Il caso Telecom Italia, anche con il cambio al vertice della società, è lontano dalla conclusione e apre una lunga serie di questioni. La separazione fra rete e servizio (approvata dal consiglio d’amministrazione e, in precedenza, suggerita impropriamente da un consulente del premier) può comportare il rischio di bloccare future innovazioni. E, nel caso si proceda allo split, c’è da chiedersi se proprio lo stato sia il soggetto più adatto a possedere la rete. Sul discutibile progetto di separazione della telefonia mobile da quella fissa e sul rischio che Tim finisca sotto controllo estero alcune considerazioni portano a concludere che un passaggio in mani straniere non rappresenterà un duro colpo alla competitività economica italiana.
Una cosa è certa: questa vicenda mette ancora una volta in luce la fragilità del capitalismo italiano e l’assenza di un disegno di policy making. E l’utilizzo dei poteri speciali del governo nelle società privatizzate non è proponibile nel caso Telecom: l’Europa e la giurisprudenza hanno avviato la golden share sul viale del tramonto.
C’è un altro aspetto che merita approfondire: il presidente del consiglio ha lamentato di non essere stato informato preventivamente dei progetti dell’impresa telefonica. Ma ne aveva davvero il diritto? Una analisi delle norme a tutela della trasparenza del mercato mostra che il presidente di Telecom, se avesse rivelato i piani al premier, avrebbe rischiato l’illecito penale: insider trading.
Sulla tutela del mercato, in particolare delle minoranze azionarie, appare in evidenza come la legislazione vigente non consegni loro strumenti efficaci per contrastare operazioni che cambiano radicalmente la struttura del gruppo. A presidio degli interessi di tutti i soci rimangono gli amministratori indipendenti.

Le reti tra pubblico e privato, di Carlo Scarpa

La vicenda di Telecom Italia e della eventuale separazione della rete Tlc è tanto sentita da richiedere probabilmente qualche chiarimento. Se in precedenza ho trattato più in generale il tema delle politiche industriali di questo governo (LINK SCARPA LATEST), conviene tornare ora sulla questione più specificamente di attualità, anche per rispondere a tanti commenti a quel mio articolo.

Pubblico e privato: lasciamo perdere le guerre di religione…

Il tema della preferibilità del pubblico rispetto al privato credo debba essere trattato in modo non ideologico. Almeno qui, evitiamo tenzoni sui massimi sistemi.
Giusto per focalizzare il problema, ricordo che per discuterne gli economisti fanno riferimento a una figura ideale, quella del cosiddetto dittatore benevolente, ovvero di un soggetto (“lo Stato”) che ha tutto il potere (per questo un “dittatore” – termine che in questo contesto non si oppone a quello di democrazia) e che lo usa nel migliore interesse collettivo (quindi, “benevolente”). Sul fatto che tale dittatore benevolente (se fosse talmente potente da avere anche tutte le informazioni rilevanti) sarebbe il modo più efficiente di gestire l’economia, credo tutti gli economisti (anche i più liberisti) sarebbero d’accordo.
Purtroppo, al di là della evidente difficoltà di disporre in un unico “ufficio” di tutte le informazioni rilevanti per il sistema economico, il problema è che nessun governo è del tutto onnipotente o pienamente benevolente. Il fatto che all’interno delle imprese di proprietà pubblica si facciano spazio obiettivi diversi dal benessere sociale è ben noto anche nella letteratura internazionale. Alcuni di questi fini possono essere “nobili”, per quanto impropri, ad esempio lo sviluppo delle aree più arretrate. Altri, certo, lo sono di meno, si pensi al clientelismo. In Italia è stato per molti decenni una prassi generalizzata e con pochi limiti. E ancora oggi paghiamo le politiche scellerate che per anni e anni hanno gonfiato le assunzioni alle Poste o alle Ferrovie.
Ma “il privato” è meglio? I confronti internazionali non danno conforto né a questa tesi né a quella opposta (in tanti paesi il settore pubblico non è gestito per niente male). Temo che la risposta “pratica” non possa che appoggiarsi su quanto ciascuno di noi crede del settore pubblico italiano, ovvero se sia effettivamente riformabile rispetto al passato e gestibile in modo efficiente. Io sono scettico, e molto, ma posso capire che altri la pensino diversamente.
Ricordo la vecchia battuta di Giulio Andreotti, secondo il quale esistono due tipi di pazzi, quelli che si credono Napoleone e quelli che credono di riformare le Ferrovie dello Stato (e temo che qualcosa di simile valga per Alitalia). Al di là delle battute, l’interrogativo sulla possibilità di gestire in modo efficiente il sistema pubblico italiano, con la mentalità della nostra amministrazione, i contratti di lavoro del settore pubblico, la “sensibilità” del mondo politico nazionale alle spinte dei diversi “portatori di interessi” attorno a queste imprese è molto serio. Vorrei che i fautori del ritorno al pubblico ricordassero perché a un certo punto in Italia si è cercato di privatizzare tutto il privatizzabile. Fu una questione di debito pubblico, ma non solo, non dimentichiamolo.
Temo che in Italia il settore pubblico non sarà mai gestito come vorremmo, ma è evidentemente una mia valutazione sulla base dell’esperienza nazionale e della cultura politica del nostro paese, non una verità assoluta. Anche perché a fronte di un dittatore benevolente che non esiste, dovremmo avere un regolatore la cui “benevolenza” (diciamo disinteresse) non è certo assicurata. Il confronto è comunque tra alternative imperfette.

