Cosa dobbiamo aspettarci dall’eventuale approvazione del compromesso sulla direttiva servizi? Avremo un’apertura, seguita in alcuni paesi da nuovi freni alla concorrenza. Molte disposizioni saranno annullate dalla Corte di giustizia. Ma lo shock concorrenziale sarà reale e duraturo, anche se minore rispetto alla Bolkestein. E’ una soluzione equilibrata. Che soddisferà chi temeva l’adozione indiscriminata della nozione di paese dorigine. Piacerà meno invece ai contrari all’idea stessa di estendere il principio della concorrenza al settore dei servizi. Nella scorsa primavera il progetto di legge quadro sullorganizzazione del mercato europeo dei sevizi, conosciuto sotto il nome di direttiva Bolkestein, ha sollevato in Francia una fiera opposizione. I tre punti in discussione Un anno più tardi, dopo un lungo lavoro parlamentare, la direttiva è di nuovo in ballo. Reca significativi emendamenti, frutto di compromessi tra Ppe e Pse, ma persegue sempre lo stesso obiettivo: organizzare e rendere sicura lapertura di un mercato, ancor oggi frammentato da una miriade di regolamenti internazionali, onde promuovere la concorrenza in seno ai 25. Gli obiettivi Il settore dei servizi, protetto per lungo tempo dalla concorrenza internazionale, è spesso ancor oggi considerato un rifugio. Nella distribuzione o nelle banche non sono i produttori cinesi a dettare il prezzo, e la pressione per ridurre i costi è meno forte che nellindustria. Intensificare la concorrenza intraeuropea significa intraprendere, anche in questo settore, la corsa verso la produttività e il profitto. È opportuno procedere in questa direzione? Le condizioni della concorrenza Nello scambio dei beni ci siamo abituati al fatto che il mercato internazionale metta in comunicazione paesi con livelli di sviluppo assai differenziati. E consideriamo accettabile, o perlomeno inevitabile, che un operaio ungherese costi, e quindi guadagni, circa un quarto del suo omologo francese. In effetti, da una parte la produttività del lavoro è bassa più della metà in Ungheria rispetto alla Francia. Dallaltra, la qualità e la notorietà dei prodotti francesi permettono che questi siano venduti a un prezzo più elevato. I princìpi In questo contesto su che basi organizzare la concorrenza? Dalle sue origini il diritto comunitario riposa su un principio di non-discriminazione, che vieta a uno Stato di ostacolare lofferta di un servizio, per il solo motivo che lazienda prestataria provenga da un altro paese. Questo in teoria.
Adottato senza grande dibattito dalla Commissione europea (non si trattava forse di perseguire la costruzione del mercato unico?), il progetto faceva emergere crudamente i timori suscitati dallintensificazione della concorrenza, in unUnione con 25 membri. Coloro che si accingevano a fare campagna elettorale contro la costituzione europea proclamarono che la direttiva era lemblema di unEuropa senza regole, in cui la concorrenza avrebbe inevitabilmente affossato le norme sociali. I dirigenti politici di destra e di sinistra che, per contro, si apprestavano a lottare a favore dellapprovazione della Costituzione, presero le distanze dalla direttiva, affermando che non coincideva con la loro concezione di Unione. Nel marzo 2005, infine, il Consiglio dei capi di Stato la accantonò, nella speranza di rassicurare i francesi. Il resto è noto.
Fin dallinizio il dibattito sulla direttiva servizi ha visto intersecarsi litigi tecnici con compromessi politici. La discussione di fondo verte principalmente su tre questioni. Bisogna aprire il mercato dei servizi alla concorrenza? Su quali basi organizzare la competizione tra prestatori, appartenenti a paesi con livelli di sviluppo assai differenziati? Lunificazione del diritto si fonda sul principio del paese dorigine? Cerchiamo di rispondere a questi tre interrogativi.
La risposta è nei numeri. Da dieci anni a questa parte la produttività del lavoro è nettamente diminuita in Europa (di circa un punto allanno), mentre negli Stati Uniti è aumentata, proprio di un punto allanno. Ciò ha creato un netto divario di crescita tra i due continenti. E la forbice si è allargata proprio nel settore dei servizi.
È perfettamente legittimo considerare positiva tale evoluzione. Lobiettivo della politica economica non è certo quello di massimizzare la crescita, bensì il benessere, il che può implicare scelte sociali non-produttive. Tuttavia, nei prossimi decenni laumento della produttività dovrà finanziare la crescita del potere dacquisto e laumento degli oneri delle pensioni. Restare inchiodati sui livelli attuali significa quindi non solo accettare che il nostro reddito pro-capite sia inferiore a quello degli Stati Uniti; significa anche rassegnarsi a una crescita quasi nulla del nostro potere dacquisto.
