ancora alla ricerca di un assetto consolidato delle relazioni finanziarie tra i vari livelli di governo, dopo l’ultima riforma costituzionale (che se ha un difetto è quello di essere troppo ampia e non il contrario). Ogni ulteriore accentuazione della divergenza tra responsabilità di spesa e di finanziamento avrebbe conseguenze drammatiche sugli equilibri di finanza pubblica, tanto più alla luce dell’eliminazione dei margini di autonomia tributaria delle Regioni e dei Comuni, decisa nella legge finanziaria in modo del tutto contraddittorio con il progetto di estendere le competenze dal lato della spesa.

I misteri della devolution, di Massimo Bordignon e Giuseppe Pisauro

Il progetto di riforma costituzionale presentato dal Ministro Bossi e la sua pretesa che venga votato prima della Finanziaria, hanno scatenato forti reazioni. L’opposizione è sulle barricate e paventa la frattura del paese, la maggioranza è profondamente divisa, e l’ipotesi del Presidente del Consiglio di porre la fiducia su un progetto di riforma costituzionale rappresenterebbe uno strappo inedito non solo per la pratica istituzionale ma anche per il semplice buon senso. Ma cos’è esattamente il progetto di devolution di Bossi? Quali le sue conseguenze sul nostro ordinamento costituzionale, già modificato dalla riforma del Titolo V?

Con il progetto Bossi, le Regioni acquisterebbero competenze esclusive su sanità, istruzione e polizia locale, laddove ora, dopo la riforma costituzionale del 2001, le Regioni hanno competenza concorrente su sanità e istruzione e nulla in termini di polizia locale.

Se anche la Riforma Bossi andasse avanti, non è chiaro come e quando le Regioni acquisterebbero queste competenze. Si tratta in ogni caso di una riforma Costituzionale e dunque, senza la maggioranza qualificata richiesta, la proposta di legge dovrebbe essere approvata senza modifiche per due volte a distanza di almeno due mesi da Camera e Senato. Anche se approvata, per diventare operativa, richiederebbe comunque di essere ratificata da un referendum successivo, se richiesto da un quinto dei membri di una Camera, cinque Consigli regionali o cinquecentomila elettori.

La norma (“Le Regioni attivano competenze esclusive…”) è sufficientemente vaga da non permettere di capire se queste competenze esclusive possono essere attivate soltanto a patto che tutte le Regioni siano d’accordo, oppure se una Regione può andare avanti da sola. Il compromesso politico che ha condotto alla presente formulazione del disegno di legge Bossi potrebbe anche suggerire la prima interpretazione. In questo caso, però, la Riforma Bossi, anche se approvata, non sarebbe probabilmente mai applicata (che è quello che verosimilmente sperano tutte le altre componenti della maggioranza diverse dalla Lega). Tuttavia, nessuno lo sa con certezza.

Avere competenze concorrenti significa che le Regioni possono legiferare, ma solo all’interno dei principi generali definiti con legge dello Stato, cioè all’interno dei confini definiti dalla legislazione statale. Avere competenze esclusive significa che soltanto le Regioni possono legiferare sulle materie indicate. Le leggi regionali, comunque, sono al pari di quelle statali soggette alla Costituzione.

Con il progetto Bossi gli spazi di autonomia consentiti alle Regioni sarebbero enormi. Per esempio, la sanità in Italia è organizzata dal 1978 sulla base di un sistema sanitario nazionale. Questa è tuttavia una scelta non necessaria alla luce della Costituzione, che si limita a stabilire (art 32) che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.” In altre parole, se volesse farlo, una Regione con competenze esclusive nel campo sanitario potrebbe decidere di abolire il sistema sanitario nel suo territorio, sostituendolo, per esempio, con un sistema di mutua o con una sanità interamente privata (integrata dal finanziamento pubblico delle cure agli indigenti).

Sennonché questa enorme autonomia sarebbe in parte mitigata dalle altre norme previste nel Titolo V. La Riforma Bossi si limita ad aggiungere un capoverso all’art.117 della Costituzione (l’articolo che definisce le competenze relative dei diversi livelli di Governo); tutto il resto resterebbe comunque in vigore. Rimarrebbela lettera m. dell’art.117, che attribuisce allo Stato (cioè al Governo centrale) la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, tra cui vanno annoverate certamente anche istruzione e sanità. Per cui, anche se una Regione ottenesse competenze esclusive in campo sanitario, non è chiaro fin dove potrebbe spingersi nella ridefinizione del pacchetto di prestazioni fornite ai cittadini e delle sue modalità di finanziamento.

Resterebbe inoltre in vigore anche l’art.119, che stabilisce i meccanismi di finanziamento alle Regioni riformate. Questo articolo prevede due fondi perequativi tra le Regioni: il primo, che riduce (non è precisato in che misura) le differenze nelle risorse tributarie procapite, e il secondo, che prevede che lo Stato attivi trasferimenti addizionali a favore dei territori più poveri per garantire il rispetto dei diritti di cittadinanza su tutto il territorio nazionale. Dunque, anche con la Riforma Bossi, appare difficile immaginare un ampliamento del divario nelle risorse attribuite alle Regioni per la sanità e l’istruzione, a meno di una definizione in senso riduttivo dei diritti di cittadinanza.

7. Come già notato, a seguito della Riforma Costituzionale dell’ottobre 2001, le Regioni italiane hanno già ottenuto competenze concorrenti nel campo dell’istruzione, oltre a quelle che già avevano per la sanità. Nel caso dell’istruzione, non è stato ancora chiarito cosa ciò implichi per le responsabilità di spesa. Gli insegnanti continueranno a essere pagati dallo Stato o provvederanno le Regioni? Con la Riforma Bossi, la risposta diventerebbe ovvia: la responsabilità si trasferisce alle Regioni e con essa le relative risorse finanziarie (nell’ordine dei 35 miliardi di euro).

8. Una volta approvata, la riforma deve essere attuata e Bossi può sperare che in sede di attuazione si trovi un equilibrio politico a lui favorevole. La Riforma Bossi va letta assieme ai nuovi meccanismi di finanziamento regionale ancora da definire. È evidente che la Lega (cfr. Segnalazione la Voce) punta ad un sistema di finanziamento che lasci più quattrini al Nord. Nei paesi federali, dove sanità e istruzione sono competenze esclusive degli stati regionali (Canada, Australia), lo stato centrale “corrompe” gli stati regionali attraverso i trasferimenti, perché questi garantiscano il rispetto del principio di universalità nell’accesso e un minimo di standardizzazione nei servizi. Con la riforma, la Lega può sperare che le Regioni del Nord riescano a spillare più soldi allo Stato, per esempio, per finanziare la mobilità sanitaria dal sud al nord del paese.

9. La Riforma Bossi attribuisce anche competenze esclusive nel campo della polizia locale. Cosa sia la polizia locale, nessuno lo sa e i sostenitori della riforma si guardano bene dal dirlo. Vigili urbani e guardie forestali, d’altra parte, sono già locali. Secondo il Ministro Castelli sarebbe una nuova forza di polizia che dovrebbe occuparsi dei reati minori. Tuttavia, questo sembrerebbe in contrasto con la lettera h. dell’art.117, che attribuisce invece queste competenze esclusivamente allo Stato.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Autonomia differenziata a rischio incostituzionalità