Le reti in Italia: pubblico e privato

Andando nello specifico, ha senso lamentarsi della inefficienza delle reti private in Italia? Attenzione perché di grandi reti veramente private ce ne sono solo due: telecomunicazioni e autostrade. Il resto fa sempre riferimento o a imprese in massima parte di proprietà pubblica locale (acqua) o a imprese il cui vertice è nominato dal governo italiano (ferrovie, energia elettrica e gas), direttamente o con il concorso della Cassa depositi e prestiti.
E queste reti private funzionano davvero male? Quella di telecomunicazioni non sarà perfetta, ma non può certo dire che sia scadente. Sulla banda larga si può fare di più, questo è sempre vero, ma in generale i confronti con altri paesi avanzati (si vedano ad esempio, i rapporti Ocse) non ci vedono certo perdenti.
Le autostrade? Qui qualche punto dolente c’è, e sono il primo a dirlo. Ma notate che si è fatta una privatizzazione senza autorità di regolazione (LINK …). Non è facile dire se alcune inefficienze sono dovute alla proprietà privata dell’attuale gestore (prima era meglio? Siamo sicuri?) o non piuttosto alla assenza di un’Autorità di regolazione dei trasporti. Che era prevista nel programma dell’attuale maggioranza e speriamo sia istituita. Dare la colpa al privato temo non sia possibile: in mancanza di controlli pubblici degni di questo nome, il fatto che un monopolista privato non si comporti in linea con gli interessi della collettività non deve certo sorprendere.

Le reti e lo sviluppo della concorrenza

Per quanto attiene invece lo sviluppo della concorrenza, rilevano almeno due aspetti, che molti tendono a confondere, ovvero (i) la separazione tra rete e servizi e (ii) la proprietà della rete (pubblica o privata). Conviene analizzarle separatamente.
Il cosiddetto progetto Rovati (in sé discutibile, ma non scandaloso) contiene la proposta di separare la rete dal servizio, al fine di favorire la concorrenza tra chi voglia utilizzare la rete per fornire servizi. Il principio è di facile enunciazione, ma non sempre di facile applicazione. Per fare un esempio, nel gas è facile identificare la rete (i tubi) e separarla dal servizio (l’approvvigionamento del gas, e poi la vendita). Nella telefonia, invece, la rete è “bi-direzionale”, ovvero connette utenti, che acquistano non un bene (come il gas) ma soprattutto il servizio stesso di connessione (a un’altra utenza, a una banca dati, e così via).
Quale è il confine tra “rete” e “servizio”? I servizi offerti dalle imprese di telefonia sono strettamente legati alle infrastrutture, tanto che qualcuno sostiene che la rete “è” il servizio. Anche se questa è probabilmente una visione estrema, tracciare una demarcazione tra infrastruttura e servizio è estremamente delicato, con ampi margini di arbitrarietà. Ma c’è di peggio. Come è ormai riconosciuto anche da appositi comitati Ocse, la separazione della rete – in generale, si pensa a quella locale, il cosiddetto local loop o “ultimo miglio” – può danneggiare l’innovazione.
Immaginiamo infatti di separare oggi la rete dal servizio, secondo criteri che oggi possiamo ritenere ragionevoli, e che quindi separeranno alcune funzioni e infrastrutture, attribuite alla “rete”, e altre “adiacenti” che invece saranno assegnate all’impresa di servizio. Se domani emergesse una possibile innovazione che però richieda di svolgere congiuntamente le due funzioni separate in precedenza, avremmo un problema. In altri termini, il confine tra rete e servizio (oltre a essere arbitrario) si sposta nel tempo in un modo che è difficile prevedere. E ingessare la situazione – separando le due cose – rischia di bloccare future innovazioni. A tutto danno dei consumatori.
Non credo si possa dire in assoluto che la separazione è “bene” o “male”, ma senza dubbio presenta rischi da non sottovalutare in un settore molto innovativo come le telecomunicazioni.
L’ultimo aspetto della proposta è quello della proprietà pubblica della rete (separata). A che serve? A garantire i concorrenti? Ma se la rete è già separata dal servizio, che dubbio abbiamo? Il gestore della rete che non operi nei servizi di telefonia sarà strutturalmente neutrale, la proprietà pubblica che cosa aggiunge?
Potrebbe aggiungere forse qualche garanzia sugli investimenti? La risposta è sì solo se crediamo nel dittatore benevolente. Ma se guardiamo la storia dei programmi di investimento, ad esempio delle Ferrovie dello Stato, la percezione è un po’ diversa. Per decenni non si è investito dove serviva, ma dove era politicamente opportuno, secondo criteri che prescindevano dalle esigenze del sistema di trasporti e risultavano solo funzionali a consolidare il consenso politico. Non dico che debba essere necessariamente, sempre così. Ma non facciamoci illusioni.

