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Botta e risposta sulle liberalizzazioni

La fase due delle liberalizzazioni sembra avviata. In Parlamento sono in discussione i disegni di legge delega sui servizi pubblici locali e sull’energia. A metà novembre, il Vice-Presidente del Consiglio Francesco Rutelli ha presentato in Consiglio dei Ministri un suo “Manifesto delle liberalizzazioni”, che rappresenta il disegno più ambizioso finora tracciato per accelerare la liberalizzazione dei grandi servizi a rete e riformarne la regolazione. Lavoce.info ha chiesto a Mario Sebastiani e Marco Ponti una valutazione delle proposte del documento in tema di trasporti.

Mario Sebastiani Le misure del documento Rutelli toccano un insieme di settori e di problematiche complesse.
Innanzitutto ben venuta, finalmente, l’istituzione di un’Autorità indipendente di regolazione dei trasporti per dare certezze di regole a un settore da sempre afflitto da mancanza di trasparenza, da una lunghezza estenuante della catena regolatoria, da conflitti di interesse e reciproche interdizioni fra le diverse “anime” dello Stato. Già il governo Dini aveva presentato un disegno di legge simile, unitamente a quello che poi è approdato alla istituzione della Autorità per l’energia, subito cassato da una maggioranza parlamentare trasversale. Il successivo tentativo di Claudio Burlando, con il governo Prodi, venne fermato da riserve espresse dal Quirinale.
Da condividere anche la riforma e l’armonizzazione dei meccanismi di nomina dei vertici di tutte le Autorità indipendenti: proposta del governo e parere vincolante delle commissioni parlamentari competenti. Benissimo anche la previsione che i componenti di ciascuna Autorità scadano in tempi diversi. I meccanismi bi-partisan non assicurano però di per sé buone nomine: la garanzia di professionalità e di indipendenza dei componenti sarebbe grandemente accresciuta da un procedimento trasparente, preceduto dalla pubblicazione dei profili dei nominativi proposti dal governo (se non addirittura di call pubblico delle candidature) e audizioni parlamentari per ciascuno di essi. In definitiva, il deterrente migliore è il controllo sociale (o il suo timore).
Il documento non affronta, invece, una materia a mio avviso di rilevanza prioritaria in pressoché tutti i settori dei servizi pubblici: l’introduzione del principio in base al quale ogni qual volta si ritenga di dover limitare il libero accesso di più operatori, la decisione debba essere preceduta da approfondite analisi di mercato, sottoposte a una valutazione delle Autorità di settore, con una adeguata pubblicità. Dovrebbero indicare se limitazioni vadano introdotte, di che natura, con quali modalità (per esempio gara, affidamento in house) e durata, quale tipo di regolazione applicare, quali i costi-benefici.
Il principio per il quale le limitazioni alla concorrenza (nel o per il mercato) debbono rappresentare un’eccezione vale in primo luogo per i servizi pubblici locali: qui il documento della Margherita si riallaccia al disegno di legge delega presentato al Parlamento, il quale a sua volta si rifà al Dl Vigneri del 2000. La storia italiana (e non solo) dimostra che è un terreno fra i più refrattari alla introduzione di elementi di concorrenza, poiché più labile è il confine fra servizi di mercato e servizi sociali e più forti sono gli interessi locali. Non mi convince perciò la norma contenuta nel decreto legge Bersani che prevede la compresenza nei servizi di trasporto locale su strada di soggetti concessionari di pubblico servizio e di altri che invece operano in regime di libero mercato:questi ultimi andrebbero a posizionarsi sui segmenti redditizi, “spiazzando” il concessionario e aumentandone le perdite a carico degli enti locali. Meglio prevedere un numero sostenibile di operatori in concorrenza sullo stesso mercato, ma selezionati sulla base di procedure competitive, con orari fissati solo nel minimo, con sussidi fissati ex ante in base al trasportato e con biglietti liberamente intercambiabili dai passeggeri, in modo da incentivarli a competere sulla qualità.

Marco Ponti: La proposta di istituire un’Autorità indipendente per i trasporti è certamente da accogliere positivamente. Tra l’altro era prevista anche dal vigente Piano Generale dei Trasporti e della Logistica. Condivisibile è anche l’intenzione di unificare i criteri di nomina di tutte le Autorità indipendenti. Delicatissimo appare il compito di disegnare i poteri della nuova Autorità, tra i quali dovrebbe rientrare anche quello di determinare le “royalties” a favore dell’erario (o di altri soggetti pubblici) in caso di concessioni. Ciò rientra tra le normali prassi regolatorie. Per esempio, caratterizza la regolazione del tipo “double till” per gli aeroporti, che sarebbe ora di prendere seriamente in considerazione. Né sembra da temere che il finanziamento dell’Autorità avvenga attraverso una parte di tali royalties: il conflitto di interessi che si viene così a determinare, in realtà, è solo teorico, dati gli ordini di grandezza diversi dei costi di funzionamento di un organismo di quel tipo e le “royalties” medesime, nonché il fatto che i costi di funzionamento dell’Autorità sono da ritenersi in buona misura costanti.
I criteri di determinazione dei prezzi stabiliti con normativa generale mi sembra possano, e debbano, essere proprio “criteri generali”, senza alcun bisogno che abbiano caratteristiche di rigidità, ma solo che esprimano obiettivi di omogeneità rispetto all’attività regolatoria in altri settori.

