In una intervista a Massimo Mucchetti, vicedirettore del Corriere della Sera e autore de “Il baco del Corriere” (Feltrinelli), il controverso rapporto tra giornalisti e proprietà. Con un’attenzione particolare alle banche, che svolgono oggi un ruolo centrale nell’economia italiana: domani potrebbero averlo nell’editoria, ponendo di conseguenza un problema di regole. Il valore della diversità delle opinioni e il diritto di criticare anche i propri azionisti, se si ambisce a essere una voce autonoma e indipendente. La possibile soluzione dell’azionariato diffuso.

Michele Polo: La descrizione del gruppo di azionisti che controlla il Corriere della Sera attraverso il patto di sindacato che lei traccia nel suo libro (1) restituisce una geografia abbastanza fedele degli equilibri dei maggiori gruppi economici in Italia. Per gli azionisti sono più rilevanti i vantaggi diretti derivanti dalla (eventuale) possibilità di influenzare le informazioni economiche relative alle proprie aziende o mercati, oppure i vantaggi indiretti verso governo e sfera politica legati alla possibilità di influenzare l’informazione e la posizione politica del giornale?

Massimo Mucchetti: Personalmente, ritengo che chi investe in un giornale, pagando sovente un premio rispetto alle quotazioni correnti e perfino rispetto ai target price, si riproponga alla bisogna entrambi gli obiettivi. Non sempre, naturalmente, riesce a raggiungerli. Nelle imprese editoriali lavorano molte persone che prendono sul serio i doveri che derivano dal rapporto con il pubblico e giorno per giorno, nella misura in cui lo consente il funzionamento di quella macchina necessariamente gerarchizzata che è un giornale, scrivono articoli senza riverenze: senza trattenersi, com’è stato detto. E tuttavia, nel complesso, investire in un giornale serve se tanti imprenditori, compresi gli uomini nuovi, cercano in modi amichevoli e non di entrare, per esempio, in Rcs MediaGroup. Se non intervengono crisi finanziarie assai gravi, con l’establishment che minaccia di abbandonare il soggetto in difficoltà come capitò alla Gemina romitiana e alla Magiste di Ricucci, nessun azionista di imprese editoriali vende, nemmeno quando gli si offrono premi decisamente consistenti rispetto ai valori reali. Il singolo può perseguire anche obiettivi irrazionali, restare avvinto al “suo” giornale per affetto o ambizione, per senso del dovere civico o per naturale conservatorismo, ma quando il comportamento è diffuso, una razionalità – un tornaconto in qualche modo misurabile – ci dovrà pur essere. Basta sfogliare, del resto, le collezioni dei giornali per capire come l’influenza delle proprietà si esercita: è sufficiente guardare che cosa diventa oggetto di informazione aggressiva e che cosa di informazione, per così dire, obiettiva; che cosa offre lo spunto al commento tempestivo e pugnace e che cosa non viene commentato mai o solo a babbo morto; dove si cerca il retroscena, il documento giudiziario, l’immagine piccante e dove quest’ansia investigativa vien meno.

M.P. Ritiene che esistano differenze intrinseche, e potenzialmente più pericolose per l’indipendenza dei giornali, nelle partecipazioni bancarie rispetto a quelle industriali?