Fragili capitalisti e politici senza “policy”, di Marcello Messori

La recente vicenda di Telecom Italia ha reso ancora più evidenti le debolezze del nostro sistema politico ed economico: la fragilità di un capitalismo con pochi capitali e con carenza di grandi imprese, il rischio di subordinazione delle strategie industriali ai vincoli finanziari, la minaccia di invasioni della politica nelle scelte societarie, la mancanza di un efficiente policy making. Dopo le dimissioni di Marco Tronchetti Provera e di Angelo Rovati, sarebbe però inutile tornare sugli episodi che denunciano queste debolezze. Mi sembra invece più proficuo trarre da tali episodi qualche insegnamento per il futuro.

Liberalizzazioni e privatizzazioni

Nel sistema economico italiano vi sono ancora molti mercati dei servizi da liberalizzare e molte imprese da privatizzare. L’esperienza degli anni Novanta mostra però che, specie nei servizi a rete, le privatizzazioni senza adeguate liberalizzazioni e ri-regolamentazioni finiscono per sostituire monopoli pubblici con quasi-monopoli privati e per alimentare, così, ampie posizioni di rendita e di potere a danno dei consumatori e, talvolta, degli azionisti di minoranza. La passata esperienza mostra inoltre che, per acquisire posizioni di rendita, non serve perseguire efficienti strategie industriali: almeno nel breve periodo, è vincente costruire complessi meccanismi di ingegneria finanziaria.
Sotto questo profilo la storia di Telecom Italia, a partire dall’Opa di Roberto Colaninno ed Emilio Gnutti, appare emblematica: quando non è più possibile scaricare il debito sulla società acquisita, i vincoli finanziari diventano così stringenti da spingere alle dismissioni o a scelte produttive a rischio elevato. Infatti, indipendentemente dall’evoluzione futura delle telecomunicazioni, non è definibile altrimenti la repentina svolta gestionale di Tronchetti Provera destinata a sacrificare la fonte principale di redditività societaria per un’incerta scommessa futura.
Tale giudizio critico non implica, però, che sia compito del governo interferire con le scelte effettuate da una società privata e approvate dai rappresentanti dei suoi azionisti. Anche se si tratta di un grande gruppo che svolge attività rilevanti, le eventuali iniziative microeconomiche del governo devono avere portata più generale e non devono distorcere né i flussi informativi né il funzionamento del mercato. In positivo, il sistema politico ha poi l’occasione di apprendere una lezione importante: come evitare che le future e necessarie privatizzazioni e liberalizzazioni portino a risultati così negativi. Gli elementi da apprezzare sono, al riguardo, svariati: dall’importanza di un’efficace regolamentazione all’alta probabilità di fallimento del mercato italiano degli assetti proprietari.

Interventi di policy

Anche se stigmatizza le interferenze politiche, quanto fin qui detto non esclude che le vicende di Telecom Italia richiedano interventi di politica industriale e dei servizi.
Due sono gli interrogativi da porsi al riguardo. Le attività di telefonia mobile sono strategiche perché producono “esternalità” insostituibili per altre imprese nazionali? Oltre a essere un monopolio naturale, una parte almeno della rete di telefonia fissa ha un potenziale innovativo per il resto del sistema economico italiano?
La risposta alla prima domanda è negativa. Anche se la scelta di scorporare Tim da Telecom è discutibile in termini di strategia aziendale e anche se la possibile cessione di Tim escluderà l’Italia da ogni controllo proprietario nella telefonia mobile, ciò non peserà negativamente sulla (già bassa) competitività del nostro sistema economico a livello internazionale. Il mercato italiano della telefonia mobile è troppo rilevante per essere sacrificato a seguito di cambiamenti proprietari dal lato dell’offerta del servizio. Ed è troppo maturo per stimolare innovazioni strategiche sul piano distributivo.
Più complessa è, invece, la risposta alla seconda domanda. La rete di telefonia fissa necessita di rilevanti investimenti che potrebbero produrre innovazioni di sistema; tali investimenti non sono, però, realizzabili nel lungo periodo da un’impresa con forte indebitamento e a controllo famigliare. Per di più la liberalizzazione del mercato di qualsiasi servizio, in cui la rete costituisce (in tutto o in parte) un monopolio naturale, richiede che l’incumbent ne perda il controllo diretto mediante una separazione proprietaria o una separazione societaria fortemente regolamentata. Nonostante la forte sovrapposizione fra “rete” e “servizio” esaminata da Carlo Scarpa (LINK), la persistente posizione dominante di Telecom nel mercato interno suggerisce che ciò vale anche per la telefonia fissa. Vi è quindi spazio per interventi di policy che, data la debolezza del mercato italiano degli assetti proprietari, potrebbero anche sfociare in un controllo proprietario pubblico della rete.
La Cassa depositi e prestiti non offre, però, facili soluzioni. La Cdp è controllata dallo Stato; funge da holding di partecipazione di società di servizio sotto il controllo statale; detiene la maggioranza relativa della rete elettrica. Se diventasse la proprietaria delle maggiori infrastrutture a rete del paese, si determinerebbe un gravissimo conflitto di interesse fra Stato proprietario e Stato regolatore. La soluzione del problema non passa certo per le interferenze governative nelle decisioni manageriali di Telecom Italia. Per acquisire o mantenere il controllo proprietario delle reti mediante la Cdp (o in via diretta), lo Stato dovrebbe dismettere le quote di controllo o le quote azionarie rilevanti detenute, direttamente o indirettamente, nelle società di servizio a rete (in primo luogo, in Enel ed Eni); e dovrebbe poi disegnare, in modo coerente e trasparente, i nuovi compiti della Cdp.