La concorrenza internazionale non è il solo o il più importante strumento per incrementare la produttività nei servizi. In molti settori produrrebbe lo stesso effetto leventuale intensificazione della concorrenza interna (per esempio, una modifica delle regole sugli insediamenti commerciali).
Gli studi di Marc Melitz di Harvard ci hanno però detto che lapertura verso lesterno è una macchina di produttività: quando vengono soppresse le barriere agli scambi le aziende più produttive e più innovative si rafforzano, le meno innovative e le meno produttive spariscono. Mantenere sotto protezione un settore che potrebbe invece essere stimolato dallintegrazione del mercato significa privarsi di uno strumento importante, capace di far ripartire la crescita europea.
Non è quindi in nome di un principio astratto che lEuropa necessita di una legge-quadro sui servizi: la costituzione di un mercato unico sarebbe foriera di crescita anche in questo settore.
In Europa centrale, dove il livello di formazione della mano dopera è molto elevato, queste differenze non derivano solo dalle caratteristiche dei lavoratori. Sono gli impianti, lorganizzazione delle imprese, le infrastrutture che, per lo più, limitano la produttività del lavoro. È il ritardo nellinnovazione o lassenza di marchi conosciuti che impediscono ai produttori di valorizzare i loro prodotti negli scambi.
Queste differenze non riguardano daltronde tutti i lavoratori: gli operai cechi della Volkswagen producono tanto valore quanto quelli di Wolfsburg. Ma, anche in questo caso, consideriamo auspicabile che le remunerazioni di una multinazionale non superino troppo quelle delle imprese locali. Questo è ciò che ci sembra più giusto (in virtù del principio ” a lavoro uguale, uguale salario”) e più opportuno, onde attirare capitali e promuovere lo sviluppo.
Trasferiamo questo ragionamento al settore dei servizi. Non cambia niente
a parte che bisogna trasferire il lavoratore perché presti servizio. In questo modo entrano in diretto contatto due mercati del lavoro. Quali norme applicare? Quelle del paese dorigine o quelle del paese di destinazione?
Tutto dipende dal mercato del lavoro a cui appartiene il lavoratore. Cè il caso dellimmigrato residente che appartiene totalmente al mercato del lavoro del paese di accoglienza. Non vi sarebbe motivo per trattarlo in maniera diversa dagli altri salariati. Ma cè anche il caso di colui che lavora allestero in trasferta e che dipende completamente dal mercato del suo paese dorigine, per cui sarebbe assurdo indicizzare la sua remunerazione o le sue condizioni di lavoro a quelle del paese in cui va a operare. Tra questi estremi ci sono molte situazioni intermedie: ma la legislazione deve necessariamente tracciare una frontiera, forzatamente arbitraria. È ciò che ha fatto la direttiva del 1996 sui lavoratori in trasferta, secondo la quale, al di là delle missioni di brevissima durata, si applica la normativa sociale del paese di accoglienza.
Questa distinzione si basa su una preoccupazione di equità – sarebbe forse possibile che due salariati, che effettuano lo stesso lavoro nello stesso posto, dipendano da regolamenti sociali diversi? Ma ha la sua ragion dessere anche sotto il profilo economico. Lazienda che opera in un paese avanzato ha in questo modo accesso a tutto il sistema di produttività del paese stesso. In contropartita è logico che essa applichi le sue norme sociali.
In conclusione, lapplicazione di questi principi è in un certo qual modo un rompicapo. Il caso degli operai lettoni in Svezia, con lazienda che non si riteneva obbligata da convenzioni collettive non previste dai contratti, ne è lesempio probante. Casi di questo tipo si moltiplicheranno, senza alcun dubbio. La legislazione deve pertanto essere il più precisa possibile.
In pratica, però, gli Stati hanno trovato mille strumenti per ostacolare la concorrenza, imponendo obblighi, come la registrazione o lapertura di una sede nel paese. Queste disposizioni vengono regolarmente annullate dalla Corte di giustizia, caso per caso. È per questo motivo che la Commissione europea aveva proposto un testo generale, destinato a eliminare in un colpo solo tutti gli intralci che la Corte doveva annullare uno per uno. Pensava di risolvere il problema prevedendo che ogni azienda, già stabilita in uno qualsiasi dei 25 paesi membri, avrebbe ipso facto potuto prestare i suoi servizi negli altri 24 paesi: è quel che viene definito principio del paese dorigine.
