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Sud chiama Sud

La cooperazione economica Sud-Sud acquista un rilievo nuovo. La Cina si è impegnata a sostenere lo sviluppo dell’Africa attraverso prestiti, doni e investimenti di varia natura per un ammontare superiore ai 5 miliardi di dollari. In cambio chiede che i beneficiari vendano le proprie materie prime e utilizzino i fondi per acquistare beni e servizi da società cinesi. I paesi africani sono così considerati partner paritari, di cui per esempio è opportuno sottolineare l’attrattività come destinazione turistica. Un approccio ben diverso da quello adottato dai paesi del Nord.

Il governo Prodi moltiplica le iniziative verso i grandi paesi del Sud del mondo. Lo dimostra la visita ufficiale del presidente del Consiglio ad Addis Abeba dal 28 al 30 gennaio 2007, qualche settimana prima della partenza per l’India. Prodi è già stato in Cina ed è attesa la conferma del viaggio in Brasile. Non è un caso.

La nuova geografia di produzione e investimenti

L’emergere di una nuova geografia della produzione internazionale non è una novità. È ormai quasi banale parlare della Cina come della fabbrica del mondo, dell’India come del suo ufficio o del Brasile come della sua fattoria. Ed è in crescita anche l’influenza politica dei grandi paesi emergenti: a novembre si sono tenuti sia il Focac, Forum on China-Africa Co-operation, di Pechino, sia il summit afro-latinoamericano ad Abuja.
Certo, il volume degli scambi tra le due sponde dell’Atlantico meridionale è poco più che una goccia nell’oceano della globalizzazione. Lo stesso commercio sino-africano, malgrado la crescita impetuosa registratasi negli ultimissimi anni, non rappresenta che un terzo dell’intercambio tra Cina e Corea. Eppure, la cooperazione economica Sud-Sud, concetto antico e spesso rimasto allo stadio delle dichiarazioni politiche o poco più, sta acquistando un rilievo nuovo, che il Nord ha interesse a meglio comprendere.
Questi e altri paesi del Sud non si limitano infatti a esportare verso il Nord, o ad attrarne gli investimenti. (1) Secondo l’Organizzazione mondiale del commercio, gli scambi commerciali Sud-Sud pesavano per poco più del 6 per cento del totale nel 1990 e per quasi l’11 per cento nel 2001. Per quanto riguarda gli scambi Sud-Sud di manufatti, secondo l’Ocse sono cresciuti del 12,49 per cento nel 1985-2002, un ritmo ben superiore a quello degli scambi Nord-Nord e Nord-Sud (7,04 e 9,75 per cento, rispettivamente). In un settore come gli oli vegetali e animali, gli scambi Sud-Sud già rappresentano un terzo del commercio mondiale.
La nazionalità delle grandi multinazionali stia rapidamente mutando e i flussi degli investimenti internazionali si stiano ri-orientando. (2) L’Unctad, nel recente World Investment Report, mostra come gli investimenti provenienti da paesi in via di sviluppo e in transizione, compresi alcuni paradisi fiscali, abbiano rappresentato nel 2005 circa il 17 per cento dei flussi mondiali totali. Soprattutto, le cosiddette “multinazionali emergenti” contribuiscono per una quota assai significativa degli investimenti dall’estero in paesi in via di sviluppo e in transizione come Bangladesh, Etiopia, Kyrgyzstan, Laos, Paraguay, Tailandia e Tanzania. Interessantissima l’esperienza della Sierra Leone, paese non solo poverissimo, ma esangue dopo una guerra civile inaudita per ferocia. Il bisogno di investimenti è ovviamente immenso, ma pochi imprenditori sono disposti a rischiare – tranne i cinesi.
Come per gli scambi all’interno della Triade, anche per il commercio e l’investimento Sud-Sud è evidente la concentrazione regionale, anche se è meno marcata dall’integrazione formale che dall’iniziativa della business community. Una constatazione che non sorprende dato che gli scambi all’interno della stessa regione sono particolarmente dinamici in Asia, dove il regionalismo è sempre stato “leggero”, e meno in America Latina e, soprattutto, in Africa, dove invece tonnellate d’inchiostro sono state versate per firmare piani d’azioni rimasti incompiuti.
La dimensione Sud-Sud acquista un rilievo crescente anche in altri ambiti. Per esempio, la Russia è il secondo maggior ricettore di migrazioni internazionali e la metà dei venti principali paesi di destinazione sono nel Sud – dal Pakistan all’Ucraina, da Hong Kong alla Costa d’Avorio. A migrare verso altri paesi del Sud sono anche gli studenti universitari: ce ne sono di più, di stranieri, in Sud Africa che in Canada o in Italia.