Il policy making

Resterebbe da chiedersi come mai un governo, che pure ha avviato promettenti processi di liberalizzazione, abbia mostrato tanti limiti nella recente vicenda di Telecom Italia. Qui avanzo due sole considerazioni, strettamente economiche.
La debolezza delle residue grandi imprese italiane e la povertà dei nostri servizi avanzati, che spiegano larga parte della negativa dinamica della produttività (variamente misurata), mettono a nudo limiti di funzionamento del mercato e sollecitano interventi di policy. Il governo è continuamente tentato di rispondere a tali sollecitazioni; pur disponendo di tre dicasteri economici con competenze importanti e di strutture di coordinamento presso la presidenza del Consiglio, non sembra però aver definito forme di intervento trasparenti e non distorsive. Un anello mancante, al riguardo, è un adeguato disegno di policy making.

Rischio insider trading, di Luigi Foffani

La bufera economico-politica scatenatasi con l’annuncio del piano di ristrutturazione del gruppo Telecom e culminata con le dimissioni del presidente Marco Tronchetti Provera suscita alcuni inquietanti interrogativi anche sotto il profilo penale, per quanto riguarda la valutazione dei flussi informativi (reali o virtuali) che l’hanno caratterizzata. Ciò non interessa tanto la prima parte della storia, ossia il famoso documento riservato di “suggerimenti” o indicazioni per la ristrutturazione del gruppo indirizzato a Telecom da parte del consigliere economico della presidenza del Consiglio – documento il cui apprezzamento rimane nella sfera dell’opportunità politica – quanto piuttosto la fase successiva, ossia la mancata informazione da parte dei vertici Telecom nei confronti del governo in ordine ai contenuti specifici del piano di riassetto, in particolare per quanto riguarda l’ipotesi di uno scorporo di Tim da Telecom.

Informazione doverosa o vietata?

Lo “sconcerto” manifestato pubblicamente dal presidente del Consiglio dei ministri e le critiche rivolte da alcuni organi di stampa al comportamento dei vertici Telecom (1) dovrebbero indurre ad alcune riflessioni più meditate, in quanto eventuali comunicazioni riguardanti operazioni di ristrutturazione societaria di tale importanza strategica, coinvolgenti società con azioni quotate in borsa, apparterrebbero in realtà a una sfera informativa particolarmente delicata e problematica, suscettibile persino di assumere rilevanza penale ai sensi della normativa sull’insider trading.

La disciplina penale dell’insider trading

Integra infatti il delitto di insider trading – ovvero, “abuso di informazioni privilegiate” – il comportamento di colui che, “essendo in possesso di informazioni privilegiate in ragione”, fra le altre ipotesi, “della sua qualità di membro di organi di amministrazione” di una società emittente titoli quotati, opera “su strumenti finanziari utilizzando le informazioni medesime”, o anche si limita a comunicare “tali informazioni ad altri, al di fuori del normale esercizio” delle proprie funzioni, ovvero “raccomanda o induce altri, sulla base di esse, al compimento di taluna” operazione di mercato. Come si vede, non è necessario un vero e proprio abuso (diretto o indiretto) dell’informazione privilegiata, ma è sufficiente a integrare il reato il puro e semplice fatto di comunicare ad altri – a soggetti cioè non legittimati a ricevere tale comunicazione – una “informazione privilegiata”, intendendo per tale – secondo quanto precisato dallo stesso legislatore (articolo 181 Tuf) – “un’informazione di carattere preciso, che non è stata resa pubblica, concernente, direttamente o indirettamente, uno o più emittenti strumenti finanziari, che, se resa pubblica, potrebbe influire in modo sensibile sui prezzi di tali strumenti finanziari”.
Non vi è dubbio, nel caso di specie, che il progetto dei vertici Telecom di procedere alla scissione della società di gestione della telefonia mobile e delle strutture di accesso alla rete fissa rappresentasse di fronte al mercato – e ha rappresentato fino al momento in cui non è stata divulgata al pubblico – una “informazione privilegiata” concretamente suscettibile di “influire in modo sensibile sui prezzi” delle azioni Telecom. Dunque, una informazione rispetto alla quale incombevano sul presidente di Telecom – e sugli altri amministratori a conoscenza della notizia – tutta la serie di obblighi sanciti dalla norma penale, fra i quali il divieto di comunicare a terzi l’informazione.

