Continuano ad arrivare brutte notizie sui conti pubblici. Malgrado le continue rassicurazioni fornite dall’esecutivo, nel giro di pochi giorni sono state varate due manovre correttive: una relativa all’anno in corso e una, annunciata solo oggi, relativa al 2006.  Non erano infondati quindi i nostri calcoli e i nostri timori; in particolare quando avevamo ripetutamente segnalato come nel  tendenziale fossero occultate entrate di natura temporanea per diversi miliardi.

Domande sulla Finanziaria, di Maria Cecilia Guerra e Giuseppe Pisauro

Ora che tutti i documenti di bilancio sono stati resi pubblici, è possibile farsi un’idea più ponderata del quadro complessivo della manovra di finanza pubblica per il 2006.
Dobbiamo confermare l’impressione iniziale: nell’insieme la copertura – il modo in cui si prevede di raccogliere le risorse necessarie per finanziare una manovra di 22 miliardi – appare particolarmente debole e rende preoccupanti le prospettive per il 2006. Si parla in questi giorni di un intervento correttivo sul 2005, anche per rimediare al mancato realizzarsi delle misure previste nella Finanziaria dello scorso anno.
Il modo in cui è stata costruita la copertura della finanziaria 2006 annuncia che lo stesso problema si ripresenterà il prossimo anno. Senza tornare su questioni già affrontate, come la realizzabilità del taglio ulteriore ai consumi intermedi dei ministeri o di quello alla spesa degli enti locali, abbiamo alcune domande da porre.

Le entrate da vendite di immobili

Nel disegno di legge finanziaria si stabilisce che le erogazioni dall’istituendo Fondo innovazione (Agenda di Lisbona) “sono operate esclusivamente sul presupposto dei maggiori proventi rispetto alle previsioni di bilancio per l’anno 2006” derivanti da operazioni di dismissione di immobili nel limite massimo di 3 miliardi per il 2006. Andando a controllare, si vede che nel bilancio dello Stato per il 2006 (che non include ancora gli effetti della Finanziaria) sono previste entrate per dismissioni di immobili pari a 6 miliardi. Sembra che ciò significhi due cose. La prima è che il Fondo innovazione potrà essere finanziato solo se (e nella misura in cui) gli incassi da immobili saranno superiori a 6 miliardi. La seconda, più importante, è che in realtà già il tendenziale sconta incassi dagli immobili per 6 miliardi. Se questi ultimi non dovessero arrivare (e non è da escludere, se si ricorda che il bilancio per il 2005 prevedeva da questa fonte 8 miliardi, dei quali finora non sembra sia arrivato nulla), occorrerà reperire in altro modo questo ammontare oppure rassegnarsi a un maggiore disavanzo.
Non sarebbe stato più trasparente evidenziare i 6 miliardi come parte della manovra (indicando una correzione del deficit di 17,5 miliardi invece degli attuali 11,5 miliardi), invece di nasconderli nelle pieghe del tendenziale?
Visto che le entrate da dismissioni di immobili stanno diventando una componente importante degli equilibri di finanza pubblica, non sarebbe il caso di fornire al pubblico e al Parlamento qualche informazione sul grado di realizzazione della previsione di 8 miliardi per il 2005 e sui programmi di vendite che si intende mettere in cantiere per raccogliere tra i 6 e i 9 miliardi nel 2006?

