In meno di una settimana dal suo arrivo in Turchia, il virus A(H5N1) ha contagiato 15 persone, uccidendone 2, e infettato un numero impressionante di volatili in 18 aree geograficamente distanti tra loro. Questa particolare aggressività del virus dell’influenza aviaria preoccupa gli scienziati e impone di riconsiderare le stime sui tempi di diffusione del contagio. Inoltre ci si dovrebbe chiedere se le misure adottate dalla Roche, raddoppio della produzione e accordi di sub-licenza firmati nello scorso dicembre, siano sufficienti a garantire quantità adeguate di Tamiflu da utilizzare nella cura e nella profilassi dell’influenza aviaria, almeno fino a che non risulti disponibile un vaccino efficace, o se invece non permangano quelle strozzature nell’offerta, più volte segnalate, che richiederebbero misure ben più incisive e tempestive.

Per qualche antivirale in più, di Marcello Basili e Maurizio Franzini

Cresce la preoccupazione per la diffusione del virus A(H5N1), ma si moltiplicano anche le prove dell’ingiustificata disattenzione che i Governi hanno dedicato al problema dell’influenza aviaria negli anni passati. Sono gravi, in particolare, i ritardi nella predisposizione di adeguate scorte di antivirali: la valutazione non cambia neanche alla luce delle polemiche di questi giorni sulla possibile inefficacia di uno dei due farmaci raccomandati per il trattamento dell’influenza aviaria.

Un caso di resistenza all’antivirale

Un articolo pubblicato il 14 ottobre su “Nature”, e largamente ripreso dalla stampa, riferisce che l’oseltamivir, fino ad oggi considerato uno dei due antivirali in grado di contrastare l’influenza aviaria, si sarebbe mostrato inefficace verso il virus A(H5N1).
Il caso è quello di una quattordicenne che sembra essere stata infettata direttamente da un essere umano. La ragazza è stata curata con l’antivirale oseltamivir, secondo la profilassi consigliata dall’Organizzazione mondiale di sanità ed è stata dimessa dall’ospedale dopo tre settimane, sulla base di esami di laboratorio che mostravano la completa scomparsa del virus.
In successive ricerche sono stati prodotti alcuni cloni di virus aviario che risultavano parzialmente o totalmente resistenti al trattamento, anche quando reinoculati in modelli animali. Tuttavia, anche il clone virale resistente all’oseltamivir è risultato curabile con il secondo antivirale consigliato dall’Oms, lo zanamivir. L’indicazione di Nature è quella di diversificare le scorte di antivirali e di monitorare l’evoluzione umana del contagio, per la possibilità che si producano ceppi resistenti agli antivirali efficaci.
Queste conclusioni non dovrebbero sorprendere semplicemente perché invitano a diversificare le difese e la diversificazione è alla base di ogni strategia di riduzione del rischio. Quindi, in attesa di un possibile vaccino, è ancora oggi auspicabile che i Governi si dotino di scorte diversificate e quantitativamente sufficienti di farmaci antivirali attivi contro l’influenza aviaria.

Un’offerta limitata

Ma qui si incontra il vero problema: le strozzature nell’offerta degli antivirali, che sono prodotti da due sole imprese europee. La limitata capacità produttiva, la durata del processo di produzione e una crescente domanda mondiale consentono di soddisfare parzialmente, e rispettando le inevitabili code, le richieste dei singoli Governi.
Il Regno Unito, per esempio, riceve 800 mila dosi di antivirale al mese e stima di completare la copertura del 25 per cento della popolazione in un anno. In un contesto di colpevole disattenzione, il nostro ministro della Salute ha ordinato 2,5 milioni di dosi di antivirali per colmare il deficit precauzionale trovato in eredità (154-180 mila dosi, pari allo 0,3 per cento della popolazione). Se al Governo inglese vengono consegnate 800mila dosi al mese per un piano di acquisto annunciato nel marzo scorso, sarebbe utile sapere quante dosi riceve l’Italia per un piano annunciato qualche settimana fa e quante (e quando) ne ricevono i paesi in prima linea nel fronteggiare l’epidemia come, ad esempio, l’Indonesia.
Appare evidente che in questa situazione le due imprese produttrici di antivirali, anche per non aver voluto a suo tempo aderire alle richieste dell’Oms che invitava ad accrescere drasticamente la produzione, non sono in grado di soddisfare in tempi accettabili le richieste dei vari paesi.
Le medesime difficoltà di approvvigionamento si verificherebbero nel caso in cui venisse predisposto un vaccino specifico per l’immunizzazione di massa.
A questo punto è auspicabile che la responsabilità della produzione dei farmaci attivi per contrastare l’influenza aviaria sia assunta direttamente dagli organismi sovra-nazionali con l’attivazione di impianti produttivi sotto il loro diretto controllo. Potrebbe essere una grande occasione per verificare la capacità di risposta tempestiva delle strutture internazionali a emergenze sanitarie e umanitarie mondiali.
In assenza di interventi radicali come questo, rischia di diventare realtà lo scenario, forse neanche troppo pessimista, tratteggiato lo scorso settembre dagli esperti europei riuniti a Malta per la seconda conferenza europea sull’influenza: prevede, per l’Italia, 16 milioni di contagiati, 2 milioni di ricoveri e 150 mila morti. E rischiano di essere enormemente elevati i costi economici di una possibile diffusione planetaria del virus A(H5N1).
La Banca Mondiale, sulla base di uno studio statunitense del 1999 sulle conseguenze economiche di una pandemia influenzale ad alta patogenicità, stima prudenzialmente non meno di 550 miliardi di dollari Usa per i soli paesi industrializzati. (1)