M.M. Questo è il punto più delicato del “Baco del Corriere”. La presenza delle banche nel capitale delle imprese editoriali era, sostanzialmente, vietata fino al 1993 in ottemperanza alla legge bancaria del 1936 e alle delibere del Cicr prese tra il 1970 e il 1977 che decretavano la separazione tra banche e imprese. Come ricorda Carlo Azeglio Ciampi nella testimonianza che mi ha reso per il libro, la separazione valeva per le imprese e, a maggior ragione, per le imprese editoriali. Perché il presidente emerito della Repubblica dice “a maggior ragione”? Perché le banche hanno un ruolo centrale nell’economia italiana. Sono le banche a procurare la maggior parte dei capitali con i quali gira l’economia. Negli Stati Uniti non è così. Là è la Borsa a concorrere in modo decisivo al finanziamento dell’impresa. Ma l’Italia è l’Italia. E non è nemmeno la Francia o la Germania dove prospera un sistema di grande impresa che può, a sua volta, influenzare le banche. L’Italia è, come si suol dire, bancocentrica. E se la stampa – ma oggi dovremmo dire l’intero sistema dei media, anche la tv, dunque, anche Internet – è il cane da guardia del sistema, l’occhio dell’opinione pubblica che talvolta previene e stimola e talvolta segue, rafforzandola, l’azione delle Autorità di vigilanza, se la stampa è tutto questo, che senso lasciarla diventare un soggetto controllato dal potere più forte dell’economia? Se poi dal testo unico bancario del 1993, che apriva alla banca universale ma ancora con precisi limiti (per esempio ponendo il tetto del 15 per cento alle partecipazioni delle banche nelle imprese), si passerà, come in effetti si sta passando, a un regime liberalizzato, il ruolo delle banche nell’editoria non rischia di diventare ancor più invasivo? Si dirà: ma oggi le imprese editoriali sono in gran parte saldamente nelle mani di ben individuati proprietari e le banche hanno una presenza rilevante, a parte gruppi minori, soltanto in Rcs MediaGroup, dove detengono un quarto del capitale. È vero. Oggi non c’è ancora un’emergenza. Ma il domani non lo conosce nessuno e l’esperienza ci dice che le imprese possono andare incontro a crisi e allora sono le banche a prendere in mano le redini. Una politica lungimirante e una Banca d’Italia consapevole delle sue responsabilità dovrebbero porsi il problema delle regole per tempo. È già accaduto che una banca, il Banco Ambrosiano di Calvi, sia subentrato a un editore in difficoltà. Stiamo a disquisire sulle muraglie cinesi che dovrebbero separare gli uffici studi dalle sale operative delle banche per timore dei conflitti d’interesse e poi lasciamo che le banche, principali venditori di titoli in nome proprio o per conto terzi, possano avere in mano addirittura i giornali? Ci occupiamo della pagliuzza e non vediamo la trave?
Detto questo, va anche riconosciuto che, oggi, le banche e gli uomini che le reggono non sono peggiori dei grandi gruppi industriali e degli imprenditori che dalla manifattura o dai servizi esposti alla concorrenza fuggono per rifugiarsi nelle attività protette, non sono peggiori dai furbi che menano le danze stando seduti in cima alle piramidi societarie che si alimentano, come diceva Einaudi, con i soldi degli stolti, e meno che mai sono peggiori dei concessionari di pubblici servizi o dei produttori sostenuti dagli aiuti di Stato. Nel “Baco del Corriere”, ho battuto il chiodo delle banche per due ragioni: 1) in prospettiva le banche, anche perché sempre più concentrate, possono rappresentare il problema più grosso; 2) le banche, proprio perché sono un po’ più impersonali del singolo industriale e perché hanno alle spalle una Banca d’Italia, che ha una capacità di pensiero superiore a quella degli imprenditori che ho conosciuto, possono forse oggi smuovere le acque e promuovere, laddove esistano le condizioni e nel pieno rispetto dei diritti degli azionisti, una trasformazione positiva delle imprese editoriali costruendo assetti che facciano propria la lezione liberale.

Leggi anche:  Fin dove arriva la responsabilità delle piattaforme

M.P. Anche i grandi inserzionisti pubblicitari hanno un potenziale potere d’influenza sui media. È sufficiente che minaccino il ritiro degli investimenti. Inoltre succede che chi vende la pubblicità prometta “un occhio di riguardo” nel trattamento delle notizie relative al possibile inserzionista. Quanto pesano questi tipi di condizionamento?

M.M. Nella mia personale esperienza, l’investimento pubblicitario non rappresenta un vincolo laddove la testata abbia i conti in ordine, specialmente in quelle più importanti. Al “Corriere” non ho mai nemmeno saputo se un articolo, mio o di altri, abbia mai provocato ritorsioni da parte degli investitori pubblicitari né mi è mai stato chiesto di “tener conto” delle loro esigenze. All’”Espresso”, dove lavoravo prima, era stato lo stesso. Ricordo di aver saputo che una volta la Comit interruppe una campagna per un articolo sgradito. Ma lo venni a sapere molto tempo dopo, quando tutto era finito.

M.P. Ci sono state reazioni degli azionisti del Corriere e del mondo dell’informazione al suo libro?