La regolazione dei flussi di Tesoreria

Una parte importante della copertura della finanziaria, 2.236 milioni, è garantita dalla “regolazione dei flussi di Tesoreria”. Si tratta di limiti massimi alle erogazioni di fondi (per spese di investimento) che sono già nella disponibilità dei titolari, o perché trasferiti in passato dal bilancio o, addirittura, perché derivanti dall’accensione di mutui con le banche da parte dei titolari stessi. Questi limiti di cassa si tradurrebbero in una minore spesa, nel 2006, per l’Anas, per il Fondo innovazione tecnologica e per le contabilità speciali di Tesoreria. Naturalmente, la minor spesa nel 2006 sarebbe compensata da una maggiore spesa negli anni successivi: secondo la Relazione tecnica 400 milioni nel 2007, 500 milioni nel 2008 (e, si deve presumere, la parte restante negli anni successivi). Stranamente nel quadro complessivo della manovra sul triennio 2006-2008 distribuito in Parlamento compare la minore spesa nel 2006, ma non le maggiori spese nel 2007 e 2008. Una dimenticanza?
In passato si è spesso fatto ricorso a misure di questo tipo come extrema ratio per comporre manovre di metà anno, talvolta questi limiti hanno funzionato solo parzialmente e sono stati superati da deroghe. Insomma qualche dubbio sulla loro efficacia ci può essere. Ma il punto più importante è un altro. Nella presentazione della manovra è stata molto sottolineata la distinzione tra misure strutturali e misure una tantum. Le entrate una tantum, si è detto, sarebbero solo quelle da dismissioni. L’imposizione di limiti di cassa non è forse la più classica delle una tantum? Certo, a differenza di altre una tantum decise in passato (dai condoni al vendi-e-riaffitta) si limita a modificare il profilo temporale di una spesa senza creare costi aggiuntivi per i bilanci futuri. Ma si tratta sempre di un risparmio di spesa limitato a un anno, certamente non idoneo a finanziare nuove spese o sgravi fiscali permanenti.

Il co-finanziamento dei progetti comunitari

Con riferimento al bilancio dello Stato (gli effetti sul conto delle Amministrazioni pubbliche non sono ricostruibili), un intervento di grande rilievo è quello sul “Fondo destinato al coordinamento delle politiche riguardanti l’appartenenza dell’Italia alla Comunità europea”, in pratica il fondo da cui escono le somme destinate dallo Stato a co-finanziare i progetti che l’Unione europea finanzia con i fondi strutturali. Da un lato, nella tabella D della legge finanziaria, si incrementa la dotazione del fondo con 3,8 miliardi nel 2006, il che fa pensare che di questa integrazione ci sia bisogno per far fronte agli impegni italiani per il ciclo corrente di programmazione degli investimenti, che deve concludersi nel 2008. Dall’altro, nella tabella F della stessa legge finanziaria, si rimodulano gli stanziamenti, riducendo di 6 miliardi proprio quelli per il 2006 e di altri 9 miliardi quelli relativi al 2007-2008. In tutto, una riduzione di 15 miliardi, che vengono spostati al 2009 e anni successivi. Ma per poter usufruire del contributo comunitario – nell’ottica appunto del co-finanziamento – i contributi italiani devono essere erogati entro il 2008. Per almeno una parte dei 15 miliardi (quella relativa al ciclo di programmazione corrente) un rinvio al 2009 può quindi avvenire solo al prezzo di rinunciare alla realizzazione di progetti di investimento già approvati e decisi.
In realtà, è probabile che il rinvio sia stato fatto solo per abbellire il bilancio, nell’ipotesi implicita che nel 2007 e 2008 gli stanziamenti saranno riportati indietro. Un balletto contabile non particolarmente edificante.
Quest’anno nella legge finanziaria compare, per la prima volta, la categoria del “finanziamento degli oneri inderogabili“: spese non incluse nel tendenziale ma a cui non si può rinunciare. I contributi per il co-finanziamento dei progetti comunitari sono destinati a comparire, sotto questa voce, l’anno prossimo?