(1) Le stime si basano su di un tasso di mortalità al di sotto dello 0,1 per cento della popolazione, inferiore quindi allo 0,5 per cento e a al 2,5 per cento registrati rispettivamente negli Usa e nel resto del mondo al tempo dell’influenza spagnola.

Il virus della paura, di Marcello Basili e Maurizio Franzini

influenza aviaria suscita ormai preoccupazioni planetarie. Le notizie degli ultimi giorni sembrano indicare che il processo di diffusione del virus A(H5N1) procede molto più velocemente di quanto si temesse soltanto alcune settimane fa. I ritardi nell’adozione di precauzioni e di un’adeguata strategia difensiva sono già gravi. Sarebbe ancor più grave non adottare le misure necessarie per contenere questo terribile rischio. Sono in gioco milioni di vite umane. E i costi economici possono essere così elevati da giustificare ogni sforzo nella prevenzione.

L’impatto economico

L’influenza aviaria ha già avuto un impatto economico rilevante nel settore agricolo, e in particolare sul pollame.
In Vietnam, ove il settore è relativamente importante, si calcola che un solo, marginale, episodio di influenza aviaria abbia determinato, nel 2003, un costo dell’ordine dello 0,2 per cento del Pil. Costi di questa natura vengono sopportati oggi anche in Europa.
Enormemente più gravi sarebbero, naturalmente, i costi di un’eventuale pandemia che interessasse l’uomo. Ma è interessante sottolineare che anche il solo timore della pandemia genera rilevanti effetti economici negativi.
Un’esperienza recente piuttosto significativa è quella della Sars. Nel tentativo di ridurre la probabilità di contrarre il virus sono cambiati gli stili di vita e di consumo, con conseguenze negative sul turismo, i trasporti, l’alimentazione e, attraverso effetti di induzione, su numerosi altri settori. Va poi aggiunta la crescita dell’assenteismo nei luoghi di lavoro e il probabile abbassamento della produttività individuale. Secondo alcune stime, nel secondo trimestre del 2003, questo insieme di fenomeni ha inciso, per circa il 2 per cento sul Pil dei paesi asiatici interessati. Ed è bene ricordare che alla fine la Sars ha provocato meno di mille morti. Dunque, gli effetti economici che ha generato appaiono, ex-post, eccessivi in rapporto ai rischi reali. Nel caso di rischi estremi definire ex-ante il confine tra razionale cautela e ingiustificato allarmismo è però estremamente complicato.
Oggi, di fronte all’influenza aviaria, si chiedono alle autorità messaggi rassicuranti sulla possibilità di evitare la pandemia. Rassicurazioni ampie e, al tempo stesso, fondate non possono però esserci. L’unica strategia efficace per contenere l’allarmismo è allora quella di agire in modo rapido e concreto per assicurare la produzione in quantità adeguata dei farmaci in grado di prevenire o contrastare il virus. Sotto questo profilo, in passato non si è fatto quasi nulla e in queste settimane si sta facendo, a livello nazionale e internazionale, troppo poco.