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La Cina e gli aiuti allo sviluppo

Infine, ed è su quest’aspetto che si è fino ad ora concentrata l’attenzione dei policy-maker del Nord, alcuni paesi del Sud stanno mettendo in piedi importanti programmi di cooperazione allo sviluppo – anche se rimangono ben cauti nell’utilizzare questo termine.
Se i paesi produttori di petrolio, e in particolare quelli arabi, hanno dato vita a iniziative di questo tipo negli anni Settanta, spesso per aiutare altri paesi mussulmani che erano stati colpiti negativamente dal primo shock petrolifero, oggidì è la politica della Cina ad attrarre maggiore attenzione. Il Focac, per esempio, si è concluso con una serie di impegni di Pechino a sostenere lo sviluppo dell’Africa, o quantomeno di quei paesi che non riconoscono Taiwan, attraverso prestiti, doni e investimenti di varia natura il cui ammontare supera i 5 miliardi di dollari.
Mentre l’Occidente condiziona il proprio intervento al raggiungimento di certe condizioni che garantiscono il buon esito della cooperazione, la Cina paga sull’unghia e non fa troppe domande, a condizione che i beneficiari vendano le proprie materie prime e siano disposti a utilizzare i fondi ricevuti per acquistare beni e servizi da società cinesi. In compenso, mentre nell’immaginario del Nord, l’Africa è rappresentata soprattutto (soltanto?) come fame e miseria, per il ministero degli Affari esteri cinese è un partner paritario di cui è opportuno sottolineare l’attrattività come destinazione turistica. (3) Una differenza d’approccio su cui vale la pena riflettere.

(1) Referenze più precise si trovano nella presentazione “South-to-South Economic Linkages: The Rise of Investment and Trade between the Developing Countries”, Stanford University, 23 ottobre 2006 (http://crgp.stanford.edu/publications/articles_presentations/Goldstein_South_to_South.ppt).
(2) Vedi “Come cambia la geografia degli investimenti internazionali“. E Dilek Aykut e Andrea Goldstein (2006), “Developing Country Multinationals: South-South Investment Comes of Age”, Oecd Development Centre, Working Paper, No. 257.
(3) Kenneth King (2006), “Aid within the Wider China-Africa Partnership: A view from the Beijing Summit“, presentato al China-Africa Links Workshop, The Hong Kong University of Science & Technology, 11-12 novembre.

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Per rompere il circolo vizioso

  1. Jacopo Soranzo

    Si capisce dall’articolo che i “regali” della Cina al continente africano non rientrano in un ottica di cooperazione allo sviluppo, ma quel che è peggio annullano il potere “contrattuale” di organizzazioni (FMI e Banca Mondiale) che vincolano i loro aiuti a determinati ambiti (sanità, istruzione) e all’adozione di una strategia di intervento. Così è successo pochi mesi fa che l’Angola non si sia preoccupata del blocco dei fondi dal parte della Banca Mondiale giustificato dall’eccessiva corruzione del paese, poichè questi fondi sono stati messi a disposizione dalla Cina.
    Per inteso non credo che le forme di prevaricazione della sovranità nazionale adottate da FMI e banca mondiale siano corrette, ma formalmente appaiono più attente allo scopo finale di sviluppo del paese.

  2. Andrea

    Condivido parzialmente il punto di vista dell’autore, solo quando parla dell’incapacità dei paesi del nord di avviare rapporti commerciali veramente paritari con i paesi del sud del mondo. Per il resto, credo che il reale tipo di approccio cinese sia piuttosto diverso da quello riportato dall’articolo, in quanto la non interferenza cinese nelle politiche dei paesi africani, ad esempio il Sudan, è una scusa per potergli vendere armi per la guerra nel darfur in cambio di materie prime ed eventualmente accesso ai loro mercati interni: per gli altri paesi africani non è molto diverso. Insomma i cinesi stanno usando a loro vantaggio le pressioni dell’occidente per una maggiore attenzione per i diritti umani, facendo la parte del venditore discreto e silenzioso. In altri casi, approfittano dell’invadenza delle multinazionali occidentali per poter strappare accordi con determinati paesi. La colpa di tutto ciò risiede nel nostro approccio errato nei confronti di tali paesi, perciò non boccerei sia la politica occidentale che cinese nei confronti dei paesi del terzo mondo, che potrebbero trarre molto più profitto da una collaborazione economica (paritaria ovviamente) con noi occidentali che con i cinesi. L’importante è cambiare atteggiamento nei confronti dei paesi del terzo mondo, e almeno spero che la minaccia cinese di accaparrarsi le risorse di tali paesi dia una svegliata ai nostri imprenditori ed ai nostri politicanti, costringendoli a rivedere radicalmente i nostri rapporti con i paesi del terzo mondo.

  3. riccardo boero

    Con tutto il rispetto per la competenza dell’autore, non credo affatto che le recenti iniziative africane della Repubblica Popolare Cinese siano fondamentalmente differenti dal tradizionale approccio (neo)colonialista europeo.
    Assistiamo infatti all’erogazione di fondi in cambio della firma di contratti di acquisto di materie prime, non differentemente da quanto fatto per decenni ad es. dalla Francia in Gabon, Costa d’Avorio etc etc.
    Il meccanismo rimane quello della corruzione delle leadership locali, che si arricchiscono con progetti personali svuotando il paese delle sue risorse.
    L’unica nuova consuetudine introdotta dalla RPC e` semmai quella di pianificare l’emigrazione definitiva delle maestranze cinesi che lavorano in Africa, e che vi restano anche al termine del progetto. Alleggerendo in questo modo la poverta` in Cina e aggravandola in Africa.

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