La lotta all’evasione e la riforma della riscossione

La copertura della manovra finanziaria deriva per 625 milioni di euro (946 nel 2007 e 1278 nel 2008) da strumenti di contrasto all’evasione e dalla riforma della riscossione.
Secondo la relazione tecnica al decreto di accompagnamento alla Finanziaria, metà di tale somma, 300 milioni, deriverebbe da un aumento nel numero e nella produttività del personale impiegato nell’attività di controllo, a fronte di un incremento per 40 milioni nel 2006 (80 milioni nel 2007 e nel 2008) nelle risorse da destinare alle attività di verifiche fiscali e di contrasto del sommerso.
La somma di 300 milioni, da iscriversi fra le entrate del conto economico delle Amministrazioni pubbliche, deriva da un incremento nel “gettito di competenza” atteso, da iscriversi nel bilancio dello Stato, pari a 3 miliardi di euro nel 2006 (che diventano 4,6 miliardi in ciascuno dei due anni successivi). Come deve essere letta questa discrepanza? Si ipotizza che i ruoli emessi a seguito degli accertamenti effettuati dalla Guardia di finanza e dall’Agenzia delle entrate vadano a buon fine per il solo 10 per cento del loro ammontare?
Nel bilancio di previsione dello Stato che non include ancora gli effetti della manovra, le entrate di competenza relative all’attività di accertamento sono stimate pari a 13,8 miliardi. Passerebbero quindi a 16,8 miliardi per effetto della manovra. Nel bilancio di previsione 2005 esse erano pari a soli 8,4 miliardi; se ne prevede quindi il raddoppio in un solo anno. Cosa giustifica, a legislazione vigente, e quindi prima della valutazione degli effetti della manovra per il 2006, un incremento delle entrate da accertamento del 64 per cento? Si sono tenuti in considerazione, nel fare questa stima, così ottimistica, gli effetti negativi che i condoni anonimi degli ultimi anni eserciteranno sull’attività di accertamento futuro?
Altri 300 milioni di euro deriverebbero, nel 2006, dalla riforma del sistema di riscossione, che prevede il passaggio della titolarità di tale attività dai concessionari privati a una società per azioni, la Riscossione spa, di proprietà pubblica. Secondo le stime della relazione tecnica, la ripubblicizzazione della riscossione dovrebbe avere (ipso facto?) l’effetto di permettere l’estensione a tutto il territorio nazionale delle performance che il regime attuale raggiunge solo nelle zone di eccellenza, garantendo, a regime (e cioè dal 2008), un incremento di gettito pari a 780 milioni.
Seicento milioni di finanziamento della manovra finanziaria per il 2006 dipendono quindi, in larga parte, dalla credibilità dell’ipotesi di un aumento di produttività nell’accertamento fiscale e nella riscossione. È un’ipotesi fondata o ha piuttosto il sapore di una scommessa?

Il giro del bilancio in ottanta ore, di Riccardo Faini e Giuseppe Pisauro

Nella conferenza stampa di presentazione della legge finanziaria 2006, il presidente del Consiglio ha sottolineato con orgoglio che si tratta di una manovra “preparata in ottanta ore e approvata in quattro ore”. Dobbiamo dire che si vede.

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Due interrogativi

Raramente nel passato è stata presentata una legge finanziaria dai contorni così incerti.
Uno dei pochi punti fermi è costituito dall’obiettivo di riduzione del disavanzo, 11,5 miliardi di euro, in linea con gli impegni assunti in sede europea che prevedono un calo progressivo del rapporto indebitamento/Pil al 3,8 per cento nel 2006 e al 2,8 per cento nel 2007.
Un altro dato certo è che la manovra sarà assai più corposa, più di 22 miliardi. La legge finanziaria infatti autorizza anche nuove cospicue spese che vanno quindi coperte con tagli in altri capitoli di spesa o con aumenti di entrate.
Queste cifre, assai scarne, sollevano perlomeno due interrogativi. In primo luogo, le misure previste dalla legge finanziaria porteranno effettivamente a una riduzione del disavanzo pari a 11,5 miliardi? In secondo luogo, quando anche questo obiettivo fosse conseguito sarebbe sufficiente a riportare il disavanzo al 3,8 per cento, come concordato a livello europeo?
La risposta a entrambi i quesiti è a nostro parere negativa. Cominciamo dal secondo. Le stime più recenti del Fondo monetario indicano che il disavanzo tendenziale – prima quindi degli interventi correttivi previsti dalla legge finanziaria – si attesta al 5,1 per cento del Pil, quasi 6 miliardi in più di quelli previsti dall’esecutivo. Nel 2006, quindi, quando anche la manovra avesse pieno successo, il disavanzo si attesterebbe al 4,3 per cento, ben al di sopra dell’obiettivo del 3,8 per cento, lasciando al prossimo governo l’onere di scegliere se attuare una manovra assai corposa (ancora 22 miliardi, ma solo di riduzione del disavanzo) o trasgredire gli impegni con l’Europa. In realtà, il disavanzo tendenziale è probabilmente ancora più elevato di quello stimato dal Fondo monetario, in quanto non tiene conto dell’inserimento (occultamento?) nel tendenziale di vendite immobiliari per una cifra non precisata ma certo non trascurabile e, come vedremo, di incerta realizzazione. L’eredità lasciata al prossimo esecutivo sarebbe quindi ancora più pesante.