Vi è tuttavia unenorme differenza tra non-discriminazione e principio del paese dorigine. Nel primo caso, per esempio per motivi di sicurezza dei consumatori, lo Stato può fissare obblighi regolamentari a tutte le aziende prestatarie, nazionali o straniere. Nel secondo caso, non può farlo.
Ovviamente, molti di questi regolamenti non proteggono tanto i consumatori dai difetti di fabbricazione, quanto le aziende prestatarie dalla concorrenza interna o estera. Non sempre, però. Il rischio di unapplicazione diretta del principio del paese dorigine era che – così come avviene per le finanziarie offshore – certi paesi adottassero normative lassiste, per facilitare listallazione di imprese di servizi nel loro territorio.
Il compromesso raggiunto la settimana scorsa da Evelyne Gebhardt e Malcom Harbour, rispettivamente portavoce di Pse e Ppe, cambia lottica del problema. I due parlamentari europei propongono di riaffermare il principio di non-discriminazione, sostituendo però al principio del paese dorigine una lista di disposizioni e divieti. Sarebbe per esempio vietato imporre alle aziende prestatarie lapertura di una sede o la procedura di registrazione. In compenso, gli Stati conserverebbero il diritto di fissare obblighi generali, applicabili a tutte le aziende prestatarie sul loro territorio, il che eliminerebbe il rischio di “concorrenza sulle regole”.
Cosa ci si può aspettare da questo compromesso? Se viene adottato, cadranno di un solo colpo un insieme di norme protezionistiche… e una parte di loro sarà probabilmente reintrodotta sotto mentite spoglie. Si creerà unapertura, seguita in alcuni paesi dallinstaurazione di freni alla concorrenza. Nel contempo, molte di queste disposizioni saranno denunciate alla Corte di giustizia, che le annullerà. Nel complesso lo shock concorrenziale sarà minore di quello che avrebbe apportato la direttiva Bolkestein, però sarà reale e duraturo.
Il compromesso Gebhardt-Harbour offre quindi, su un terreno molto controverso, una soluzione equilibrata che concilia intensificazione della concorrenza e protezione contro i rischi di una concorrenza sulle regole. Coloro che temevano ladozione indiscriminata del principio del paese dorigine approveranno senza alcun dubbio. Coloro che invece sono ostili alla idea stessa di estendere il principio della concorrenza al settore dei servizi non saranno certo soddisfatti. Ma almeno diverranno più evidenti i motivi della loro riserva mentale.
Au printemps dernier, le projet de loi-cadre sur lorganisation du marché européen des services connu sous le nom de directive Bolkestein rencontrait, en France, une opposition quasi-unanime. Alors quil avait été adopté sans grand débat par la Commission européenne ne sagissait-il pas de poursuivre la construction du marché unique ? il cristallisait brutalement les craintes suscitées par lintensification de la concurrence au sein de lUnion à vingt-cinq. Ceux qui sapprêtaient à faire campagne pour le non à la constitution en faisaient, efficacement, le symbole effrayant dune Europe dérégulée où la concurrence entraînerait inexorablement les normes sociales vers le bas. A la manière de pompiers incendiaires, les dirigeants politiques de gauche et de droite qui sapprêtaient à défendre le oui sempressaient quant à eux de rallier le mouvement et daffirmer crânement que cette directive navait rien à voir avec lidée quils se faisaient de lUnion. En mars 2005, enfin, le Conseil des chefs dEtat écartait temporairement la directive dans lespoir de rassurer les Français. La suite est connue.
Un an plus tard, au terme dun long travail parlementaire, la directive est de retour. Significativement amendée par un accord de dernière minute entre le PPE et le PSE, elle vise cependant toujours le même objectif : organiser et sécuriser louverture dun marché aujourdhui encore fragmenté par une myriade de réglementations nationales et donc promouvoir la concurrence au sein de lEurope des vingt-cinq.
Dès lorigine, le débat à propos de la directive services na cessé dentremêler chicaneries de techniciens et controverses sur les principes. La discussion de fond peut cependant se ramener à trois questions : faut-il ouvrir les marchés des services à la concurrence ? Selon quelles bases organiser la compétition entre prestataires appartenant à des pays de niveaux de développement très distants ? Lunification du droit doit-elle reposer sur le principe du pays dorigine ? Reprenons-les successivement.