M.S. Sulle ferrovie le indicazioni del documento sono tutte di orientamento pro-concorrenziale. La prima riguarda la separazione proprietaria di Rfi e di Trenitalia, con estinzione di Fs come holding che controlla le due società, materia che dovrebbe essere oggetto di un atto di indirizzo del governo. La seconda proposta è di accelerare l’apertura del trasporto passeggeri a media e lunga percorrenza, fissata dall’Unione Europea al 2010, con la parallela messa a disposizione dei concorrenti del materiale rotabile di Trenitalia.
Sui due punti sarei cauto, almeno riguardo ai tempi e alle modalità. L’attuale modello di separazione societaria fra Rfi e Trenitalia funziona abbastanza bene. L’infrastruttura ferroviaria è soggetta a uno stretto controllo pubblico e non è sottoposta a una forte pressione concorrenziale: non perché la concorrenza sia preclusa da barriere, ma perché il mercato è di per sé “ancora” poco appetibile. D’altra parte, fino a che non si privatizzerà integralmente Trenitalia, il conflitto di interessi resterà in piedi, perché sia quest’ultima che Rfi seguiteranno ad avere nel governo un unico azionista di riferimento, con o senza l’interposizione della holding Fs. Del resto, l’Autorità per i trasporti contribuirebbe a dare ulteriori garanzie di terzietà.
Quanto all’apertura alla concorrenza, non vedo perché si debba andare oltre il ruolo di primi della classe attribuitoci, ex equo con pochi altri, dalla riforma Bersani del 2000, che come unico vincolo, poneva la reciprocità: ben venga un’impresa francese a fare trasporto passeggeri fra Roma e Milano, purché sia consentito a operatori italiani di portare passeggeri fra Parigi e Lione.
Se proprio va fatto l’ennesimo atto di indirizzo, dopo le “direttive” Prodi e D’Alema, si cominci con il distinguere una buona volta i servizi che debbono reggersi sulle proprie gambe da quelli che costituiscono a tutti gli effetti servizi pubblici (o sociali, per utilizzare un termine meno ambiguo).
Oggi, l’unico mercato in cui esiste un po’ di concorrenza ferroviaria è quello delle merci, con nuovi entranti che si sono posizionati sui segmenti ricchi, per tipologia di merci trasportate e per direttrice. Il resto è lasciato a Fs, quasi fosse un servizio universale che l’azienda è tenuta ad assicurare nell’interesse generale: anche al netto delle inefficienza attuali, sfido che sia in perdita.
Ecco dunque le domande a cui il governo deve dare risposta: quale deve essere la vocazione di Fs nelle merci? Quella di un operatore di mercato che sviluppa il business conveniente e abbandona il resto, oppure quello di prestatore di ultima istanza? Chi paga il conto? Credo che a livello di Unione Europea una discussione aperta su questo terreno, peraltro comune agli altri paesi, sarebbe possibile. Magari prevedendo, per i segmenti di mercato considerati strutturalmente non redditizi, l’erogazione di sussidi a quantità trasportata, accessibili a tutti gli operatori.
In seguito alla liberalizzazione di Bersani del 2000, poi, Trenitalia non è più concessionaria trasporto passeggeri a media e lunga percorrenza, ma è una “semplice” titolare di licenza ferroviaria, formalmente alla stregua di qualunque altro operatore che voglia entrare sul mercato. Il governo deve dare risposta, anche sul piano giuridico, a una seconda questione: la società è ancora soggetta a regolazione oppure può liberamente fissare i propri prezzi? Esistono effettivi spazi di concorrenza intermodale che giustifichino la consegna del mercato alla sola Autorità antitrust?