Le coperture

Questi calcoli presuppongono che la manovra della legge finanziaria sia pienamente efficace. Soffermiamoci quindi sul primo dei due quesiti, quello relativo all’adeguatezza delle coperture finanziarie. In sintesi (ma il quadro complessivo è ancora incerto, perché non tutti i documenti di bilancio sono stati resi pubblici) abbiamo un totale di 22,5 miliardi, che provengono per 12,7 miliardi da minori spese, 4-5 miliardi da maggiori entrate e la parte restante (5-6 miliardi) da dismissioni immobiliari.
Anche qui i motivi di preoccupazione non scarseggiano. Tra le minori spese, 6,2 miliardi riguardano i ministeri, di cui la parte più cospicua, circa 2,5 miliardi, dovrà venire da tagli ai trasferimenti alle imprese private e pubbliche. Su quest’ultima voce sembra proseguire lo sforzo di razionalizzazione iniziato lo scorso anno, e si tratta di una conferma positiva (la speranza è che non consista soltanto di “abbellimenti” del bilancio delle Ferrovie). Ricompare poi un taglio dei consumi intermedi (gli acquisti di beni e servizi) per 1,5 miliardi, una riduzione superiore al 10 per cento della spesa per questa voce. È la riproposizione di una politica di bilancio iniziata con il decreto taglia-spese del 2003 e proseguita con la regola del 2 per cento della Finanziaria 2005. L’insieme di questi interventi comportava per i ministeri un taglio del 30 per cento di queste spese nel 2005. Tutte esperienze non particolarmente esaltanti, a giudicare dai risultati esposti dalla Corte dei conti per il primo semestre 2005: rispetto all’anno precedente le erogazioni di cassa per i consumi intermedi dei ministeri sono cresciute del 10 per cento e per gli investimenti del 9,3 per cento.
Nel mondo dell’economia reale, nessuno penserebbe di poter ridurre progressivamente le spese di funzionamento di una struttura produttiva lasciandone immutati la dimensione e i compiti, nel mondo della finanza pubblica questo è possibile, basta scrivere un articolo della legge finanziaria. Insomma, è facile concludere che, come è avvenuto in passato, da questo lato non ci sia da aspettarsi molto. (Un inciso: dai tagli ai consumi intermedi è esclusa la sicurezza pubblica. Forse sarebbe il caso di cominciare a ricordare che la voce ordine e sicurezza è l’unica, insieme alle pensioni, per le quali la spesa italiana è superiore alla media europea).
I ricavi dalla vendita di immobili (dai 5 ai 6 miliardi, in aggiunta a quelli già celati nelle pieghe del tendenziale) sono un’altra voce ricorrente nelle ultime leggi finanziarie di cui poi nel corso dell’anno si perdono le tracce. La Finanziaria 2005 prevedeva, tra vendite di strade statali (compensate con il famoso “pedaggio ombra”) e di immobili, entrate per 7 miliardi. A tutt’oggi nulla di ciò si è materializzato nel 2005. Tra l’altro, l’insuccesso di Scip2 (per la quale in aprile si è dovuto ristrutturare il debito, visto l’andamento negativo delle vendite) fa sì che una nuova operazione di cartolarizzazione, il modo per anticipare gli incassi, sarebbe difficile da collocare sui mercati se non riconoscendo un elevato premio di rischio agli investitori.
I tagli alla sanità (2,5 miliardi) e agli enti locali (3,1 miliardi) sono invece certamente realizzabili nell’immediato, in quanto agiscono direttamente sui trasferimenti dal bilancio dello Stato.
Qui la questione riguarda la loro congruenza e la loro sostenibilità. A quanto pare, anche nel 2005 la sanità produrrà un disavanzo sommerso (di circa 4 miliardi). Il taglio per il 2006 andrebbe, quindi, a incidere sulla proiezione di una spesa che già nel 2005 si è rivelata insufficiente. Quali meccanismi impediranno il formarsi di un nuovo disavanzo sommerso nel 2006? Tutta la manovra sulla finanza regionale e locale è frutto di improvvisazione. Bisogna certamente intervenire sulla spesa locale, ma è difficile pensare di poter realizzare obiettivi così ambiziosi comunicandoli a Regioni ed enti locali solo quarantotto ore prima della presentazione in Parlamento della Finanziaria. Qui c’è un difetto grave delle nostre istituzioni: la mancanza di un quadro definito delle relazioni finanziarie tra livelli di governo e di una sede di coordinamento delle politiche di bilancio. In assenza di ciò, l’autonomia implicita nel federalismo non è sostenibile per la finanza pubblica e certo non lo diventa con diktat dell’ultim’ora.
Le maggiori entrate provengono per 1.100 milioni dalla svalutazione dei crediti delle banche, 900 milioni dalla rivalutazione dei beni di impresa, 800 milioni dalla tassa sui tubi, 600 milioni da giochi e scommesse. Sulla partecipazione degli enti locali all’accertamento delle imposte erariali e sulle misure di contrasto dell’evasione (nel complesso a quest’ultima voce si possono attribuire circa 650 milioni) vale quanto scritto da Giannini e Guerra: misure indefinite e dagli effetti a dir poco incerti.