Lobjectif, dabord. Longtemps abrité de la concurrence internationale, le secteur des services est encore souvent vu comme un refuge. Dans la distribution ou la banque, ce ne sont pas les producteurs chinois qui dictent les prix, et la pression à la réduction des coûts est moindre que dans lindustrie. Intensifier la concurrence intra-européenne, cest engager là aussi la course à la productivité et à la rentabilité. Le faut-il ?
La réponse est dans les chiffres. Depuis dix ans, la productivité du travail en Europe a nettement ralenti denviron un point par an en moyenne alors quelle accélérait aux Etats-Unis denviron un point aussi. Cest de là quest venu lécart de croissance qui sest creusé entre les deux continents. Or la plus grande part de ce ciseau sest jouée dans le secteur des services.
Il est parfaitement légitime de tenir cette évolution pour bienvenue. Lobjectif de la politique économique nest certainement pas de maximiser la croissance, mais le bien-être, ce qui peut impliquer des choix sociaux non-productivistes. Mais au cours des prochaines décennies, les gains de productivité vont devoir financer à la fois la progression du pouvoir dachat et laccroissement de la charge des retraites. Rester sur les tendances actuelles, ce nest donc pas seulement accepter que notre revenu par tête continue de décrocher de celui des Etats-Unis ; cest aussi se résigner à une progression quasi-nulle du pouvoir dachat des actifs.
Pour réveiller la productivité dans les services, la concurrence internationale nest ni le seul moyen, ni même toujours le plus important. Dans bien des secteurs, une intensification de la concurrence interne (par exemple, une modification des règles de lurbanisme commercial) produirait le même effet. Les travaux de Marc Mélitz, de Harvard, nous ont cependant appris que louverture extérieure est une machine à productivité : lorsque les barrières aux échanges sont levées, les entreprises les plus productives et celles qui proposent de nouveaux produits grandissent, les moins productives et celles qui ne se renouvellent pas disparaissent. Maintenir sous protection un secteur quun marché intégré pourrait aiguillonner, revient ainsi à se priver dun instrument important pour redresser la croissance européenne.
Ce nest donc pas au nom dun principe abstrait dintégration que lEurope a besoin dune loi-cadre sur les services, cest parce que la constitution dun marché unique serait, dans ce domaine aussi, porteuse de croissance.
Les conditions de la concurrence, ensuite. Dans léchange des biens, nous nous sommes habitués à ce que le marché international mette en communication des pays de niveaux de développement très différents. Et nous considérons comme acceptable, ou du moins inévitable, quun ouvrier hongrois coûte, et donc à peu de choses près gagne, le quart de son homologue français. Dune part, en effet, la productivité du travail est de plus de moitié plus faible en Hongrie quen France. Dautre part, la qualité et la notoriété des produits français permettent quils soient vendus plus cher.
En Europe centrale, où le niveau de formation de la main duvre est très élevé, ces écarts ne proviennent pas, ou pas principalement, des caractéristiques des travailleurs. Ce sont léquipement, lorganisation des entreprises, ou les infrastructures qui, pour lessentiel, limitent la productivité du travail. Ce sont le retard dinnovation ou labsence de marques reconnues qui empêchent les producteurs de valoriser leurs produits dans léchange.
Ces écarts ne touchent dailleurs pas tous les travailleurs : les ouvriers tchèques de VW produisent autant de valeur que ceux de Wolfsburg. Mais ici encore, nous considérons comme souhaitable que les rémunérations dune multinationale nexcèdent pas trop celles des entreprises locales. Cest ce qui nous paraît le plus juste (en vertu du principe « à travail égal, salaire égal ») et aussi le plus propice à attirer des capitaux et à promouvoir le développement.
Transposons maintenant ce raisonnement dans le domaine des services. Rien ne change
sauf quil faut désormais déplacer le travailleur pour quil preste le service. Sont ainsi mis en contact deux marchés du travail, directement cette fois. Quelles normes faut-il alors appliquer ? Celles du pays dorigine ou celles du pays de destination ?
Tout dépend du marché du travail auquel appartient ce travailleur. A un extrême, limmigrant résident appartient totalement au marché du travail de son pays daccueil. Rien ne justifierait de le traiter différemment des autres salariés. A lautre, celui qui effectue une mission ponctuelle à létranger relève intégralement du marché de son pays dorigine et il serait absurde dindexer sa rémunération ou ses conditions de travail sur celles du pays où il intervient. Entre les deux, il y a quantité de situations intermédiaires au milieu desquelles la législation trace une frontière, nécessairement quelque peu arbitraire. Cest ce que fait la directive de 1996 sur les travailleurs détachés, selon laquelle au-delà de missions de très courte durée, le droit social du pays daccueil sapplique.