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Vaccini e antivirali

Gli studi sui vaccini sono a uno stadio avanzato, tuttavia non è ipotizzabile una loro produzione su vasta scala. Se anche si concludessero con successo i test sperimentali, si superassero i problemi connessi agli alti dosaggi necessari a indurre la risposta immunitaria e si accertasse l’efficacia dei vaccini contro il virus A(H5N1), resterebbe perciò da risolvere il problema di una capacità produttiva limitata. Si stima che l’attuale capacità sia, a livello mondiale, tra i 25 e i 100 milioni di dosi mensili: nulla in confronto alla domanda che si scatenerebbe in un arco temporale ristrettissimo in caso di pandemia.
In mancanza di vaccini, i Governi di molti paesi hanno acquistato gli antivirali per la profilassi e il trattamento della variante umana dell’influenza aviaria. Non tutti però con la stessa decisione. L’Olanda ha stock di antivirali in grado di coprire il 31,5 per cento della popolazione, gli altri grandi paesi europei sono su percentuali superiori al 20 per cento, mentre l’Italia dispone soltanto di 154-180 mila dosi di antivirali, che potrebbero proteggere soltanto lo 0,3 per cento della popolazione.
Il ritardo italiano è, dunque, gravissimo. Un fatto piuttosto inspiegabile se si tiene conto che in una recente pubblicazione scientifica internazionale alcuni epidemiologi dell’Istituto superiore di sanità hanno documentato il contagio di un ceppo meno insidioso di influenza aviaria, A(H7N3), in sette allevatori avicoli del Nord-Est dell’Italia;, e che da almeno da due anni vengono effettuate vaccinazioni di animali contro il virus A(H7N1) negli allevamenti avicoli del Nord-Est.
Com’è possibile che si ritenga probabilmente avvenuto anche in Italia il salto della barriera di specie di un virus aviario, si adottino strategie di vaccinazione per i polli e non si approntino per tempo, come indicato dall’Oms, almeno gli stock minimi di antivirali per l’uomo? Dovrà pur esservi qualcuno che è responsabile di questa leggerezza precauzionale.
Il nostro ministro della Salute è recentemente corso ai ripari, ordinando 2,5 milioni di dosi di antivirali e firmando un contratto di prelazione con tre case farmaceutiche per l’acquisto di 35 milioni di dosi di vaccino (per il periodo 2006-2010). Ma queste misure rischiano di essere puramente formali. I vaccini non sono in questo momento disponibili e i tempi di produzione degli antivirali sono stimati in dodici mesi. Considerata la crescente domanda mondiale, sorge il dubbio che il problema sia ben lungi dall’essere risolto. Conoscere i dettagli del contratto di prenotazione sottoscritto dal ministero della Salute potrebbe essere utile per fugare almeno qualche preoccupazione. Intanto, crescono i tentativi di procurarsi gli antivirali nei mercati virtuali che, essendo ben poco controllati, si prestano a frodi e truffe di varia natura. Il Governo farebbe bene a occuparsi seriamente della questione, ad esempio consentendo e agevolando anche in Italia la vendita in farmacia dei due prodotti ritenuti dall’Oms efficaci nel trattamento dell’influenza aviaria.

Le soluzioni possibili

Tuttavia, il vero problema è quello della produzione di antivirali e vaccini a livello mondiale. Qui occorrono misure sicuramente più coraggiose di quelle di cui finora si è parlato. Ad esempio, il commissario europeo alla Salute, Markos Kyprianou, ha invitato i Governi dell’Unione a realizzare partnership con le industrie farmaceutiche per avviare una produzione sufficiente di farmaci antiepidemici. Questi inviti sarebbero appropriati se ci trovassimo ancora in una fase pre-emergenziale come tre o quattro anni fa. Anche dall’incontro tra George W. Bush e le principali industrie farmaceutiche produttrici di vaccini non sembrano essere emerse soluzioni concrete.
In questa situazione, il nostro ministro della Salute potrebbe farsi promotore di un’iniziativa atta a costituire unità di produzione di farmaci antivirali e antiepidemici (gli istituti chimico-farmacologici militari potrebbero ricoprire questo ruolo?), capaci di coprire le necessità indotte da profilassi e trattamenti di massa, sotto la diretta responsabilità del commissario europeo alla Salute. In tal modo, si potrebbero affrontare preventivamente i problemi legali, legati al regime dei diritti di proprietà dei farmaci, magari prevedendo il pagamento di royalty in somma fissa. (1)
Potrebbero essere risolti così anche i problemi tecnici connessi alle strozzature per le limitate capacità produttive, e che potrebbero portare i paesi produttori di vaccini a sospenderne, per motivi sanitari, l’esportazione. L’esperienza di paesi come il Sud Africa, che da tempo produce antivirali contro l’Aids, può rivelarsi preziosa per evitare che gli effetti di scarsità si scarichino immediatamente sui paesi in via di sviluppo, in prima linea nel fronteggiare la possibile epidemia.
La pandemia di influenza aviaria A(H5N1) appare sempre più probabile, soprattutto dopo la recente scoperta che la terribile Spagnola altro non era che un virus mutato di influenza aviaria. Tuttavia, si è ancora in tempo per impedire che si trasformi in una catastrofe umanitaria di medievale memoria. E dagli incalcolabili danni economici.