Le nuove spese

A fronte di un quadro di copertura finanziaria così incerto, che non garantisce affatto gli 11,5 miliardi di riduzione del disavanzo (come abbiamo visto, già insufficienti), si decidono nuove spese e minori entrate per 11 miliardi. Tra queste, c’è la novità degli “oneri inderogabili” (una new entry per la legge finanziaria) per 4,5 miliardi, che includono misure che vanno dalla proroga di agevolazioni fiscali ai forestali della Calabria, dagli autotrasportatori alla vice-dirigenza. C’è da chiedersi a cosa si riferisca l’inderogabilità.
La parte restante (6,5 miliardi) è la “parte straordinaria”, con misure per lo sviluppo eequità. Non vogliamo giudicare il merito e l’opportunità di questi interventi, che vanno dalla riduzione del costo del lavoro a sussidi per le famiglie.
Notiamo soltanto che, allo stato attuale, questa manovra, anziché migliorare, peggiora il disavanzo, rendendo sempre più pericolosa la situazione nella quale ci troviamo. Sarebbe allora realistico, specie con una manovra da ottanta ore, limitarsi alla sola correzione del disavanzo, rinviando a tempi migliori gli altri interventi (tecnicamente sarebbe possibile farlo con una sorta di fondo negativo, da attivare solo quando, se mai, le risorse saranno effettivamente raccolte).
La retorica della “Finanziaria per lo sviluppo” (che coinvolge ampiamente anche l’opposizione e le parti sociali) rischia di costare molto cara in termini di equilibrio dei conti, peraltro con effetti molto dubbi sulla crescita economica che non si sostiene aumentando l’incertezza sul futuro. Maggiori vantaggi per l’economia verrebbero se ci si limitasse a ridurre il disavanzo e si riuscisse a farlo. Sarebbe un atto di responsabilità da parte dei beneficiari (effettivi o potenziali) di questi interventi non vestire, per una volta, i panni di Esaù.