M.M. A me nessun azionista ha detto niente. Dei pettegolezzi non mi curo. Alcuni colleghi, invece, scrivendo del “Baco del Corriere”, hanno contestato il diritto di criticare gli azionisti dell’azienda per la quale si lavora e di distinguere, in un libro, le proprie opinioni da quelle della direzione del giornale su vicende specifiche ancorché rilevanti. Perciò hanno qualificato il libro come un attacco al “Corriere”. Sbaglierò, ma credo che il mio giornale non abbia bisogno di certe difese, diciamo così, sopra le righe. Anche perché il difensore per eccellenza, Giuliano Ferrara, usa un argomento che affossa il “Corriere”. Ferrara sostiene che non possa esistere il giornalismo indipendente ma solo il giornalismo chiaramente schierato con i poteri della politica e dell’economia. Se fosse vero, il “Corriere” dovrebbe rinunciare alla sua ambizione di essere una voce autonoma e indipendente: un’ambizione che nella sua lunga storia non è sempre stata perseguita con successo, ma che resta la sua ispirazione di fondo. Personalmente, credo che il “Corriere” sia migliorabile come tutte le attività umane e ho cercato di dare un contributo in questo senso, assumendomene a viso aperto la responsabilità. Altro che attacco. Se proprio volessimo fare un po’ di retorica, dovremmo dire che l’attacco l’ha subito il “Corriere” quando sono stati violati i computer, non quando se ne scrive! Ma torniamo al punto. Sul giornale ho espresso opinioni talvolta dissonanti rispetto alla media: se sono state pubblicate non è perché, come si è letto una volta, la rubrica “A conti fatti” sia fuori dalla giurisdizione della direzione, ma perché la direzione del “Corriere” crede che la varietà delle opinioni sia una ricchezza e non una stonatura. Alcuni punti li ho ripresi e sviluppati in questo libro ricordando prestazioni infelici e affari sbagliati di cui sono stati protagonisti alcuni personaggi che formano la direzione del patto di sindacato di Rcs MediaGroup. Dov’è il problema? Se ho sbagliato qualcosa mi si contesti nel merito. Ma criticare uno o più azionisti non può essere considerato un peccato di lesa maestà in un giornale liberale. Certo, vi è chi identifica l’impresa con i suoi soci e con la sua gerarchia. È una teoria che elegge a obiettivo primario lo shareholder’s value. Ve ne sono anche altre, che mi piacciono di più. Ma in ogni caso, le teorie andrebbero applicate con coerenza e non solo per le parti che fanno comodo. Se lo si facesse si vedrebbe che negli ultimi 15-20 anni Rcs MediaGroup ha perseguito blandamente lo shareholder’s value. Ma più in generale può valere questo approccio un po’ militaresco in un’impresa editoriale che si propone sul mercato come produttrice di informazione indipendente?

M.P. Il libro affronta anche le possibili soluzioni ai conflitti di interesse tra proprietà e direzione dei giornali. Lo fa unicamente con una logica interna, prendendo a riferimento il “giornale indipendente”. Tuttavia, oltre al pluralismo interno, cioè presentazione bilanciata delle diverse posizioni all’interno di un singolo mezzo di comunicazione, esiste il cosiddetto pluralismo esterno, che guarda alla presenza di un insieme articolato e eterogeneo di mezzi di comunicazione offerti al pubblico. E che porta a considerare problematiche molto diverse, come la disponibilità e l’allocazione delle risorse complessive, il grado di concorrenza nei e tra i mercati, il rapporto tra tipologie di media diversi (tv, radio, giornali, internet). Lo ritiene un aspetto secondario?

Leggi anche:  Italia al bivio: intervista a Romano Prodi*

M.M. Assolutamente no. L’allocazione delle risorse tra i diversi media e l’accesso dei nuovi protagonisti al campo dove si esercita la competizione sono questioni centrali tanto quanto la governance e gli assetti proprietari della singola impresa. Nel “Baco del Corriere” non ho affrontato questa materia, alla quale peraltro avevo dedicato più di un intervento sul “Corriere” e, prima sull’”Espresso”, perché non credo alla summa theologica. Ogni giorno ha la sua pena. Non ho inteso nemmeno suggerire ricette universali, che sarebbero ridicole, ma porre la questione dell’assetto del quotidiano di informazione e in particolare del quotidiano di informazione con una proprietà, per così dire, non assestata in quanto non intestata a un soggetto con più del 51 per cento della società.