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M.P. L’attuale modello di separazione societaria in campo ferroviario non ha funzionato: i risultati di bilancio, di qualità dei servizi, di sviluppo della concorrenza a livello regionale e per il settore merci, di gestione degli investimenti (sovraccosti notevoli, pedaggi attesi dell’Av caricati sull’erario eccetera) sono veramente deludenti. Possibile che l’assetto societario non c’entri proprio per niente?
E mi sembra difficilmente sostenibile anche che il mercato ferroviario sia in sé “ancora” poco appetibile: a parità di sussidi dati alle aziende del gruppo FS, vi sarebbero folle di operatori pronti a entrare.
È vero, invece, che la separazione societaria tra rete e servizi sarebbe solo formale, facendo capo sempre a un proprietario pubblico. Tuttavia, costituisce un primo passo per la responsabilizzazione imprenditoriale delle diverse società, e rappresenta l’ovvia premessa per l’avvio di una graduale privatizzazione di alcuni servizi, e di apertura alla concorrenza senza sussidi incrociati impliciti o espliciti.
L’apertura alla concorrenza “per il mercato” nei servizi passeggeri di lunga distanza sarebbe una “primizia” in Europa: ma cosa ci sarebbe da perdere? Stranieri più efficienti che offrano buoni servizi a tariffe basse, stimolando la competizione degli operatori nazionali non sembrano un male estremo, visto tra l’altro che quella forma di competizione consente gradualità e un controllo pubblico stretto sui servizi erogati (orari, fermate, eccetera). Il “risanamento” dei servizi attuali è stato promesso a ogni cambio di vertici negli ultimi trent’anni. Forse occorre prendere atto che senza pressioni esterne si tratta di una chimera irrealizzabile.
Mi sembra difficile da difendere la visione secondo la quale FS Cargo debba essere considerata un “prestatore di ultima istanza” di servizi condannati ad essere in perdita: se, nonostante i sussidi all’esercizio della rete, agli investimenti infrastrutturali, a chi spedisce merci per ferrovia o in intermodalità, vi sono servizi ancora non remunerativi, forse è più un problema di costi di produzione che di fantomatici “obblighi sociali” ulteriori, che comunque neppure la generosissima Commissione Europea riconosce.
Infine, dare la colpa, come da decenni si fa, alle esternalità non pagate dalla strada non trova conferma nella letteratura internazionale nel caso della competizione con la ferrovia: tali esternalità sono estremamente rilevanti nelle aree urbane e metropolitane, su distanze dove la ferrovia compete con difficoltà, se non per i movimenti pendolari, ma sono molto inferiori per le lunghe distanze, che sono proprio quelle su cui la ferrovia è potenzialmente più competitiva. I problemi semmai sono da ricercare nell’assetto del territorio, sempre più disperso, nel mix merceologico, sempre più spostato verso produzioni ad alto valore aggiunto, e nei modelli di lavoro e di vita, sempre più flessibili nel tempo e nello spazio. Si tratta di fenomeni strutturali di cui occorre prendere atto al più presto, per evitare aspettative e giustificazioni destinate a costare moltissimo alle casse dello Stato. Ma che non possono essere branditi per frenare la liberalizzazione dei servizi ferroviari.

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M.S. Grandi assenti nel documento della Margherita sono le autostrade. E sì che ci starebbero bene, tanto più considerate le polemiche sollevate dall’articolo 12 della Finanziaria, il quale ha combinato buoni principi con discutibili applicazioni. Pochi dubbi, infatti, che la regolazione dei pedaggi sia stata in passato troppo generosa con i gestori autostradali e che dunque vada resa più rigorosa. L’applicazione che però ne dà l’articolo 12 (per certi versi addirittura peggiorato dopo il passaggio alla Camera) è veramente discutibile: pedaggi determinati annualmente, anziché in logica pluriennale di price cap, clausola del “silenzio-diniego” (se l’amministrazione non si esprime sulle richieste di adeguamento, queste si ritengono respinte). Vero è che la materia dovrebbe forse essere demandata all’istituenda Autorità, ma questa sarà comunque vincolata a rispettare le norme di legge. Aggiungerei che, in sede di determinazione dei criteri di pedaggio, soprattutto per le merci, non sarebbe male ripescare il Libro Verde della Commissione europea sulla internalizzazione dei costi esterni, che permetterebbe peraltro anche il finanziamento delle modalità di trasporto più virtuose.

M.P. Il documento tace sulle autostrade. Ma l’articolo 12 del recente “decreto fiscale” se ne occupa parecchio. Molti, e tra loro anche Luigi Prosperetti, hanno ritenuto che con l’articolo 12 si passasse da un “price-cap” a un “cost-plus”, leggendo erroneamente l’annualità dell’assenso agli incrementi tariffari. Ma il permanere di un “regolatory lag” di cinque anni esclude questa ipotesi.
La scadenza annuale è resa indispensabile dalla natura esogena degli investimenti, formalmente “richiesti” da Anas, di cui ovviamente occorre verificare ogni anno lo stato di attuazione. Ma anche i fattori qualitativi richiedono verifiche annuali da parte del regolatore, senza inficiare il contenuto incentivante del fattore X del “price cap”, che viene infatti modificato solo ogni cinque anni.