Per saperne di più

WHO, 2005, Responding to the avian influenza pandemic threat. Recommended strategic actions, (2 settembre 2005), http://www.who.int/csr/resources/publications/influenza/WHO_CDS_CSR_GIP_05_8-EN.pdf

Basili, M. e Franzini, M. 2005, “The Avian Flu Disease: A Case of Precautionary Failure”, Quaderni del Dipartimento di Economia Politica 454, Siena, http://www.econ-pol.unisi.it/quaderni.html.)

Basili, M. e Franzini, M. 2004, “Institutions and the Precautionary Principle: the Case of Mad Cow Disease”, in Risk, Decision and Policy, 9 (1), pp. 9-21.

(1) Aspri conflitti legali già si segnalano tra le due imprese di biotecnologie inventrici di due farmaci antivirali e le due imprese produttrici europee.

L’influenza aviaria e il principio di precauzione, Marcello Basili e Maurizio Franzini

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Nel mezzo di un’estate già prodiga di tragiche notizie, gli italiani sono venuti a conoscenza del rischio che in tempi brevi si sviluppi una pericolosa pandemia influenzale con costi in vite umane comparabili a quelli delle più gravi epidemie del secolo scorso (Spagnola, Asiatica, Hong Kong). Il virus A(H5N1), responsabile dell’influenza aviaria, dal lontano Sud-Est Asiatico in cui prosperava da quasi un decennio, ha raggiunto e infettato allevamenti in Russia e Kazakhstan, e con l’approssimarsi della stagione migratoria dei volatili si accinge ad arrivare fin nel cuore dell’Europa. Si tratta di un’emergenza molto seria e di dimensioni planetarie, che merita attenzione non soltanto per individuare e attuare le misure idonee a limitare i rischi, sanitari ed economici, oggi così evidenti, ma anche perché interrogarsi sulle ragioni del ritardo con il quale si sta intervenendo equivale ad occuparsi di un tema cruciale: l’apparente inadeguatezza dei governi e dei mercati ad affrontare eventi molto incerti, ma potenzialmente catastrofici.