Insider trading e “golden share” nelle società privatizzate

Occorre a questo punto chiedersi se possa mai fare eccezione a questo generale divieto la comunicazione nei confronti delle autorità di governo, considerata soprattutto come funzionale all’eventuale esercizio dei “poteri speciali” (la cosiddetta “golden share“) riconosciuti al ministro del Tesoro dalla legislazione sulle privatizzazioni: è vero infatti che fra i poteri speciali attribuibili al ministro ex articolo 2 decreto legge 31 maggio 1994, n. 332 (convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 1994, n. 474) figurava anche un potere di veto su operazioni societarie considerate strategiche, fra le quali venivano espressamente menzionate anche le delibere di scissione di società; ma dal riconoscimento in astratto di un tale potere (3) non sembra che possa facilmente evincersi l’esistenza di un obbligo (e nemmeno di una facoltà) di informazione preventiva dell’autorità governativa circa eventuali progetti di operazioni strategiche non ancora approvati dal consiglio di amministrazione delle società interessate e resi noti al pubblico. Di fonte dunque alla difficoltà di individuare una norma che preveda (esplicitamente o anche solo implicitamente) un obbligo o una facoltà tale da incrinare il rigore del divieto di comunicazione stabilito dalla disciplina repressiva dell’insider trading, il dubbio sulla legittimità di una comunicazione come quella che si lamenta non essere avvenuta nei rapporti fra presidenza Telecom e presidenza del Consiglio dei ministri appare in realtà più che consistente.
Ricordiamo, per concludere, che la normativa penale sull’insider trading e le sue rigorose sanzioni (4) non rappresentano una sorta di “gabbia” per la libertà di manovra degli operatori di mercato imposta arbitrariamente da un legislatore nazionale iper-vincolista. Costituisce, tutto al contrario, una garanzia essenziale dell’affidabilità e serietà del mercato finanziario, imposta da una precisa e dettagliata scelta del legislatore comunitario, che con due direttive – la prima risalente al novembre 1989 e la più recente del gennaio 2003 (5) – ha imposto ai paesi membri l’adozione di misure sanzionatorie efficaci, proporzionate e dissuasive contro il fenomeno dei cosiddetti “abusi di mercato” (abusi di informazioni privilegiate e manipolazioni del mercato), considerati come gravi ostacoli all’efficienza del mercato e alla libertà e lealtà della concorrenza.
Alla luce di tali rigorose regole di derivazione comunitaria debbono pertanto essere verosimilmente ripensati anche certi costumi e abitudini, nelle relazioni fra imprenditori e politici, che in altra epoca (l’epoca dello “Stato-imprenditore”, anziché dello “Stato-regolatore”) potevano forse apparire come normali, o addirittura iscriversi in una sorta di tacito “galateo istituzionale”, e che oggi potrebbero viceversa rischiare di sconfinare nell’illiceità penale.

(1) Vedi ad esempio M. Giannini, “Profitti privati e perdite pubbliche”, in La Repubblica, 13 settembre 2006, p. 1 e 18, che accenna esplicitamente a un “dovere di informazione” del gestore della rete telefonica nei confronti dello Stato in ordine a piani di ristrutturazione societaria di tale dimensione.
(2) Articolo. 184 del Testo unico sull’intermediazione finanziaria, così come riformato dalla legge comunitaria 2004 (L. 18 aprile 2005, n. 62), in attuazione della direttiva Ce sugli abusi di mercato.
(3) Potere che non risulta peraltro richiamato dall’ultimo intervento legislativo in materia di privatizzazioni: cfr. in proposito l’art. 1, commi 381-384, della legge Finanziaria 2006 (l. 23 dicembre 2005, n. 266).
(4) L’art. 184 Tuf prevede per il delitto di “abuso di informazioni privilegiate” la pena della reclusione da uno a sei anni, congiunta alla multa da 20.000 a 3.000.000 di euro
(5) Direttiva 89/592/Cee del 13 novembre 1989, sul coordinamento delle normative concernenti le operazioni effettuate da persone in possesso di informazioni privilegiate (insider trading) e direttiva 2003/6/Ce del 28 gennaio 2003, relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (abusi di mercato).

Quella golden share che brilla sempre meno, di Lorenzo Stanghellini

La statuto di Telecom Italia contiene una “golden share”, che dà al governo poteri speciali in caso di riorganizzazioni societarie e ingresso di nuovi soci. Anche se volesse farlo, tuttavia, il governo non potrebbe impedire il riassetto di Telecom. Vediamo perché.

Dalle partecipazioni statali alle privatizzazioni

Chi possiede il pacchetto di maggioranza di una società ha diritto di indirizzarne le scelte. La minoranza ha diritto di controllare tali scelte e di resistervi se le ritiene inopportune, ma se esse sono legittime, per i soci di minoranza (a meno che non formino un blocco compatto) c’è poco da fare.
Queste regole valgono, in linea di principio, anche per le società a partecipazione pubblica. Qualsiasi governo, tuttavia, riserva un’attenzione particolare alle imprese che operano in alcuni settori economici ritenuti vitali per gli interessi dello Stato: difesa, telecomunicazioni, trasporti, energia. In Italia, l’attenzione per questi settori era in passato così elevata che lo Stato vi faceva operare, in monopolio o in regime di concorrenza (spesso comunque calmierata), società ed enti posti sotto il suo controllo, vigilate all’interno del più ampio sistema delle cosiddette partecipazioni statali. In questo modo il problema di scelte di soci e amministratori che fossero contrarie agli interessi statali neppure si poneva: lo Stato era l’imprenditore, o comunque lo controllava strettamente.
Quando negli anni Novanta il sistema delle partecipazioni statali è fallito (talvolta letteralmente: si pensi al disastro dell’Efim), e il bisogno di incassi da privatizzazioni si è fatto disperato, l’indirizzo politico è cambiato: le grandi società in mano pubblica sono state via via privatizzate, incluse quelle operanti nei settori giudicati strategici per gli interessi del paese. Lo Stato ha dunque dovuto cercare di tutelare gli stessi vitali interessi disponendo però solo di una partecipazione di minoranza, o addirittura avendo venduto tutte le proprie azioni.
Una missione apparentemente impossibile, se non fosse per uno strumento di cui nessun privato può disporre.