M.S. Sugli aeroporti il documento sembra voler rettificare alcune delle disposizioni più controverse della legge 248/2005 (cosiddetta dei requisiti di sistema), introducendo un vincolo di destinazione delle “rendite” derivanti da attività commerciali delle società di gestione al finanziamento delle infrastrutture aeroportuali anziché all’abbattimento tout-court dei diritti aeroportuali pagati dalle compagnie aeree. Pur con tutte le difficoltà attuative che una previsione di questo tipo comporta (che ha di fatto bloccato l’applicazione della legge), la messa a punto potrebbe contribuire a smussare le contestazioni sollevate dalle società aeroportuali.
Nella stessa direzione va l’intenzione di definire se e in quali forme e limiti potrà essere consentita la traslazione sui prezzi dei costi di investimento sostenuti dallo Stato. Sotto questo profilo meglio sarebbe tuttavia utilizzare strumenti già concettualizzati, relativamente semplici, coerenti con le migliori pratiche regolatorie ed equilibrati nel contemperare i diversi interessi che si fronteggiano, per affrontare sia la questione dell’utilizzo a fini di interesse generale delle “rendite” aeroportuali sia quella delle nuove situazioni derivanti dai processi di privatizzazione: soluzioni per di più in continuità con la riforma della regolazione varata da Bersani nel 2000 e che non butterebbero a mare i progressi applicativi realizzati nel frattempo.

M.P. Ho l’impressione che per quanto concerne la regolazione aeroportuale, il problema dell’uso delle rendite sia forse mal posto: meglio sarebbe che, grazie a una regolazione ben calibrata, non si creassero rendite, ma soltanto temporanee quasi-rendite dovute a comportamenti particolarmente efficienti. Infatti una volta creato un meccanismo automatico di allocazione delle rendite (per esempio in infrastrutture nuove), diventa poi difficilissimo evitare comportamenti strategici dei gestori, noti in letteratura come “gold plating”, cioè fenomeni di sovrainvestimenti e di sovracosti. Gli investimenti infrastrutturali, e non solo per gli aeroporti, non dovrebbero mai essere affidati ad automatismi, date le caratteristiche di monopolio naturale e legale che mantengono. Ma, certo, questo particolare problema richiede un livello di approfondimento maggiore di quello possibile qui.
Più in generale, è auspicabile che in sede di conversione delle idee contenute nel documento Rutelli in provvedimenti legislativi si tenga ben presente la delicatezza e anche la complessità di alcune problematiche regolatorie. Sarebbe opportuno che l’istituzione di un’Autorità di regolazione indipendente liberi i vari comparti dei trasporti da una regolazione cristallizzata in norme legislative e consenta lo sviluppo di una “prassi regolatoria” capace di evolvere ed eventualmente di auto-estinguersi quando e dove la concorrenza nel mercato sia divenua consistente.

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  1. Paolo Fornaciari

    Leggo su “ Il Sole 24 Ore” di martedì 5 dicembre, nell’editoriale “Produttività, l’obiettivo di un nuovo patto sociale”, a firma Franco Locatelli, ciò che avrebbe detto, e resto allibito, il Presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo al Workshop della Fondazione “Italianieuropei”, domenica 3.12 a Sesto San Giovanni. Riporto testualmente la dichiarazione del Presidente di Confindustria : “ Per quale strana maledizione il nostro Paese cresce meno dei suoi partner comunitari?”. E giù tutto un peana di proposte dal patto sulla produttività alla riforma del mercato del lavoro, dalla previdenza a ricerca e innovazione, dalle liberalizzazioni alla riduzione della pressione fiscale. Concetti tutti condivisi anche dal Vice Premier Massimo D’Alema, che ha affermato di condividere “pressoché del tutto” le proposte del leader degli imprenditori. Ma possibile che nessuno al Workshop si sia chiesto se la causa prima dei nostri problemi, non sia per caso il “caro energia” ? Non ci vuole Pico della Mirandola né Albert Einstein, per capirlo, lo capirebbe anche un bambino ! Titola sempre sulla stessa edizione de “Il Sole” a pagina 21 Jacopo Gilberto :”Energia, bolletta mai così cara”, spiegando che la bolletta energetica del nostro Paese sarà quest’anno di oltre 48 miliardi di Euro contro i 36 del 2005. Ed è inutile insistere con slogan del tipo“ lavorare di più a parità di salario”, quando la perdita di competitività è dovuta al fatto che le nostre bollette elettriche sono doppie di quelle francesi, triple di quelle svedesi e del 60% più elevate della media UE. In questa anomala situazione, particolarmente i settori a maggior impiego di energia elettrica, quali siderurgia, tessile, ceramica, vetro, plastica e chimica elettrolitica, ben difficilmente possono competere sui mercati internazionali. Più che un “patto per la produttività” il Paese ha bisogno di un “patto per l’energia”.

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