I dati confermano che il calcio italiano soffre di un grave problema di competitive balance. Dovuto al regime di ripartizione dei proventi dei diritti televisivi. Nel 1999 il passaggio alla titolarità individuale era stato favorito anche da un’istruttoria dell’Agcm. Ora si pensa di tornare alla contrattazione collettiva, già autorizzata dalle autorità europee per la Champions League. Un’altra soluzione rispetta le regole antitrust: mantenere i diritti soggettivi, applicando però un sistema fortemente progressivo alle quote d’iscrizione a Lega e campionato.

Immaginiamo che esista un equilibrio perfetto tra tutte le centotrentadue squadre di calcio professionistiche italiane, nel senso che, ad esempio, il Pisa o il Prato valgano sul campo esattamente quanto la Juventus. L’analisi economica applicata allo sport ci dice che sotto questa ipotesi nei venti anni dal 1976 al 1995 esattamente 24,5 squadre diverse avrebbero dovuto piazzarsi nei primi due posti della serie A. In realtà, solo dodici squadre sono davvero arrivate tra lele prime due, pari a circa il 49 per cento rispetto al numero teorico. Questo non stupisce, dato che l’ipotesi di perfetto equilibrio è chiaramente falsa.

Niente di nuovo nella serie A

Tuttavia, negli ultimi dieci anni (1996-2005) il gap tra teoria e realtà si è allargato.
In teoria, più di diciassette squadre diverse avrebbero dovuto piazzarsi nei primi due posti in classifica, mentre in realtà solo sei squadre, pari al 35 per cento, hanno ottenuto tale risultato. Risultati analoghi si trovano per i piazzamenti nelle prime tre o quattro posizioni. Di fatto, negli ultimi dodici campionati di serie A nessuna squadra nuova è arrivata nelle prime tre, intendendo per “nuovo” un club che non fosse già arrivato nelle prime tre almeno una volta a partire dal 1946-47.
Questi semplici dati confermano la sensazione diffusa che la nostra serie A soffra negli ultimi anni di un grave problema rispetto a ciò che gli economisti dello sport chiamano competitive balance e che potremmo tradurre come “equilibrio sul campo“.
Il 1996 è anche l’anno in cui la legge 586 ha sancito la natura di impresa delle società sportive professionistiche e l’ultima stagione in cui la Lega nazionale professionisti ha distribuito in maniera paritaria i ricavi derivanti dallo sfruttamento economico dei diritti televisivi relativi ai tornei di serie A e B ed alla Coppa Italia. Non pare azzardato dunque ipotizzare che proprio al mutato regime di ripartizione di tali proventi, e in particolare al passaggio dalla negoziazione collettiva dei diritti televisivi a opera della Lega alla loro titolarità individuale, sancito dalla legge 78 del 1999, debba attribuirsi il peggioramento dell’”equilibrio”.

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Calcio e concorrenza

Oltre che della legge 78, che in realtà ha solo confermato l’orientamento univoco dei nostri tribunali, la titolarità soggettiva dei diritti televisivi è frutto dell’azione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che sempre nel 1999 ha svolto un’istruttoria ai sensi della legge antitrust per violazione del divieto di intesa tra imprese. Ciò che in sintesi l’Agcm imputava alla Lega era proprio la contrattazione collettiva dei diritti televisivi del campionato – tema che a partire sempre dal 1996, con la scadenza del primo contratto con l’allora Telepiù, era divenuto di pressante attualità nel calcio italiano, tanto da portare nel maggio 1998 alla prima grave spaccatura in Lega con la bocciatura della proposta di nuova contrattazione collettiva per il periodo 1999-2005. La certezza di una condanna da parte dell’Agcm e la contemporanea approvazione della legge 78 induceva la Lega a modificare il proprio regolamento, conservando la sola titolarità a rappresentare collettivamente i club di A e B nella vendita degli highlights del campionato e delle partite di Coppa Italia e lasciando invece alle singole società la piena disponibilità dei diritti pay-tv e pay-per-view sulle partite casalinghe, fatta salva una quota dei proventi da riservare al club ospite.
Oggi si caldeggia da più fronti il ritorno alla contrattazione collettiva proprio al fine di ripristinare condizioni di maggiore “equilibrio sul campo”. Tale soluzione sarebbe in linea con quanto suggerito dagli economisti dello sport. È infatti un risultato consolidato in dottrina che meccanismi di redistribuzione dei proventi tra i club sono condizione sufficiente e spesso anche necessaria per aumentare l’”equilibrio”. Ciò vale in particolare per i campionati europei di calcio dove, a differenza degli sport professionistici americani e nonostante la quotazione in Borsa di parecchi club, la motivazione principale dei proprietari delle squadre rimane il raggiungimento del successo sportivo piuttosto che del profitto.
La teoria economica offre diversi modelli di redistribuzione, tra cui appunto una gestione centralizzata dei proventi (il cosiddetto pool sharing) del tipo praticato dall’UEFA per la Champions League. Proprio quest’ultimo esempio suggerisce come superare le eventuali obiezioni sul piano dell’antitrust: nel luglio 2003 la Commissione europea ha autorizzato l’UEFA a proseguire nella cessione collettiva in virtù del vantaggio per il consumatore finale di acquistare il prodotto complessivo “Champions League” piuttosto che le partite delle singole squadre. Non dovrebbe essere difficile estendere tale argomento alla serie A e B, stante la recente disponibilità manifestata dalla nostra Authority e il fatto che essa lo ha già applicato nel 1999 per gli highlights.
Come nella Premier League, il riparto dei proventi collettivi potrebbe poi essere in parte legato al piazzamento in classifica ed alla popolarità delle squadre.
Naturalmente, la contrattazione collettiva non è l’unico modo per redistribuire le risorse e assicurare l’”equilibrio sul campo”. Attualmente la Lega prevede un complesso meccanismo di riparto, la cosiddetta mutualità. I fautori del mantenimento dei diritti soggettivi propongono di agire piuttosto su tale meccanismo e proprio i recenti casi antitrust suggeriscono che andrebbero presi in parola: sia l’Agcm che la Commissione europea affermano infatti che è comunque possibile conciliare diritti soggettivi ed “equilibrio sul campo”, a patto di applicare un sistema fortemente progressivo (in funzione dei ricavi societari) alle quote d’iscrizione alla Lega e al campionato. Di fronte a una solida maggioranza in Lega disposta ad adottare un simile e del tutto legittimo meccanismo, magari con aliquote da “esproprio proletario”, anche gli ultras dei diritti soggettivi forse tornerebbero ad apprezzare le virtù della negoziazione collettiva.

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