M.P. La soluzione di un azionariato diffuso con una azione speciale determinante per alcune decisioni cruciali, enfatizza il ruolo del direttore come garante dell’indipendenza. Ma lascia senza risposta il solito quesito su chi controlla i controllori. Una alternativa è quella di una pluralità sufficiente di azionisti, tale da generare conflitti di interesse al loro interno capace di bloccare l’emergere di stabili e consolidati gruppi di potere. Non ci affidiamo, in questo caso, alla fiducia in un deus ex machina, ma alla virtù di una sufficiente competizione interna all’azionariato. Potrebbe essere una soluzione efficace per garantire l’indipendenza politica di un giornale? Anche quando tratta l’informazione economica sui singoli azionisti?

M.M. La competizione tra azionisti all’interno di una società, se è vera, crea confusione e paralisi e non garantisce nulla. E pensare di guidare un’impresa editoriale sul piano giornalistico e su quello manageriale giocando su una specie di equilibrio del terrore tra soci eccellenti mi pare, francamente, arrischiato. Ci vorrebbero persone così speciali che ancora non sono state trovate e forse non esistono in natura. Il modello Reuters, che propongo nel “Baco”, è certamente discutibile. Ma alla Reuters funziona da ventidue anni. Probabilmente lo aiuta la tradizione dell’agenzia e, più in generale, della Gran Bretagna, che è diversa da quella italiana. Certo andrebbe discusso e approfondito nel merito, magari paragonandolo all’esperienza reale che abbiamo avuto fin qui in Italia sotto il profilo del rispetto dei principi, che personalmente pongo al primo posto, della redditività e dello sviluppo dell’impresa rispetto alle sue potenzialità che non sempre coincidono con le disponibilità degli azionisti di controllo.
La domanda di chi controlla i controllori è suggestiva, ma attenzione: se estremizzata porta a negare, su un piano più generale, l’intera filosofia delle Autorità indipendenti, porta ad assegnare sempre e comunque tutto il potere alla politica nel governo della società o agli azionisti nel governo delle aziende, agli azionisti di controllo intendo. È bene che politica e azionisti abbiano molto potere, e grandi responsabilità verificabili. Ma il mondo moderno è abbastanza complesso – e lo è dalla fine dell’Ottocento, almeno da quando venne varato negli Usa lo Sherman Act – per ritenere indispensabile una governance più articolata e meno totalizzante, ricca di momenti di autonomia e non priva, quando serve, di limitazioni dei diritti individuali per ragioni che la politica o la stessa società civile ritengono superiori. Sarebbe ben modesto un mondo dove tutto fosse subordinato al risultato della prossima trimestrale.

M.P. L’insoddisfazione per la qualità dell’informazione però comprende anche la sua superficialità. Il fenomeno del bullismo, tanto per fare l’ultimo esempio, lo si scopre con il video girato su Google, quando bastava passare davanti a una qualsiasi scuola all’ora dell’uscita. Quali incentivi mancano all’informazione per anticipare i fatti invece che andare dietro ai luoghi comuni del momento?

M.M. Capisco e condivido lo spirito di questa domanda. Ma dire che un giornale, il quale avesse scritto del bullismo prima del video apparso su Google, avrebbe anticipato i fatti, testimonia che i fatti sono tali quando vengono rappresentati sul medium che conta. In questo caso Google. Già qui c’è una distorsione, che mi ricorda la storica battuta di un antico caporedattore del “Corriere” secondo il quale una notizia non era tale fino a quando non la davamo noi Il fatto è il fatto. Se capita, e talvolta capita, che i giornali aspettino la tv per intervenire come si deve, questo è un grave problema di conformismo. Ma, a onor del vero, va detto che del bullismo i giornali si erano già occupati altre volte, senza aspettare Google. In questo caso il fatto è diventato fatto perché la forza di un filmato, e di quel tipo per giunta, va al di là di quella della parola scritta.

(1) Massimo Mucchetti, Il baco del Corriere, Feltrinelli 2006, 184 pagine.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Francesco Daveri, un amico che non si dimentica