Fuga da Finantraz, di Tito Boeri

Credevamo che la Prima Repubblica avesse esaurito il campionario di sorprese negative. E’ la prima volta che a un Governatore viene tolta dal Governo la delega a partecipare ad una riunione della Banca Mondiale. È la prima volta che un ministro che controlla la spesa pubblica si dimette a dieci giorni dalla presentazione in Parlamento della legge di bilancio. Domenico Siniscalco non ha voluto firmare quella legge. La bozza presentata nelle scorse settimane doveva fissare i paletti per scoraggiare l’assalto alla diligenza. Ma era solo una confessione di impotenza, un resoconto dell’incapacità di attuare il pur eccezionalmente graduale aggiustamento concordato con Bruxelles trovando un consenso nella maggioranza.

Conti fuori controllo

La manovra doveva essere di 22 miliardi: 11,5 per rispettare gli impegni comunitari e 10,5 per coprire tagli dell’Irap, e spese aggiuntive per investimenti pubblici, piano La Malfa e interventi a favore delle famiglie.
Ma bastano un paio di esempi per capire quando solide fossero queste coperture.
Si prevedeva il 30 per cento di riduzione dei consumi intermedi rispetto al tendenziale (che incorpora il rispetto del tetto del 2 per cento): questo significa una riduzione nominale della spesa per il funzionamento della macchina amministrativa. Vi erano poi ulteriori 6 miliardi di tagli alle spese dei ministeri (che avevano tutti richiesto incrementi dell’ordine del 10-15 per cento rispetto al 2005), anche qui in aggiunta al tetto del 2 per cento, che sembra peraltro essere stato violato, e non di poco, nel 2005 . Per non parlare poi dei 2 miliardi recuperabili dall’immancabile “lotta all’evasione” e “manutenzione della base imponibile”, nonchè di una costellazione di interventi improbabili sulla contrattazione di secondo livello nel pubblico impiego, di cui si è perso il controllo. Tra l’altro nel 2006 dovranno essere pagati gli arretrati dell’accordo sottoscritto a maggio (si sta procedendo a rilento nella stipula vera e propria dei contratti).
Ipotizzando molto generosamente che il 50 per cento delle coperture fossero vere, si arrivava ad una manovra che non cambiava i saldi, il che significa, alla luce delle nuove previsioni di crescita del pil nel 2005 (+0,2%) e 2006 (+1,4%), esser destinati a circa il 5,4 per cento di disavanzo nel 2006. Non sorprenda allora il fatto che, dopo le dimissioni di Siniscalco, lo spread tra i Btp e i Bund non si sia mosso: la presenza o meno del ministro al Governo era ormai ritenuta un fatto irrilevante.

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Tremonti e il ritiro dall’Irap

Ma questo non significa che un assalto incontrollato alla diligenza sarà privo di effetti. Non c’è gradualismo nella reazione dei mercati. Ci se ne accorge quando ormai è troppo tardi. Se non si vuole che lo spread si ampli, con un effetto a palla di neve sul nostro debito pubblico, bisognerà prendere impegni credibili sull’aggiustamento nel 2006. Giulio Tremonti è stato il ministro dei condoni. Bene che nei cinque giorni che ha a disposizione, non cada ancora in tentazione e non preveda coperture derivanti dal recupero di gettito nella lotta all’evasione. Non sarebbero credibili. Dovrà invece trovare vere coperture. Tremonti si è molto vantato in questi mesi di avere fatto una riforma strutturale delle pensioni. Adesso dovrà mostrare a tutti di averla fatta davvero, riducendo la spesa pensionistica prima del 2008. Dovrà anche prevedere misure che invertano la tendenza alla riduzione della base imponibile, così forte durante la sua permanenza in via XX Settembre, come la rivalutazione degli estimi catastali, oltre che presumibilmente inasprire la tassazione delle rendite finanziarie, prevedendo al contempo un ritiro molto graduale dall’Irap.