Par delà une préoccupation déquité (imagine-t-on possible que deux salariés effectuant durablement le même travail au même endroit relèvent de deux systèmes de normes sociales distincts ?) cette distinction se justifie dun point de vue économique. Lentreprise qui opère dans un pays avancé a, de ce fait, accès à tout ce qui fait la productivité de ce pays. Il est logique quen contrepartie elle applique ses normes sociales.
Reste que lapplication de ces principes a nécessairement tout du casse-tête. Laffaire des salariés lettons en Suède, dont lentreprise ne se disait pas tenue par des conventions collectives qui navaient pas fait lobjet dextension, en est lillustration. Nul doute que ces cas vont se multiplier. Cest pourquoi la législation doit être aussi précise que possible.
Les principes, enfin. Dans ce contexte, sur quelle base organiser la concurrence ? Depuis lorigine, le droit communautaire repose sur un principe de non-discrimination qui interdit à un Etat de faire obstacle à loffre dun service au seul motif que lentreprise prestataire provient dun autre pays. En pratique, cependant, les Etats ont trouvé mille moyens de restreindre la concurrence en imposant des obligations telles que lenregistrement ou louverture dun bureau dans le pays. Ces dispositions sont régulièrement annulées par la Cour de justice, mais au cas par cas. Cest pour cette raison que la Commission européenne avait proposé un texte de portée générale destiné à éliminer dun coup toutes les entraves que la Cour abattait une par une. En prévoyant que toute entreprise régulièrement établie dans lun quelconque des vingt-cinq Etats membres pourrait ipso facto prester ses services dans les vingt-quatre autres cest ce quon appelle le principe du pays dorigine elle pensait ainsi résoudre le problème.
Il y a cependant une différence notable entre non-discrimination et principe du pays dorigine. Dans le premier cas, un Etat peut, par exemple pour des motifs de sécurité des consommateurs, fixer des obligations réglementaires à toutes les entreprises prestataires, nationales ou étrangères. Dans le second, il ne le peut pas. Bien entendu, beaucoup de ces obligations protègent moins les consommateurs des malfaçons que les prestataires en place de la concurrence interne ou externe mais pas toujours. Le risque dune application directe du principe du pays dorigine était quà la manière des centres financiers offshore, certains pays adoptent des réglementations laxistes pour favoriser linstallation dentreprises de service sur leur territoire.
Le compromis intervenu la semaine dernière entre Evelyne Gebhardt et Malcom Harbour, les porte-parole du PSE et du PPE sur le sujet, change de logique. Les deux parlementaires européens proposent de réaffirmer le principe de non-discrimination, mais de substituer au principe du pays dorigine une liste de dispositions interdites, parce quelles en constitueraient à lévidence une violation directe. Il serait ainsi interdit dimposer aux entreprises prestataires louverture de bureaux dans le pays ou une procédure denregistrement auprès des autorités. En revanche, les Etats conserveraient le droit de fixer des obligations générales applicables à lensemble des prestataires sur leur territoire, ce qui éliminerait le risque de concurrence réglementaire.
Que peut-on attendre de ce compromis ? Sil est adopté, un ensemble de réglementations protectionnistes tomberont dun seul coup
et une part dentre elles seront vraisemblablement recréées sous une forme déguisée. Il y aura donc un effet douverture, suivi par linstauration, dans un certain nombre de pays, de freins à la concurrence. Toutefois beaucoup de ces nouvelles dispositions seront portées devant la cour de justice, qui les annulera. Au total, le choc concurrentiel sera amoindri au regard de celui quaurait provoqué la directive Bolkestein, mais il sera réel et durable.
Le compromis Gebhardt-Harbour offre ainsi, sur un terrain très controversé, une solution équilibrée qui concilie intensification de la concurrence et protection contre les risques de la concurrence réglementaire. Ceux quinquiétait ladoption sans précaution du principe du pays dorigine sy rallieront sans doute. Ceux qui sont en réalité hostiles à lidée même détendre la concurrence au domaine des services ne seront évidemment pas satisfaits. Mais au moins les motifs de leur réserve seront-ils désormais apparents.
Lavoce è di tutti: sostienila!
Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!
Lascia un commento