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Due possibili strade

La storia del virus A(H5N1), nelle sue tappe essenziali, è ormai nota: isolato, per la prima volta, più di un secolo fa, proprio in Italia, nonostante la sua carica infettiva e la capacità di mutare combinandosi con i virus che colpiscono altre specie animali, non destò particolari preoccupazioni, in quanto ritenuto incapace di compiere il salto della barriera di specie necessario per il contagio umano. Tuttavia, nel 1997 a Hong Kong, è stata documentata l’insorgenza dell’influenza aviaria tra il pollame e 18 casi, di cui 6 mortali, di contagio umano. Nonostante le numerose prese di posizione di scienziati e organizzazioni sanitarie (OMS) che mettevano in guardia sull’eventualità di una possibile trasmissione diretta da uomo a uomo del virus A(H5N1), confidando nel fatto che solo l’esposizione diretta al virus potesse determinare l’infezione, nessuna azione fu intrapresa per la produzione di un vaccino efficace. Allo stesso tempo, i governi nazionali non ritennero opportuno costituire scorte sufficienti dell’antivirus (oseltamivir phosphate, prodotto e commercializzato con il nome di Tamiflu dalla Roche) capace di prevenire gli effetti collaterali connessi al contagio. Tuttavia, nel settembre dello scorso anno in Thailandia si è avuto quello che potrebbe essere il primo caso di trasmissione umana. I dubbi, al riguardo, sono ancora oggi irrisolti ma appare oramai indiscutibile che il virus possa evolvere in modo da trasmettersi tra gli uomini – dunque, non soltanto per contatto con pollame vivo – dando luogo a una drammatica pandemia.
Una strategia di riduzione dei rischi dovrebbe, naturalmente, prevedere interventi sui canali di diffusione geografica dell’influenza aviaria e un’opportuna informazione delle popolazioni sulle più importanti cautele. C’è da sperare che i governi nazionali e sovranazionali compiano passi efficaci, e con tempestività, in questa direzione. Ben più complesso è il discorso riguardante i farmaci, giacché rispetto a questo tema affiorano quelli che potrebbero chiamarsi i fallimenti di precauzione rispetto a rischi catastrofici.
Le terapie farmacologiche possibili dell’influenza aviaria sono di due tipi: l’assunzione di un antivirale al manifestarsi dei primi sintomi e/o una campagna preventiva di vaccinazione. Il Tamiflu, del cui brevetto è proprietaria la Roche, è un antivirale considerato efficace contro il virus A(H5N1). La produzione di questo farmaco è concentrata in uno stabilimento in Svizzera. La Roche, di fronte alle critiche per una produzione insufficiente mosse da tempo dall’OMS, ha risposto che l’assenza di una domanda certa di mercato – non adeguatamente sostenuta da una politica di costituzione delle scorte da parte dei governi – rendeva assai poco conveniente investire nell’ampliamento della capacità produttiva. Gli effetti di un’offerta limitata dalle capacità produttive potrebbero rivelarsi in tutta la loro drammaticità allorchè le autorità sanitarie nazionali cercassero di incrementare le scorte di Tamiflu.
Il discorso sul vaccino è assai più complesso, coinvolgendo aspetti di ricerca, di normative e di mercato. All’inizio del mese di agosto dagli Stati Uniti è giunta la notizia di una forte risposta immunitaria in 113 dei 452 volontari sani di età inferiore ai 65 anni, sottoposti dall’industria farmaceutica Sanofi-Pasteur a un vaccino sperimentale. Pur trattandosi di una notizia positiva, il prof. Fauci, che sovrintende le sperimentazioni, si è affrettato a chiarire che si tratta di evidenze preliminari e che allo stato non c’è alcun piano per la produzione di massa di un eventuale vaccino. Inoltre permangono, dati anche gli alti dosaggi ipotizzati rispetto ai comuni vaccini influenzali, i problemi connessi a una produzione-somministrazione su vasta scala.

Incentivi e nuove regole

Gli eventi brevemente riportati testimoniano come la mancata applicazione del Principio di Precauzione si sia tradotta in un colpevole ritardo nell’avvio della ricerca di vaccini specifici contro il virus A(H5N1) e nell’adeguamento della produzione di antivirali efficaci.
L’OMS ha inviato per tempo segnali allarmanti ma governi e imprese hanno scelto un diverso corso di azione. In particolare, il comportamento dell’industria farmaceutica (Aventis, Chiron, Sinovac, Roche) mostra l’indisponibilità delle imprese private a sostenere i rischi connessi all’incertezza sulla domanda futura. Non sarebbe stato allora compito dei governi (nazionali e sovranazionali) provvedere alla copertura dei costi necessari a indurre gli agenti privati a comportarsi in accordo con un criterio decisionale precauzionale?
In presenza di una domanda di mercato incerta e/o insufficiente, le autorità pubbliche dovrebbero negoziare con le imprese private i meccanismi incentivanti atti all’attivazione delle linee di ricerca e di produzione. Nella valutazione dei costi di tali contratti, le autorità pubbliche dovrebbero dotarsi di strumenti moderni, in grado di superare i limiti e l’inaccuratezza delle procedure standard. In particolare, la trattazione dell’ambiguità o incertezza scientifica richiede l’applicazione di nuove regole decisionali che mostrano come l’ottenimento di risultati migliori in termini di benessere pubblico non sia necessariamente associato a più alti costi per l’incentivazione.
La questione, come visto, è complessa ma va direttamente al cuore del Principio di Precauzione, giustamente invocato di fronte a eventi incerti ma potenzialmente catastrofici. Ai governi europei e, soprattutto, all’Unione Europea – che del Principio di Precauzione si è stata fautrice – occorre chiedere, anche adesso e per quello che è ancora possibile, se sono pronti a sostenere i costi che la razionale applicazione di questo principio comporta.

Per approfondimenti: Basili-Franzini, 2005, The Avian Flu Disease: A Case of Precautionary Failure, Quaderni del Dipartimento di Economia Politica 454, Siena, http://www.econ-pol.unisi.it/quaderni.html.).

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