Le garanzie dell’opposizione

Gli investitori guardano con particolare attenzione anche al comportamento di chi oggi è accreditato di una maggioranza nelle intenzioni di voto (le motivazioni dell’ultima revisione al ribasso dell’outlook sull’Italia di Standard&Poor guardavano anche alle proposte dell’attuale opposizione). Sarebbe ingeneroso chiedere all’opposizione in questo momento di individuare le coperture della Finanziaria 2006 del Governo. Ma per rassicurare i mercati è essenziale che l’opposizione fin d’ora chiarisca come intende riguadagnare controllo della spesa pubblica. Il paradosso della XIV legislatura è stato quello di maggioranze solidissime in entrambi i rami del Parlamento, ministri dell’economia sulla carta potentissimi, ma incapaci di controllare i conti pubblici e di attuare riforme strutturali (se non quelle rimandate ai posteri).
L’opposizione ha oggi il compito di affrontare le ragioni di questo paradosso e di cercare di porvi rimedio. Non è solo un problema di personale politico inadeguato, ma anche di istituzioni che hanno impedito a ministri non incompetenti, come lo stesso Siniscalco, di gestire la politica economica.
È il problema di un bipolarismo imperfetto, che ci consegna maggioranze poco coese al loro interno, con troppe sigle che competono per gli stessi elettori, non avendo alcun incentivo a tenere in considerazione il vincolo di bilancio. È il problema di un federalismo a metà, che comporta sulla carta centri di spesa decentrati senza gli strumenti (e gli incentivi giusti) per gestirla, un federalismo negato nei fatti in questa legislatura dagli interventi d’imperio del centro. È il problema di una Banca d’Italia che interferisce troppo nella politica, diventando il killer dei ministri del Tesoro: la Banca d’Italia ha oggi troppi poteri ed è troppo impermeabile al controllo democratico per un paese che, facendo parte dell’unione monetaria, ha delegato la politica monetaria a Francoforte. È il problema di una Ragioneria dello Stato che non può operare in indipendenza, costretta a porre il bollino su coperture approssimative. È, infine, il problema dell’assenza di un centro di coordinamento e di controllo della finanza pubblica che non si limiti a fissare tetti finanziari alla spesa.
Per riguadagnare il controllo dei conti pubblici non basterà allora cambiare le persone. Occorrerà anche, al più presto, affrontare tutti questi problemi, essenziali per la qualità delle nostre istituzioni.

Tre domande sul DPEF, di Riccardo Faini

Il DPEF, varato dal governo venerdì scorso, è stato finalmente reso pubblico nella sua versione definitiva sul sito di Palazzo Chigi. L’impostazione generale del documento è in larga misura condivisibile. I pilastri su cui si dovrebbe reggere la politica economica in quest’ultimo scorcio di legislatura – rigore di bilancio, rispetto degli impegni europei, lotta all’evasione fiscale, investimenti in infrastrutture materiali e immateriali, liberalizzazioni nei mercati dei beni e dei servizi – sono parte di una lista quasi canonica delle raccomandazioni formulate dagli economisti. A questa lista non fa riscontro una descrizione sufficientemente precisa della fase attuativa. Nulla di male: in fondo il DPEF è un documento di indirizzo. Tuttavia, troppo spesso nel passato anche più recente le indicazioni del DPEF non solo sono rimaste sulla carta ma sono state persino contraddette nell’azione successiva. Al di là della leggerezza del documento, vi sono poi questioni più sostanziali. Una lettura più attenta delle cifre del DPEF evidenzia una serie di interrogativi, a cui è auspicabile possa essere data pronta risposta.