“Golden share” e poteri speciali

Già il codice civile del 1942 consentiva allo Stato e agli enti pubblici il diritto di nominare direttamente alcuni amministratori e sindaci. Ciò, tuttavia, non era sufficiente, e lo strumento che venne scelto nel 1994 fu quello di attribuire al governo (o in certi casi agli enti locali, su società di servizio pubblico quali trasporti ed energia operanti sul suo territorio) dei “poteri speciali” sulle società da privatizzare. (1) Nel loro complesso vengono definiti come “golden share” (“azione speciale”), ma non richiedono in realtà che lo Stato (o l’ente pubblico) sia effettivamente azionista (anche se di minoranza): si tratta infatti di prerogative pubbliche, che lo statuto delle società “a sovranità limitata” incorpora e riconosce.
Tali poteri speciali, all’epoca delle grandi privatizzazioni degli anni Novanta (Eni, Telecom, Enel), consistevano:

a) nel diritto di impedire che soci sgraditi acquistassero le azioni e superassero una “soglia di attenzione” (a seconda dei casi fra il tre e il cinque per cento). Analogo potere lo Stato si è poi riservato nei confronti di coalizioni che si formino fra azionisti separati;
b) nel diritto di opporsi a decisioni fondamentali per il destino della società, quali fusioni, scissioni, trasferimenti d’azienda, trasferimenti della sede all’estero, e simili;
c) nel diritto (già previsto dal codice civile) di nominare uno o più amministratori (fino a un quarto del totale) e sindaci della società.

Nel dare al governo i poteri speciali, l’Italia non era sola: lo stesso (seppur con diversi accenti) hanno fatto il Regno Unito, la Francia, la Spagna, e molti altri.

La “golden share”: uno strumento sotto attacco

Vi è però da sempre un problema: questi “poteri speciali” possono ostacolare la circolazione dei capitali all’interno del mercato comune europeo. È per questo che, da molti anni, la Commissione conduce una battaglia contro di essi, con vittorie anche significative contro i singoli Stati membri dell’Unione, condannati dalla Corte di giustizia delle Comunità europee. (2)
In conseguenza di ciò anche l’Italia, nel 1999 e quindi nuovamente nel 2003, ha limato le unghie alla golden share. (3) Sotto quattro profili:

a) sfoltendo la pletora delle società sotto tutela, riducendole a quelle che operano in settori ritenuti vitali per il paese;
b) chiarendo che i poteri speciali possono essere esercitati solo quando siano concretamente minacciati “interessi vitali” del paese;
c) disponendo che lo Stato non nomini più (veri) amministratori e sindaci, ma solo un “amministratore senza diritto di voto” (una sorta di semplice controllore ben informato, dunque);
d) specificando che il pericolo non può essere generico, ma deve riguardare l’ordine pubblico, la sanità, la difesa nazionale, l’approvvigionamento delle materie prime, la sicurezza delle reti, la continuità dei servizi pubblici essenziali, delle telecomunicazioni e dei trasporti: ipotesi gravissime ed estreme, che mal si adattano a “coprire” semplici finalità di politica economica.
Ma la tendenza al dirigismo è forte, e spesso il socio pubblico cerca di restare nella stanza dei bottoni anche quando diviene minoranza. Così, nel 2004, il comune di Milano ha ceduto la maggioranza assoluta di Aem (quotata), mantenendo però, mediante una combinazione di statuto e codice civile apparentemente astuta, il diritto di nominare la maggioranza degli amministratori. Scoperta facilmente la foglia di fico, una nuova condanna della Corte di giustizia è questione di settimane. (4)

Telecom e la “golden share”

Se questo è il quadro, nella vicenda Telecom, il cui statuto contiene una golden share (5), l’esercizio del diritto di veto sulle operazioni di scorporo della rete fissa e mobile non sembra seriamente ipotizzabile. Il governo potrebbe al massimo esigere che lo statuto della società cui è conferita la rete fissa (che ha senz’altro carattere strategico per gli interessi del paese) contenga una golden share: ciò per mantenere gli stessi poteri di salvaguardia di cui oggi dispone in caso di pericolo.
Ed anche se Tim, dopo essere stata scorporata in una nuova società, venisse poi venduta, e persino a soggetti stranieri, ben poco ci sarebbe da fare per il governo: il mercato comune è anche questo, ed Enel, società controllata dallo Stato (e non semplicemente posta sotto tutela con una golden share), vendendo Wind, ha appena fatto la stessa cosa.

(1) Legge 30 luglio 1994, n. 474.
(2) Si veda Corte di giustizia delle Comunità europee, sentenza 23 maggio 2000, causa C-58/99, Commissione/Italia. La Corte, in coerenza con precedenti pronunzie, ha ribadito che i “poteri speciali”, potendo ostacolare o scoraggiare l’esercizio delle libertà fondamentali garantite dal Trattato, devono soddisfare quattro condizioni: 1) devono applicarsi in modo non discriminatorio; 2) devono essere giustificati da motivi imperativi di interesse generale; 3) devono essere idonei a garantire il conseguimento dell’obiettivo perseguito; 4) non devono andare oltre quanto necessario per il raggiungimento di questo.
(3) Legge 23 dicembre 1999, n. 488 (art. 66, comma 3), e legge 24 dicembre 2003, n. 350 (art. 4 commi 227-231). Si veda anche, per le modalità di esercizio dei “poteri speciali”, il decreto del presidente del Consiglio dei ministri 10 giugno 2004 (in Gazz. Uff. n. 139 del 16 giugno 2004).
(4) Si vedano le conclusioni 7 settembre 2006 dell’Avvocato generale presso la Corte, nelle cause riunite C-463/04 – C-464/04, Federconsumatori e altri contro Comune di Milano (http://curia.europa.eu/jurisp/cgi-bin/form.pl?lang=it&Submit=Avvia+la+ricerca&alldocs=alldocs&docj=docj&docop=docop&docor=docor&docjo=docjo&numaff=c-464%2F04&datefs=&datefe=&nomusuel=&domaine=&mots=&resmax=100). Le conclusioni dell’Avvocato generale non vincolano la Corte, ma raramente vengono disattese.
(5) Art. 22 dello statuto di Telecom Italia spa: “Ai sensi del comma 1 dell’articolo 2 del decreto legge 31 maggio 1994, n. 332, convertito, con modificazioni dalla legge 30 luglio 1994, n. 474, come sostituito dall’articolo 4, comma 227, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, il ministro dell’Economia e delle finanze, d’intesa con il ministro delle Attività produttive, è titolare dei seguenti poteri speciali:

a) opposizione all’assunzione, da parte dei soggetti nei confronti dei quali opera il limite al possesso azionario di cui all’articolo 3 del decreto legge 31 maggio 1994, n. 332, convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 1994, n. 474, di partecipazioni rilevanti, per tali intendendosi quelle che (…) rappresentano almeno il 3 per cento del capitale sociale costituito da azioni con diritto di voto nelle assemblee ordinarie. L’opposizione deve essere espressa entro dieci giorni dalla data della comunicazione che deve essere effettuata dagli amministratori al momento della richiesta di iscrizione nel libro soci, qualora il ministro ritenga che l’operazione rechi pregiudizio agli interessi vitali dello Stato. (…). Il provvedimento di esercizio del potere di opposizione è impugnabile entro sessanta giorni dal cessionario innanzi al tribunale amministrativo regionale del Lazio;
b) veto, debitamente motivato in relazione al concreto pregiudizio arrecato agli interessi vitali dello Stato, all’adozione delle delibere di scioglimento della società, di trasferimento dell’azienda, di fusione, di scissione, di trasferimento della sede sociale all’estero, di cambiamento dell’oggetto sociale, di modifica dello statuto che sopprimono o modificano i poteri di cui al presente articolo. Il provvedimento di esercizio del potere di veto è impugnabile entro sessanta giorni dai soci dissenzienti innanzi al tribunale amministrativo regionale del Lazio. Il potere di opposizione di cui alla precedente lettera a) è esercitabile con riferimento alle fattispecie indicate all’articolo 4, comma 228, della legge 24 dicembre 2003, n. 350. I poteri speciali di cui alle precedenti lettere a) e b) sono esercitati nel rispetto dei criteri indicati dal decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 10 giugno 2004″.

Un passaggio stretto per le minoranze, di Luca Enriques

Il piano di Telecom Italia è di costituire due nuove società controllate, nelle quali confluirebbero separatamente le attività di telefonia mobile e la rete di accesso locale. Molti sostengono che queste operazioni non siano nell’interesse della società e dei suoi azionisti, bensì soltanto del gruppo di controllo.
Supponiamo in via di ipotesi che questa tesi sia fondata (ma sia chiaro che chi scrive non ha elementi per giudicare se ciò sia vero) e mettiamoci nei panni di un azionista di minoranza: quali speranze ha costui che il piano non venga portato avanti, ovvero di ottenere perlomeno il risarcimento del danno conseguente alla sua esecuzione?