La spesa per interessi. Tra il 2005 e il 2008, la spesa per interessi dovrebbe calare dal 4.9% al 4.6% del PIL. E’ una diminuzione di tutto rilievo che contribuisce non poco al risanamento dei conti pubblici. Sorgono però alcuni interrogativi sulla fondatezza di queste cifre. Solo pochi mesi fa, alla fine del 2004, nel Programma di stabilità, il ministero dell’Economia prevedeva un aumento della spesa per interessi dal 5.1% al 5.6% del PIL. Cosa è cambiato in così breve tempo per spiegare una differenza tanto abissale nelle proiezioni (1% di PIL, cioè 15.4 miliardi nel 2008)? Non certo l’andamento del debito che anzi registra una dinamica più sostenuta nel DPEF rispetto al Programma di stabilità. Neppure l’evoluzione del PIL, relativamente più contenuta nel DPEF. Un qualche aiuto può venire dall’analisi dei tassi forward. Tra la fine dicembre e oggi i tassi a termine sono scesi in maniera non uniforme lungo la curva di rendimenti, ma in media per non più di 30 punti base, del tutto insufficiente per spiegare il calo della spesa. Perciò è difficile capire tanto ottimismo. Certo, viene da rimpiangere i tempi in cui al tesoro si tendeva a sovrastimare l’onere degli interessi al fine di creare un margine di sicurezza per i saldi di bilancio.

Investimenti e una tantum. Più volte è stato ripetuto che l’esecutivo non avrebbe fatto ulteriore ricorso a misure di natura temporanea. In questo senso vanno anche i nostri impegni con la Commissione europea. Per il 2005, oltre alla seconda rata del condono edilizio, la principale una tantum è il Fondo immobili pubblici (FIP) che prevede prima la vendita e successivamente il riaffitto da parte dello Stato venditore di proprietà pubbliche. E’ una tantum in quanto a un sollievo di breve per il bilancio fa riscontro un aumento – sembra assai marcato – dei costi legati al riaffitto. Nell’immediato però la vendita di immobili viene conteggiata come un investimento negativo e va a riduzione quindi delle spese in conto capitale. Ci si aspetterebbe quindi che a partire dal 2006, terminate le vendite di immobili, la spesa in conto capitale registri una forte impennata. Ma così non è. Nel 2006 la sua dinamica è in linea con quella passata. Sorge quindi il sospetto che anche per il 2006 il ministro dell’economia abbia in cantiere operazioni di questo tipo.

Contratti pubblici. Il protocollo di maggio fra Governo e sindacati della funzione pubblica non è stato interpretato come segnale di assoluto rigore nella gestione dei conti pubblici. Il suo impatto sul bilancio è però ancora imprecisato e affidato alla trattativa fra le parti, anche per quello che riguarda la tempistica del pagamento degli arretrati. Il quadro tendenziale del DPEF fornisce inopinatamente qualche informazione al riguardo, nella misura in cui prevede un aumento molto sostenuto della spesa per i dipendenti pubblici nel 2005 e un calo pronunciato (quasi 3,5 miliardi) nell’anno successivo. Sembrerebbe quindi che il DPEF prefiguri che la corresponsione degli arretrati avvenga tutta o principalmente nel 2005, migliorando ma solo sulla carta i conti del 2006 sulla cui base verremo giudicati in sede europea.

Il DPEF propone un rientro del disavanzo graduale per ridurlo sotto il 3% nei prossimi due anni. I tre temi trattati in queste righe hanno un tratto comune, quello di migliorare il saldo dei conti pubblici nel 2006. Se invece queste cifre si rivelassero ottimistiche il vero onere dell’aggiustamento verrebbe spostato nell’esercizio successivo, con una distribuzione nel tempo del peso dell’aggiustamento molto diversa da quella descritta dal DPEF. Un chiarimento è quindi essenziale.

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