Le regole di governance di Telecom Italia

L’azionista di minoranza può anzitutto contare sul fatto che quattro dei ventuno consiglieri d’amministrazione sono espressione di una lista presentata da investitori istituzionali: dovrebbero essere particolarmente sensibili all’esigenza di tutelare gli interessi di tutti gli azionisti. Non importa che si tratti di una minoranza: la presenza di amministratori (potenzialmente) combattivi, per pochi che siano, può avere effetti significativi sulle dinamiche del consiglio di amministrazione.
Inoltre, nel ben tredici sono gli amministratori che la società ha qualificato come indipendenti (inclusi tra questi i quattro di minoranza). (1) Soltanto con l’assenso di almeno una parte di questi consiglieri il piano potrà passare.
Telecom Italia si è dotata di una specifica procedura per l’approvazione delle operazioni con parti correlate, ossia che abbiano come controparti, tra gli altri, i soci che detengano più del dieci per cento delle azioni. (2) Si tratta di principi all’avanguardia nel panorama italiano.
Peccato però che il piano in questione non sarebbe una “operazione con parti correlate” e che dunque la procedura non si applicherebbe nel caso di specie (a meno di una scelta in tal senso del Cda).
Di conseguenza, si applica il codice civile, che consente anche agli amministratori in conflitto d’interessi di votare, previa dichiarazione del proprio interesse nell’operazione (articolo 2391).

L’incompetenza dell’assemblea e il rinnovo delle cariche

Un piano come quello prospettato da Telecom non richiederebbe un voto degli azionisti, poiché nessuna delle operazioni previste sarebbe di competenza dell’assemblea.
Ma la prossima assemblea annuale di Telecom fornirà l’occasione per mettere in discussione l’operato degli amministratori: il consiglio dovrà essere rinnovato e, pertanto, tanti soci che aggreghino almeno l’1 per cento delle azioni potranno presentare proprie liste di candidati.
La lista alternativa potrebbe raccogliere voti grazie a una sollecitazione di deleghe di voto (che può essere promossa da qualunque azionista in possesso almeno dello 0,5 per cento delle azioni) e potrebbe in teoria ottenere un numero di voti sufficiente a nominare la maggioranza del consiglio.
È però improbabile che il gruppo di controllo, al 18 per cento, si presenti in quell’assemblea senza alleati in numero sufficiente per eleggere uomini di propria fiducia.

I rimedi

Supponendo che il piano sia approvato dal consiglio d’amministrazione, cosa potrebbero fare gli azionisti di minoranza per evitare che sia eseguito o perlomeno per ottenere il risarcimento del danno?
L’annullamento della delibera per conflitto d’interessi potrebbe essere richiesto solo da eventuali amministratori assenti o dissenzienti o dal collegio sindacale. Il singolo azionista, quale che sia la percentuale di azioni che possiede, non vi sarebbe legittimato. (3)
La strada del risarcimento del danno può essere percorsa, nei confronti degli amministratori, da tanti azionisti che aggreghino almeno il 2,5 per cento del capitale. Non solo la percentuale è assai elevata, ma la condanna andrebbe a favore della società e non dei soci, che dunque avrebbero ben pochi incentivi ad esercitarla.
Ciascun azionista potrebbe agire nei confronti della società che esercita un’attività di direzione e coordinamento nei confronti di Telecom Italia. Quest’azione sarebbe assai complessa: occorrerebbe dimostrare qualcosa che Pirelli e Olimpia hanno sempre negato, ossia che esse esercitano un’attività di direzione e coordinamento su Telecom. Inoltre, si dovrebbe dimostrare che la società capogruppo, agendo nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui, ha violato “i principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale” (checché ciò significhi). E i convenuti potrebbero liberarsi da responsabilità dimostrando che il danno che l’azionista lamenta di aver subito in ragione del comportamento della controllante “risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento” (articolo 2497 codice civile).
Si tratta d’una azione così oscura nei presupposti che, anche a causa dell’assenza di precedenti, presenta un rischio d’insuccesso notevole, quali che siano le specifiche circostanze del caso.
In conclusione, la tutela degli azionisti di minoranza è nelle mani degli amministratori di Telecom Italia e, in particolare, di quelli indipendenti. Se questi approvano il piano (che qui per mera ipotesi e a fini espostivi si è supposto dannoso per Telecom), le strade per gli azionisti di minoranza sono due, entrambe impervie. O si coalizzano in una maggioranza alternativa nella prossima assemblea – ma i problemi di azione collettiva sarebbero enormi. O si cerca una tutela in giudizio, che, anche ignorando i tempi biblici della giustizia civile, resta limitata nei mezzi e poco promettente sul piano dei risultati.


(1)
Per essere qualificati indipendenti, gli amministratori devono essere liberi da relazioni con gli amministratori esecutivi e con il gruppo di comando tali da inficiarne la libertà di giudizio nel perseguire l’esclusivo interesse sociale.
(2) Principi di comportamento per l’effettuazione di operazioni con parti correlate (http://www.telecomitalia.it/TIPortale/docs/investor/principi_operazioni_parti_correlate.pdf).
(3) A rigore, egli potrebbe tentare di dimostrare che Telecom Italia è sotto la direzione e coordinamento del gruppo di controllo e di convincere il giudice che, essendo mancata una motivazione analitica della deliberazione (art. 2497-ter, cod. civ.), questa è annullabile perché in contrasto con la legge e come tale impugnabile dal socio che abbia subito una lesione dei propri diritti (art. 2388 cod. civ.): una strada quanto mai impervia e con ben poche chance di successo.

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